La fede tra filosofia etica e politica

Scritto da Francesco di Maria.

 

Nell’ultimo ventennio sono venute prepotentemente affermandosi, in sede filosofica, molteplici forme di riflessione etica, dall’utilitarismo alle filosofie analitiche, dal neocontrattualismo alla teoria dei diritti e al riesame del rapporto tra morale e diritto e a tutta una serie di posizioni etiche “deboli” e “soggettivistiche”, che, nate e sviluppatesi in conseguenza della fine delle ideologie e più segnatamente del crollo del comunismo nel quadro dell’apparente trionfo della democrazia occidentale e della globalizzazione economica, sono apparse presuntivamente interessate ad assolvere non già la funzione di «mero surrogato consolatorio delle grandi ideologie entrate in crisi» ma la funzione di relativizzare o ridimensionare drasticamente i sostanzialismi e i massimalismi delle “forti” e organiche concezioni etiche del passato remoto o prossimo al fine di elaborare e fornire nuove garanzie “razionali” circa la definizione di ciò che fosse o non fosse etico.

Ma tutte queste forme di filosofia morale potevano offrire un contributo realmente significativo «ad una rigenerazione della vita etica» attraverso l’elaborazione di nuove norme etiche per la vita associata, dando per scontata la fine dell’idea di una universale progettualità politico-sociale, essendo ormai disinteressate a quei problemi che precedentemente erano caduti sotto la denominazione di destino dell’umanità, di senso della vita e della storia, di finalità generali dell’esistenza individuale e collettiva, nonché scettiche circa la nozione classica di “oggettività” della stessa razionalità scientifica non più quindi ritenuta idonea ad offrire criteri certi di orientamento ad altre pratiche di vita, e infine abbastanza funzionali a rappresentazioni della realtà e del pensiero quali “vita liquida”, “società liquida”, “modernità liquida”, che sono espressioni create dal sociologo Zygmunt Bauman per descrivere le caratteristiche del mondo attuale, in cui sembrerebbero non esserci più punti fermi e in cui tutto sarebbe soggetto a cambiamenti estremamente rapidi per cui i nostri stessi strumenti conoscitivi diventerebbero subito inadeguati e anacronistici? Perché mai le loro ricette tecniche, i loro criteri minimalistici, in un mondo sempre più frammentato e diviso, sempre più leggero di significati ontologici e di valori alti ma sempre più appesantito da basse e triviali logiche di consumo e di potere, sarebbero dovuti risultare più plausibili delle antiche e “dispotiche” concezioni etico-ideologiche e politiche?

Perché queste etiche postideologiche, postcomuniste, qualche volta postmoderne, ma tutte indistintamente liberali e liberiste, moderate e anticonflittualistiche, formalistiche e criptoprivatistiche, avrebbero dovuto offrire contributi più cospicui ed efficaci alla causa della razionalità e dello stesso agire etico contemporaneo, dal momento che del tutto irrilevante sarebbe apparso il loro impegno a favore di un progetto etico-politico in cui il sapere specialistico non restasse appannaggio di pochi e in cui asfissianti strutture burocratiche in tutti i campi del sapere e della vita associata fossero intelligentemente ma gradualmente rimosse a favore del merito e della creatività produttiva e a scapito del privilegio e di ogni genere di parassitismo,  in cui ancora fossero individuabili sicuri criteri razionali da adottare al fine di ridurre non velleitariamente ma oggettivamente il notevole solco esistente tra democrazia politica e democrazia economica e sociale? Perché quelle etiche, apparentemente intrise di sensibilità civica e di venerazione per gli inalienabili diritti dei cittadini, di rispetto per le libertà costituzionali, di interesse per la modernizzazione dello Stato e del mondo del lavoro, avrebbero dovuto garantire l’avvento di giorni migliori rispetto a quelli perseguiti dalle filosofie e dalle ideologie metafisiche e dittatoriali dei tempi andati, visto che esse sono venute sempre più assimilando la politica a semplice tecnica amministrativa riducendone la tradizionale e ben più impegnativa valenza trasformatrice e visto che esse hanno preferito dirottare gran parte dell’attenzione una volta  riservata all’etica sociale, e quindi a temi decisivi come quelli del lavoro e dell’assistenza sociale e sanitaria, su forme puramente procedurali di etica?

