Pietro Barcellona: un cammino verso Cristo.

Scritto da Francesco di Maria.

 

Pietro Barcellona, noto intellettuale ed accademico italiano di area marxista, non gradisce la definizione che di solito si dà di lui e della sua esperienza spirituale, ovvero di «ateo marxista convertito al cristianesimo», soprattutto perché essa risulterebbe funzionale ad una doppia quanto ingiustificata “censura”: quella laica, per la quale il suo itinerario intellettuale sarebbe venuto contaminandosi in senso religioso, e quella cattolica, secondo cui gli attuali sbocchi cattolici di tale itinerario risulterebbero “inaffidabili” soprattutto perché non sempre compatibili con gli insegnamenti della Chiesa e con una lettura corretta e appunto rigorosamente cattolica del vangelo. Egli ha perciò sentito l’esigenza anche recentemente di chiarire la sua posizione e di precisare in particolare quanto segue: «Io non mi sono convertito l’altro ieri per effetto di un’improvvisa illuminazione ma ho vissuto in tutta la mia vita un percorso tormentato di ricerca oltre ciò che di volta in volta è sembrata l’ultima spiegazione possibile del nostro stare al mondo. Il filo costante della mia ricerca sono stati la critica del presente e il rifiuto di un mondo che non mi è sembrato mai il migliore dei mondi possibili. La mia riflessione politica si è sempre perciò intrecciata con la riflessione filosofico-religiosa» (Come sono diventato cristiano, in “L’Unità” del 4 agosto 2012).

Barcellona ricorda di essere stato «studente» in qualche modo già ribelle e anticonformista «dei salesiani» a diciotto anni e di aver cominciato subito dopo, ai tempi universitari, a frequentare il mondo comunista sia sul piano politico che etico-culturale. Ed è qui che la sua evoluzione intellettuale e morale appare tappezzata da una serie di incontri significativi: da Concetto Marchesi a Pietro Ingrao, da Freud a Pier Paolo Pasolini, da Ernesto De Martino a Julia Kristeva.

Un libro di Concetto Marchesi, in cui questi spiegava la sua fede comunista «con l’insopportabile visione dei giovani braccianti che tornavano malati di malaria dal lago di Lentini con una borsetta di pane e una bottiglia di vino» (ivi), lo indusse a capire meglio come l’ingiustizia non fosse affatto «un puro accidente naturale al quale dedicare qualche rimedio compensativo»: ciò «che mi colpì fu che Marchesi non era propenso ad un atteggiamento di altruismo caritatevole ma si sentiva colpito nella sua stessa persona come se questa fosse offesa nella propria dignità dalla condizione subumana dei braccianti di Lentini». E ricorda che «già in quegli anni era per me…diventato centrale il problema del dolore di chi subisce la violenza dell’emarginazione e che viene implicitamente condannato ad occupare sempre l’ultimo gradino della scala sociale. Una rabbia cresceva dentro di me che non riguardava soltanto una generica vocazione alla generosità verso i più deboli ma la consapevolezza di una ferita interiore che toccava la mia stessa identità di meridionale» (ivi). In altri termini, già allora gli sembrava di avvertire come l’amore per il prossimo non fosse tanto questione di carità, di donazione di sé, di sacrificio, quanto di una sorta di “santo” o nobile egoismo, dal momento che gli sembra del tutto condivisibile la recente interpretazione di Massimo Cacciari (“Ama il prossimo tuo”, scritto con Enzo Bianchi, Il Mulino, 2011), per cui il samaritano del Vangelo «non è un altruista ma uno che sente nella ferita dell’altro la propria ferita, un uomo che cura l’altro per curare se stesso» (ivi).  

Al riguardo, francamente, i cattolici, che nel tentativo di cogliere il senso più profondo dei singoli episodi evangelici non prescindono mai dalla ricerca di una sempre nuova consapevolezza del senso stesso degli atti compiuti da Cristo e dal senso complessivo della sua vita e della sua opera di salvezza, possono pensarla anche diversamente, giacché il modello più alto di samaritano è il Cristo medesimo che soccorre l’umanità gravemente ferita offrendo la sua stessa vita e che non ha affatto il problema tutto e solo “psicologico” di curare l’altro per curare se stesso ma semplicemente la preoccupazione di salvare il prossimo proprio perdendo consapevolmente se stesso e la propria vita.

