Non di sola economia vivrà l'uomo
Può darsi che mi sbagli, ma forse nella storia dell’umanità non era mai successo che a dominare ossessivamente o paranoicamente sul piano culturale fosse un pensiero unico come quello odierno, ovvero un pensiero e un sapere economici che non si preoccupano minimamente di interagire con altri ambiti fondamentali della cultura ma che ignorano completamente e la cultura e le persone. Qui ormai si ha a che fare con un sapere economico di tipo tecnicistico completamente avulso da qualsivoglia concezione filosofica e religiosa della vita e del mondo, e che questo sapere sia non solo predominante ma quasi legittimato a farla da padrone e ad esercitare una vera e propria dittatura su ogni ragionamento o argomentazione extraeconomici è dimostrato dal fatto che gli stessi partiti della sinistra, un tempo vere e proprie fucine di idee e progetti alternativi all’“ordine di cose esistente”, sembrano ormai segnati indelebilmente da una sorta di deficit permanente di riflessione teorica, diciamo pure di analisi e proposte filosofiche capaci di fronteggiare il momento presente e di imboccare coraggiosamente delle strade nuove o antiche, se si vuole, ma tali da sbarrare il passo, costi quel che costi, ad ingordi potentati finanziari e a logiche economiche semplicemente aberranti che rischiano a questo punto di prendere il posto dei meccanismi biologici della teoria darwiniana della selezione naturale.
D’altra parte, tutti quei grandi economisti che ormai fanno sempre parlare di sé, procedendo il più delle volte a tentoni, spesso o quasi sempre sbagliando previsioni, e mai o quasi mai ammettendo i propri errori che tendono anzi a giustificare nei modi più bizzarri o strampalati, sono gli ideologi di un nuovo sistema internazionale e sovranazionale di potere non solo economico ma decisamente politico che ha deciso di creare un nuovo ordine mondiale a struttura rigidamente finanziaria e classista attraverso una progressiva riduzione delle tradizionali prerogative degli Stati, a cominciare da quelle della loro indipendenza e sovranità. Si sente infatti sempre più insistentemente parlare di cessioni di sovranità nazionale senza che peraltro i partiti politici avvertano la necessità morale e politica di opporsi in modo indignato e risoluto a questa tragica se non addirittura imminente eventualità.
Non ci sono intellettuali, non ci sono filosofi, non ci sono giuristi capaci di dimostrare che ci stiamo avvicinando ad una catastrofe sociale, morale, politica, oltre che economica e finanziaria, di proporzioni inaudite che rischierebbe di mettere in discussione persino la struttura antropologica dell’umanità, alterandone irrimediabilmente sentimenti e princípi di convivenza e di socialità. Come ha detto bene la filosofa Francesca R. Recchia Luciani, nella crisi che stiamo attraversando l’essere umano, ed è la prima volta che ciò accade storicamente, non conta assolutamente nulla, perché quel che conta sono l’inflessibilità dei numeri e delle cifre non importa se calcolati correttamente o scorrettamente, l’assoluta ineludibilità del debito pubblico non importa se derivante da criteri contabili morali e giuridici legittimi o arbitrari, l’inevitabile commissariamento ovvero asservimento delle nazioni inadempienti e insolventi: «Le persone, oggi ridotte alle categorie di produttori e consumatori, sono stritolate dal meccanismo letale dei grandi poteri finanziari e non è un caso che nei diversi Paesi si salvino le banche e non le persone. Quello che vige è un sistema veterocapitalista di controllo degli esseri umani che non lascia respiro. Per questo Marx risulta più attuale che mai, e oggi può a ragione essere considerato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi» (intervista di Virginia Perini in “Affaritaliani.it”, 4 maggio 2012).
E quel che qui non si può e non si deve mancare di sottolineare è che responsabili di questa situazione non sono solo le destre ma anche le sinistre le quali «hanno avuto un progetto che poteva sembrare anticapitalistico, ma che di fatto non lo è stato mai», perché mai esse hanno dichiarato guerra sul serio ad un sistema fortemente privatistico, fondato sul profitto illimitato o indeterminato e sullo sfruttamento della forza lavoro in molti campi produttivi e di natura sia tecnica e manuale che intellettuale, come anche sulla produzione ad oltranza di merci e sulla contemporanea mercificazione di ogni più intimo aspetto della vita morale delle persone: «Porre gli esseri umani davanti al sistema economico», osserva polemicamente e giustamente la professoressa Recchia Luciani, docente di filosofia ed epistemologia del Novecento presso l’università di Bari, «non è un progetto utopico, è una rivoluzione concettuale fattibile». Ma le sinistre hanno fatto finta di non saperlo, pur tra proteste e contestazioni ipocrite antisistema, non tanto per cecità teorica quanto soprattutto per inerzia morale e compromissorio opportunismo politico.
Spiace peraltro constatare che anche nelle file cattoliche, dove dovrebbe essere ancora vivo il ricordo del comunitarismo economico e sociale delle più antiche comunità cristiane, e ancora presente un senso non meramente formale o giuridico dell’eguaglianza tra gli uomini, nonché una capacità morale di promuovere la valorizzazione delle capacità e dei meriti personali in funzione del bene e del benessere collettivi e infine una sincera e granitica fede religiosa nell’avvento di un mondo più giusto e più libero e quindi meno inquinato da egoismi e prepotenze di ogni genere, non ci siano forse personalità capaci di organizzare un movimento culturale e politico che, nell’esplicito nome del Cristo delle beatitudini, scenda risolutamente nell’arena politica per riorientare radicalmente i processi politici in atto e la stessa mentalità politica dominante.
Per la studiosa citata, in un contesto cosí disastrato sarebbe indispensabile il ritorno di un sapere filosofico aggressivo sia dal punto di vista critico che dal punto di vista etico e morale: «la filosofia è fondamentale perché solo il suo sguardo complessivo può aiutare a riflettere in maniera completa e sensata su quella realtà che deve essere trasformata dalle idee, sui meccanismi reali di funzionamento della vita sociale, portando al centro del cambiamento l'essere umano, i suoi bisogni e le sue necessità». Ma per i credenti non può non accompagnarsi ad una vigorosa rinascita dell’impegno filosofico un nuovo modo di intendere e praticare la fede in Cristo: un nuovo modo rispetto ad una corrente prassi spirituale e religiosa troppo abitudinaria e particolarmente flemmatica in ordine a questioni divenute cruciali della vita economica e sociale e della vita tout court; ma un modo sempre antico in quanto sia conforme o più conforme alla fede dei nostri più antichi padri per i quali tanto gli spazi privati quanto gli spazi pubblici furono ambiti in cui venne esercitandosi con identica passione la loro fede.
Anzi, per i credenti che ritengono giustamente ed evangelicamente innaturale vivere di sola economia e che percepiscono il “regno di Dio” non solo come una realtà metastorica ma anche come un urgente e indifferibile compito di umanizzazione di questo mondo, il destino della ricerca filosofica della verità, dell’amore e della giustizia tra gli uomini e per gli uomini non potrà rivelarsi proficuo al di fuori di un rapporto sempre più stretto di collaborazione con la fede in Colui che solo potrà salvarci da tutte le patologie della vita e della storia.