Etiche puramente procedurali, ovvero volte non più a fissare determinati valori da perseguire (quindi non “quali” valori) ma a studiare e ad individuare i modi o i criteri con cui scegliere e preferire questi o quei valori sulla base di un esame imparziale di ragioni pro o contra, senza però avvedersi di dare per scontato l’uguale peso delle opinioni di tutti, che è contraddittoriamente un valore sostanziale e non formale. Non più verità e valori oggettivi e universali ma convenzionali e sempre suscettibili di revisione, non più norme sostanziali e imperative ma avalutative e neutrali, quasi che il concetto stesso di procedura e l’uso concreto che se ne faccia possano essere logicamente privi di connotati valutativi e moralmente irrilevanti e non orientino invece sul piano etico e morale determinati comportamenti piuttosto che altri. Sono queste etiche che hanno veicolato nell’ultimo ventennio concezioni “deboli”, formalistiche e fortemente “relativistiche” di pensiero e di agire morale, contribuendo forse a sgretolare vecchie visioni dogmatiche, autoritarie e repressive della vita e della società ma concorrendo soprattutto a rendere sempre più impenetrabili e opachi i veri meccanismi, le procedure sostanziali e non formali, le verità reali e non semplicemente possibili del mondo sempre più caotico ed insensato in cui viviamo, e sempre più problematico il perseguimento di stabili finalità di uguaglianza e giustizia sociali.

Già, perché sono tali etiche che hanno finito per dare impulso e legittimità più ad istanze soggettive ed intersoggettive quanto meno ambigue e discutibili che non ad esigenze concrete vitali ed universalmente sentite dalla stragrande maggioranza popolare: la certezza del lavoro, di una casa, di una decente e accessibile assistenza sanitaria, di un adeguato sistema pensionistico, di una vita insomma appena degna di essere vissuta.

A quali istanze spesso usate in modo strumentale si allude? Tutti devono studiare e gli studenti hanno il diritto di far valere le proprie esigenze; i docenti non devono più insegnare ex cathedra ma devono preoccuparsi principalmente di capire le necessità psicologiche degli allievi e assecondare il più possibile i loro interessi personali; la libertà personale è sacra e inviolabile e non può essere arbitrariamente minacciata da accertamenti e procedimenti giudiziari formalmente sbrigativi anche se sostanzialmente mirati ed efficaci; il potere politico non può esercitarsi se non nel rigoroso rispetto del mandato popolare sebbene tale mandato sia molto più generico e ignaro di quel che si vuole pensare in rapporto alla miriade di problematiche e di interessi anche strettamente personali che si riversano poi in sede parlamentare e legislativa secondo modalità inimmaginabili e sconcertanti; il popolo è sovrano, anche se poi la sua sovranità è necessariamente condizionata dal debito pubblico e subordinata alla dittatura finanziaria di banche e mercati; la democrazia è intoccabile anche se per inderogabili ragioni economiche e finanziarie nel suo nome lo Stato Sociale non può essere conservato e gli interessi privati non potranno non sopravanzare gli interessi pubblici per inderogabili necessità statuali e governative, mentre lo Stato di diritto non corre alcun rischio per quanto lo Stato dovrà essere pronto a reprimere anche violentemente eventuali rivolte sociali di massa che dovessero mettere in discussione l’ordine e la sicurezza nazionali soprattutto agli occhi degli osservatori internazionali.

Quanto al resto, cioè all’etica ambientale, alla bioetica, alle pratiche etiche relative alla nascita e alla morte degli individui, alla natura eterossessuale o omosessuale della relazione amorosa e della stessa famiglia: ecco di tutto questo e d’altro ancora si potrà discutere con la massima libertà purché non venga mai recata offesa a nessuno e in particolare ad ambientalisti, animalisti, cultori della procreazione in vitro o dell’eutanasia, omosessuali e via dicendo. Chiaro?