Fatte le debite proporzioni, anche ciò che muove il samaritano evangelico verso l’altro non è affatto l’esigenza intellettualistica di appagare un bisogno personale di umanità e di identificazione che si presume sia presente e insopprimibile nelle persone più “razionali”, ma l’esigenza spirituale, del tutto estranea ed antitetica ad una logica e ad un’etica utilitaristiche ovvero ordinariamente umane, di mettere a repentaglio la propria rispettabilità e la propria sicurezza (perché il soccorrere chi si trovi in difficoltà può comportare talvolta anche dei rischi per la propria incolumità e la propria “immagine”) ad esclusivo beneficio di chi in quel momento versi in uno stato di sofferenza o di pericolo.

Purtroppo, Barcellona non si avvede del rischio che il cristianesimo sia trattato come un “sapere”, anche se particolarmente significativo e prezioso per la storia della cultura e dello stesso genere umano, e come un sapere in cui ci si possa magari esercitare più o meno brillantemente da un punto di vista teoretico e dialettico, proprio come Cacciari ha spesso dimostrato di saper fare con grande ma ambigua maestria. Ma il vangelo, il cristianesimo non sono un trattato teorico o dottrinario che si presti ad essere variamente manipolato o strumentalmente utilizzato dai sapienti di questo tempo allo stesso modo di come la parola salvifica di Gesù non si prestò mai ad essere realmente compresa da quei “sapienti” e da quegli “intelligenti” del suo tempo che si sentivano depositari delle verità stesse di Dio.

Il seguace di Gesù, il vero interprete di Gesù, il fedele custode dei suoi insegnamenti, non sarà mai capace di intendere autonomamente alcuna verità divina se non accettando la divina rivelazione in e attraverso Cristo, se non credendo in Cristo e testimoniando concretamente Cristo anche e soprattutto alla luce della tradizione apostolica. Condizione alla quale, per loro stessa ammissione, i filosofi come Cacciari non sembrano disposti a sottomettersi.

L’incontro con il Vangelo è innanzitutto e fondamentalmente l’incontro con una persona; certo è l’incontro con la verità che però non è una cosa, non è un oggetto, non è una struttura logica costituita da complesse leggi razionali virtualmente accessibili, come troppi filosofi sono abituati a ritenere, ma una persona in carne ed ossa, una persona dotata di intelligenza divina e di potere sovrannaturale. Si tratta di capire bene quel che questa persona dice ma la verità non è altro da quel che essa dice.

Dunque, è certamente apprezzabile, sotto l’aspetto etico-politico, quel che afferma Barcellona: «ciò che mi colpiva dell’egemonia capitalistica sulla vita quotidiana era la folle pretesa di ridurre l’uomo ad una pura dimensione economica. L’alienazione di cui avevo appreso con Marx la straordinaria manifestazione nel feticismo delle merci e del denaro mi è apparsa subito un furto dell’anima e ho visto nell’espropriazione della libertà interiore la ragione più profonda della passività delle masse, specialmente meridionali» (ivi).

Ma ciò che può decidere della compatibilità di tale sensibilità etico-politica con una visione evangelica della vita e del mondo non è certo «l’apporto della psicoanalisi come antidoto a una pura accettazione del presente dominato da un conformismo senza alcuno spirito critico che produceva passività e adattamento nelle masse meridionali» (Ivi), sia pure integrato dalla «critica di quell’economicismo» che era stato per molti decenni «uno dei punti indiscutibili della vulgata marxista» (ivi), ma la disponibilità, specificamente evangelica per l’appunto, a pregare e a lottare non solo per una salvezza economica e politica di masse oppresse rispetto ad un determinato sistema di potere e di sfruttamento ma anche per una salvezza integrale di ogni essere umano rispetto a strutture esteriori ed interiori di peccato, in modo tale che il proletario o l’oppresso in genere non sia ritenuto già spiritualmente salvo in quanto tale ma solo in quanto soggetto ancora capace di perdonare e di amare disinteressatamente il suo prossimo ed eventualmente lo stesso prossimo da cui era stato o continua ad essere oppresso. La libertà evangelica implica certo anche una liberazione politica ed economica ma mantiene una sua autonomia rispetto a quest’ultima e può esercitarsi in qualunque condizione di vita, sia pure nei limiti delle possibilità e dei limiti di ciascuno.

Barcellona racconta che la crisi del 1989 avrebbe sconvolto la sua esistenza fino a provocargli una grave depressione da cui sarebbe uscito molto tempo dopo grazie ad un prolungato trattamento psicoanalitico che gli avrebbe consentito di vedere alla fine come nell’idea di comunismo si manifestasse in realtà «un delirio di onnipotenza» e come «il vero nemico del pensiero» fosse quella «ortodossia assoluta» nella quale aveva sempre ciecamente creduto: adesso, «ciò che mi appariva chiaro era che finché l’uomo pretende di spiegare con i propri saperi tutto ciò che riguarda le condotte umane finisce col negare ciò che di specificamente umano la nostra condizione mortale esprime: il bisogno di trascendere l’orizzonte dentro il quale ci troviamo ad agire per riscoprire una presenza ulteriore rispetto all’azione degli uomini. Mi servirono in quegli anni le riflessioni di Ernesto de Martino che intuiva come nella tendenza al trascendimento ci fosse qualcosa in più di una pura istintività naturale» (ivi).

Se ne evince che gli strumenti terapeutici o catartici che avrebbero consentito a Barcellona di superare la sua profonda crisi depressiva sarebbero stati essenzialmente una pratica psicoanalitica, l’abbandono del sapere come tecnica specialistica di pensiero in grado di procurare risposte adeguate ai molteplici problemi relativi alle «condotte umane», la scoperta di una dimensione reale e non illusoria di trascendenza rispetto alla poliedrica prassi storico-umana. A ciò si devono aggiungere «tutta la riflessione della Kristeva sull’assoluta novità di un dio sofferente che si pone come percorso doloroso per raggiungere una salvezza effettivamente trasformativa della condizione umana» (ivi) e che spinge ad un’esperienza spirituale di condivisione sul piano stesso «dell’esistenza concreta» piuttosto che «su quello intellettualistico della razionalità» (ivi) e, infine, le suggestioni del «Cristo pasoliniano, intriso di passioni umane» e rappresentativo di «un modello di vita fondato essenzialmente sulla identificazione con il prossimo sofferente» (ivi).

A questo punto, non può forse non apparire comprensibile la tendenza di Barcellona a prendere le distanze, per quanto concerne il suo pur travagliato percorso intellettuale e spirituale, dalla definizione di “conversione” a lui riservata, anche perché è indubbio che la conversione al vangelo di Cristo non necessiti di tutte le mediazioni di cui è disseminato il tragitto esistenziale del valente giurista catanese ma anzi sia resa possibile unicamente dalla luce e dalla grazia divine che, irrompendo direttamente e inaspettatamente nella vita degli uomini, trasfigurano per cosí dire e rinnovano profondamente il significato e il valore di tutte le conoscenze e le esperienze di vita precedentemente acquisite.

A convertirsi a Cristo non si arriva neppure ponendo una domanda sensata come la seguente: «Perché non uccidere, non sfruttare, non seviziare, non torturare un altro uomo che ostacola comunque i tuoi desideri di godimento se non c’è una ragione ulteriore che istituisce il criterio per distinguere in qualche modo ciò che si può fare da ciò che non si può fare?» (ivi). Domanda necessaria ma non sufficiente, visto che questa domanda, da sola, non introduce ancora a quell’esperienza della croce, del portare personalmente la croce con sincera umiltà ed intrepida fede, che costituisce lo specifico della fede cristiana e della vocazione a testimoniare il Cristo in questo mondo.