Declinando al plurale l’etica, facendola diventare le etiche persino nelle forme più bizzarre e giocose e ognuna necessariamente dotata di una sua intrinseca debolezza epistemologica e statutaria, creando non solo il pluralismo etico ma il suo primato su qualsiasi altra possibile opzione di natura etica, non si è potuto evitare né un’anarchia di valori un dissesto deontologico molto ampio né un complessivo fallimento etico-politico né peraltro una colossale alterazione economico-finanziaria di proporzioni planetarie. Si voleva l’etica analitica e questa ha veicolato cosí brillantemente la scomposizione avalutativa di tutti gli interessi leciti ed illeciti della società da favorirne alla lunga non solo una pari legittimità ma una conflittualità senza pari sfociata inesorabilmente in una crisi di difficile soluzione, si voleva il minimalismo etico e questo ha fatto cosí bene la sua parte consentendo a individui e gruppi di fare indisturbati tutto quello che hanno voluto e soprattutto di rendere minimi o non più esistenti i diritti e il diritto ad una vita dignitosa di alcuni milioni di persone, si voleva che l’etica desse solo prescrizioni tecniche e tanti di noi (anche di noi cattolici) sono stati cosí bravi nell’abdicare al compito morale di dire con chiarezza cosa sia o non sia tassativamente vero o falso, giusto o ingiusto, onesto o disonesto, da favorire il trionfo di laici e di credenti senza scrupoli e votati ad esercitarsi molto più devotamente ed efficacemente nelle sofisticate e truffaldine tecniche finanziarie che non nelle semplici e disarmanti tecniche caritatevoli dell’amore e della fede. Ma cosa vuoi, che cosa cerchi: mi sono sentito dire talvolta da taluni interlocutori molto significativamente disturbati da diagnosi come quella qui formulata.

L’etica come tecnica ha dato piena cittadinanza da noi persino all’idea di un “governo tecnico” che è ormai realtà e che ancora in questi giorni sta attuando non solo l’antico sogno di tanti liberisti, ovvero quello di creare uno Stato sempre più agile e moderno, sempre meno appesantito da gravami insostenibili come pensioni, assistenza sanitaria, istruzione obbligatoria, spese infrastrutturali, sempre più propenso a favorire la libertà imprenditoriale dei privati e principalmente di grandi e potenti privati, nonché il trasferimento di ingentissimi capitali e dello stesso capitale sociale nelle casse delle più alte oligarchie finanziarie del mondo, ma soprattutto l’ambizione mondialista e criptomassonica, non molto conosciuta dal grande pubblico ma vecchia almeno di 60-70 anni (si vedano i precisi studi di Paolo Barnard), di cedere tanta di quella sovranità nazionale alle entità sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la BCE, le varie Commissioni politico-finanziarie internazionali sempre attivissime nella più assoluta segretezza delle loro riunioni periodiche, da riuscire prima o poi a fare del nostro Stato, della nostra sovranità nazionale, poco più di una semplice appendice di un nuovo Ordine globale a centralità finanziaria e a struttura fortemente antidemocratica e dittatoriale.

E’ accaduto che, con il progressivo indebolimento delle basi razionali e fondative della riflessione critica a tutto favore delle esperienze soggettive ormai liberate da visioni organicistico-finalistiche o metafisico-ontologiche della vita e del mondo, con la conseguente rinuncia ad individuare ragioni sostanziali o teleologiche nei processi in atto o a riproporre una nuova e più efficace ricerca di senso nel groviglio apparentemente contraddittorio degli accadimenti contemporanei, un relativismo etico spicciolo e volgare e spesso condito di rozzo utilitarismo prendesse decisamente il sopravvento su princípi etici non negoziabili ancora per molti ma sempre più soggetti al tarlo della critica massmediatica e di costumi vieppiù arbitrari e licenziosi: princípi quali certamente la difesa della vita in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti, la difesa e la promozione della struttura naturale e quindi eterosessuale del matrimonio e della famiglia, la tutela del diritto dei genitori ad educare e a far educare i propri figli in modi e in forme da essi liberamente scelti, ma anche la difesa del lavoro e della dignità dei lavoratori, la lotta alla corruzione e allo spreco pubblico, l’impegno contro privilegi di casta e contro abnormi differenze economiche esistenti tra diverse categorie sociali e professionali, uno spirito di condivisione nei beni materiali e spirituali con i soggetti sociali più sfortunati e più privi di tutele, l’opposizione a qualsivoglia forma o modello idolatrico di Stato politico ed economico-finanziario (a cominciare dalla falsa ed ipocrita religione della “flessibilità”) come a tutte le perversioni cui si intendesse dare diritto di cittadinanza nel nome dei diritti civili e dell’emancipazione storico-umana. 