E, infatti, arriva inevitabilmente, nel ragionamento di Barcellona, il distinguo capitale e tipico di ogni vero pensatore “laico” tra il Cristo istituzionale e il Cristo profetico ed evangelico: «il Cristo da cui io mi sento attratto e affascinato non è quello delle gerarchie e della precettistica, ma quello molto più rischioso di cercare di riviverne la presenza in ogni incontro con chi soffre la disperazione della delusione affettiva e del dolore della solitudine» (ivi), come se fosse ormai ampiamente assodato che il Cristo delle gerarchie e della precettistica non sia minimamente compatibile con il Cristo presente nei nostri incontri e nella nostra volontà di essere operativamente solidali con chi è solo e disperato. Ammesso che le gerarchie siano difettose, e non si può negare che talvolta lo siano, non è questo un buon motivo per il seguace di Cristo di stare loro vicino, con la critica costruttiva e la fraterna sollecitazione a correggersi o ad integrare la propria dottrina alla luce della inesauribile Parola di Dio, anziché separarsene sdegnosamente come se fossero appestate? Quelle gerarchie, quella precettistica non sono forse parte integrante di quella prossimità evangelica su cui dovremmo esercitare la nostra compassione e il nostro amore, di quella stessa Chiesa di Cristo, divina ed umana ad un tempo, santa e insieme fallibile, e dunque continuamente bisognosa di Spirito Santo e della fraterna amorevolezza di tutti coloro che ne fanno parte o in essa si riconoscono?

Ha tutto il diritto Barcellona di rilevare che, proprio per quel suo distinguo, forse non è corretto definire il suo status «come quello di un “convertito” che si è definitivamente acquietato. Sono sicuramente un cristiano che nella temperie del presente è convinto che solo il discorso di Cristo si può opporre al nichilismo biologico dello scientismo che cerca di cancellare ogni specificità della condizione umana» (ivi), ed è anzi apprezzabile che egli – a differenza del teologo Cacciari che mostra forte simpatia per politiche neoliberiste e, ben sapendo che «la tecnica dei vari Monti non è neutrale ed è intenzionata dallo spirito del capitale, piegata al fine unico dell’accumulazione di profitto» (M. Assennato, Il filosofo e il politico: chiaroscuri di Massimo Cacciari, in “UniNomade”, 12 luglio 2012), tesse reiterati elogi per “governi tecnici” di certo non funzionali a logiche evangeliche di condivisione comunitaria – riconosca come «la via della salvezza e la fuoriuscita dal pensiero unico dell’economia dominante possono realizzarsi soltanto restituendo all’uomo la sua vocazione divina. Non per farne l’arrogante e presuntuoso sostituto di Dio ma l’interlocutore privilegiato di una vicenda enigmatica come resta sempre quella della salvezza rispetto all’inevitabile “morte del sole” che nessun sapere può riuscire mai a spiegare» (ivi).

Ma tutto questo conserva o acquista un senso cristiano e cattolico solo se si riconosca che il buon samaritano è disposto a soccorrere non solo il proletario, l’operaio, l’oppresso, ma anche il ricco, il padrone, lo sfruttatore e persino il criminale che si trovino eventualmente in una oggettiva condizione di essere aiutati e curati; solo se si comprenda che il vero cristiano, confidando nella assoluta veracità dell’invito di Gesù a perdonare illimitatamente i propri oppressori o i propri carnefici, è colui che rimane capace di restare umanamente vicino ai suoi nemici e ai suoi persecutori, quali che essi siano, non certo per avallarne colpe e misfatti o per subirne passivamente lo spirito di iniquità o di viltà, che va contrastato con misura e con fermezza ad un tempo, ma per evitare comunque di mettersi sul loro stesso piano e per cooperare, secondo la volontà di Dio e con il suo aiuto paterno, alla loro stessa possibile salvezza.

Bisogna infine precisare che, contrariamente a quel che sembra temere lo studioso siciliano, nessun vero convertito a Cristo è uno che definitivamente «si acquieti», perché al contrario la sua conversione lo porterà a sentire quotidianamente e permanentemente una tensione continua e spesso lacerante in rapporto alla volontà del suo Signore e agli obiettivi spirituali da perseguire.