Almeno chi si professa cattolico non dovrebbe avere dubbi e perplessità non solo sulla legittimità ma anche e soprattutto sull’obbligo spirituale di condividere e sostenere una denuncia etico-politica di questo tipo, benché ognuno poi sia tenuto a rendere conto a Dio delle modalità e delle ragioni più intime con le quali avrà sentito eventualmente di agire alla luce di quanto essa implicitamente viene implicando o prescrivendo. I cattolici coerenti con la loro fede non possono pensare che l’etica sia senza verità (secondo il fortunato titolo di un libro di U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna, Il Mulino, 1982), anche se non ignorano che la sua o le sue verità non sono facilmente individuabili. E non possono pensare di conseguenza di poter aggiustare le cose a modo proprio, vivendo a proprio piacimento e operando in termini di puro tornaconto personale, magari avvalendosi di tutta una serie di razionalizzazioni utili a mascherare di perbenismo l’invereconda e inconfessabile realtà delle proprie ambizioni e dei propri atti.

Un’etica che non sia permanente tensione verso la verità, verso ciò che può dare luce alla vita e alla storia e senso a permanenti esigenze umane di libertà e giustizia, non è un’etica ma un semplice prodotto commerciale o al massimo il frutto più emblematico di un’intellettualità fine a se stessa e completamente sganciata dalla realtà. La verità verso cui tende l’etica cattolica è Cristo, con i suoi insegnamenti e i suoi comandi, nei confronti dei quali non ogni modo di agire nella politica come nella vita, non ogni scopo politico perseguito nel nome del popolo, non ogni “buona intenzione” politicamente coltivata per conto degli altri, potranno risultare tranquillamente compatibili ove non siano onestamente finalizzati al vero bene del prossimo, dei cittadini, della comunità nazionale.     

        Oggi, in particolare, bisogna molto diffidare di quei professori e accademici “cattolici”, beneficiari di reddito da capogiro, chiamati a governare l’Italia in un momento storico in cui il governo dell’Italia, per la situazione di grave disagio economico in cui larga parte della sua popolazione è venuta a trovarsi, necessiterebbe molto più di sicure competenze morali ed evangeliche che non di presunte e sofisticate competenze tecniche e finanziarie. C’è una nazione che abbonda ormai di poveri, di persone disagiate e sofferenti, di gente disoccupata e disperata, di intere famiglie prive di qualsiasi sostegno, e quale sarebbe la migliore terapia per proteggere la nazione, per porre le condizioni di una necessaria ripresa economica e di un nuovo benessere sociale, per evitare che le future generazioni abbiano troppo a patire a causa di una perdurante miopia politica e di un diffuso egoismo sociale che vorrebbero omettere di attuare pur dolorose “riforme strutturali”? La risposta è stata data senza alcuna esitazione e la sua sostanza è ormai nota a tutti: prendiamo soldi innanzitutto ai meno abbienti e, per il resto, si vedrà poi quello che si può fare; licenziamo, nel pubblico come nel privato, quanti più dipendenti possibile in base a criteri non tanto di convenienza produttiva quanto di convenienza finanziaria; vediamo di liberarci il più possibile di uno Stato sociale che costa troppo e i cittadini (ivi compresi i più poveri) comincino a farsi carico personalmente di spese un tempo sostenute dallo Stato; cerchiamo cosí di ridurre il nostro debito pubblico magari dispensando per il momento lo Stato dal compito pur doveroso di pagare i debiti da esso contratti verso molti suoi stessi cittadini; esortiamo pure le banche ad essere più disponibili verso le imprese, le famiglie, i giovani, ma senza uno zelo eccessivo che rischierebbe di ingenerare qualche dubbio su di noi e sulla nostra fedeltà corporativa nell’animo dei nostri amici bancari.

I risultati di questa mirabile strategia sono sotto gli occhi di tutti: i medici dello spread  hanno fallito perché lo spread continua la sua folle corsa nonostante l’aumento vertiginoso delle tasse, i severi provvedimenti fiscali adottati e l’intensificazione della lotta all’evasione fiscale, lo smantellamento di buona parte del Welfare, la dismissione di parte del patrimonio immobiliare pubblico, nonostante insomma un’opera di elegante ma cinica e già consistente spoliazione economico-sociale.

Certo, ammettono: lo spread continua a salire, mentre il lavoro continua ad essere inesistente e la disoccupazione è galoppante, ma non perché, precisano, non dovessimo fare quello che abbiamo fatto, che comunque, salvo imprevisti, darà i suoi frutti fra dieci o quindici anni (!), ma semplicemente perché ancora l’Europa non ha fatto la sua parte. Ed è inutile chiedersi perché allora, prima di porre in essere un cosí devastante piano di chirurgia sociale, non si sia pensato di chiedere e pretendere che l’Europa cominciasse a fare la sua parte benché pochi sappiano in cosa dovrebbe consistere questa parte. E’ inutile, perché i “tecnici” sono pronti a rispondere: quello che abbiamo fatto dovevamo farlo comunque, per il bene del nostro Paese rispetto ai mercati, anche a prescindere dalle ingiunzioni europee e dalle richieste dei famigerati mercati finanziari.

Abbiamo il dovere di diffidare di questi ricchi o benestanti signori, di questi sofisti e anzi di questi eristi della scienza economica contemporanea, che vorrebbero che la realtà fosse il prodotto delle loro teorie piuttosto che il contrario e che partecipano alle sante messe domenicali ignorando completamente il significato della condivisione evangelica, della evangelica comunione dei beni e delle relative implicazioni. E la realtà è che, dove c’è povertà, si dovrebbe intervenire per alleviarla subito e senza rinvii e non per accrescerla; che non ci sono motivi né giuridici, né finanziari, né di una qualsivoglia opportunità politica o di politica industriale, per evitare di prelevare tutto ciò che serve a fronteggiare le difficoltà esclusivamente o prevalentemente dalle tasche dei tanti che, al di là di ogni ragionevole dubbio, possono essere definiti ricchi. La realtà è anche che non c’è debito pubblico che si possa pretendere di saldare quando tutti gli indicatori dicono chiaramente che esso corre sempre più in avanti a dispetto degli ingenti sacrifici già imposti alla popolazione, come non c’è debito pubblico che possa esigere legittimamente un disumano sacrificio materiale e spirituale di intere popolazioni: di ciò Dio chiederà conto a tutti e ad ognuno di noi e i maggiori responsabili della trasgressione della sua volontà dovranno prima o poi pagare il conto più salato.

Se anche ci fosse un solo povero abbandonato alle sue difficoltà e non adeguatamente aiutato, il cattolico non potrebbe non vedere in ciò un grave problema di coscienza. Figuriamoci, dunque, quanto debba essere alta la rilevanza morale della crisi attuale per la coscienza cattolica. Un laico come il presidente Napolitano, sostenitore ad oltranza del “governo tecnico”, direbbe forse a mo’ di rimprovero che l’analisi qui proposta è tra quelle che corrispondono «a forme di radicalismo religioso e politico», per citare le sue testuali parole, dimostrando tuttavia di non avere molta familiarità con la radicalità del messaggio evangelico. La generazione di oggi potrebbe essere l’ultima generazione della storia perché storicamente nulla è scontato e la stessa sopravvivenza della specie umana come del pianeta su cui si sviluppa non può essere garantita sia pure per periodi relativamente brevi: è a questa generazione dunque che oggi, evangelicamente, vanno dati pane, lavoro, assistenza, dignità, non domani o dopodomani, specialmente se il domani o il dopodomani non prevedono una configurazione economica e sociale diversa da quella odierna e migliore di quella odierna ma sostanzialmente identica a quella che si dice di voler correggere. Correggere: come? Lasciando che povertà e malessere sociale dilaghino in un mondo in cui un piccolo esercito di ricchi epuloni, di scaltri operatori finanziari, di furbissimi esperti economici e di politici senza scrupoli, continua a celebrare periodicamente con apparente e boriosa saggezza la propria ricchezza e il proprio potere?

Se oggi c’è solo qualche pane e qualche pesce, oggi bisogna dividerli in modo equanime perché a nessuno manchi di che sfamarsi. Se c’è abbondanza, bisogna che una parte sia conservata per i momenti di penuria e che il resto sia diviso secondo le capacità e i bisogni di tutti e di ciascuno, rispettando e valorizzando tutti i talenti individuali elargiti da Dio e corrispondendo in modo adeguato alle legittime aspettative materiali e morali di tutti. Il Vangelo chiede che questo si faccia anche in sede politica sociale e finanziaria e, ove determinati “poteri” vogliano esercitare un potere dispotico di qualsiasi natura sui popoli o su determinati popoli, la Chiesa avrebbe il dovere di mettersi al loro fianco proclamandone il pieno diritto ad opporre resistenza in modi e forme quanto più possibile incruenti fino a quando non vedano apertamente riconosciuta la legittimità delle proprie istanze.

Qui non è più tempo di dati, di numeri, di cifre, di calcoli, di indicatori economici e quant’altro; è invece tempo di cambiare mentalità, è tempo di conversione, è quindi anche tempo di passare da una scienza economica fondata su concetti ambigui e mistificanti come quelli di “debito pubblico”, di “spread”, di “rigore”, di “crescita” e via dicendo ad una scienza economica che continui a parlare di queste cose ma attraverso una profonda e radicale revisione dei criteri logici e morali su cui queste cose vengono ad essere costruite, in modo che non accada mai più che, per colpa dei banchieri e dei governanti e dei loro interessati corifei, tante moltitudini assolutamente incolpevoli dei buchi di bilancio e delle cicliche crisi economiche debbano vivere o piuttosto morire in funzione di un idolatrico “debito pubblico” ed essere oggetto di sistematiche estorsioni dello Stato nazionale o di qualche oscura entità sovranazionale. E’ tempo infine che la politica si converta ai valori e alle finalità evangeliche affinché essa sia finalmente capace di governare senza dominare e di non essere dominata da “governi tecnici” che sono costitutivamente preposti ad assecondare, astutamente o spudoratamente a seconda dei casi, le voglie voraci di mercanti e banchieri.

La fede fa scoprire il primato di Dio. La politica, che è una dimensione essenziale del vivere, deve essere vissuta in forme inequivocabilmente corrette come strumento di solidarietà e di servizio per il bene comune. Quanto più la politica, la prassi sociale e la stessa legalità, saranno intrise di onesto spirito etico, e quanto più tale spirito etico sarà intriso di sincero spirito evangelico, tanto più esse saranno capaci di resistere “alla legge del più forte” e degli stessi “poteri forti” (dai poteri ideologici a quelli economici e finanziari, dai sistemi autoritari o dittatoriali all’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa). Senza Vangelo, senza Cristo, persino la più perfetta delle società umane sarebbe iniqua e corrotta. Senza Vangelo, senza Dio, la politica è solo un campo di battaglia per la conquista del potere: aumenta la crisi dei partiti mentre diminuisce sensibilmente il loro rapporto con la base sociale, si allarga la disaffezione per lo Stato e per lo stesso Stato democratico mentre i cittadini tendono a cercare forme di gratificazione sempre più ai limiti della legalità e sempre meno preoccupate del bene comune.

Spetta principalmente ai cattolici di cuore e di mente promuovere oggi una efficace e liberante rivolta delle coscienze con la preghiera, con un comportamento integro, con l’intelligenza e con azioni generose e coraggiose. E sempre nel vincolo dell’amore per Cristo.