La salvezza di Cristo è "per tutti" o "per molti"?
Sia pure molto lentamente, sembra ormai destinata a cambiare, su deciso impulso di papa Benedetto XVI, la formula di consacrazione eucaristica ancora in vigore nella liturgia cattolica, nel senso che essa là dove oggi recita «questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati», dovrebbe contenere prossimamente la seguente innovazione: «versato per voi e per molti in remissione dei peccati». Soprattutto in ambito cattolico, sono molte le voci di protesta che si sono già levate per questa innovazione che il papa intende tenacemente introdurre nel culto eucaristico. Ma come, si sente dire: allora Cristo non sarebbe morto “per tutti”? Morendo “per molti” non avrebbe discriminato alcuni lasciandoli alla dannazione eterna? Cosa ne sarebbe, a questo punto, della portata universale del suo messaggio salvifico? E ci si spinge persino a politicizzare il ragionamento quando si afferma che, in questo modo, la Chiesa di Ratzinger finirebbe, anche al di là di un certo autoritarismo teologico da cui apparirebbe caratterizzato complessivamente il suo pontificato, per ridurre drasticamente persino il significato e il valore altamente popolari e quindi democratici dell’opera universale di salvezza compiuta da Gesù: non più “tutti” ma solo “molti” potranno beneficiare del suo sacrificio salvifico!
Non è ovviamente il caso di dilungarsi su tali polemiche che, come spesso accade, sono il più delle volte pretestuose, strumentali o, nel migliore dei casi, derivanti da scrupoli teologici e pastorali che hanno però il torto di violare, nonostante le probabili buone intenzioni da cui sono animati, la lettera e lo spirito delle parole stesse pronunciate da Gesù. Perché, in ultima analisi, la domanda è: quali sono, al riguardo, le espressioni di Cristo presenti nei quattro vangeli? Qual è il loro significato grammaticale e il loro senso contestuale? In Luca si legge: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi…Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22, 19). Qui Gesù dice semplicemente “per voi”: ovvero per voi che mi siete vicini, per voi che mi avete accolto vincendo il richiamo della “carne” e del “mondo” e le vostre stesse paure e perplessità personali, per voi che avete riposto la vostra fede in un uomo che si è proclamato Figlio di Dio per mezzo di parole ed opere mai ascoltate e mai viste prima.
Va da sé che chiunque si sia accostato successivamente e sino ad oggi al Signore con lo stesso spirito discepolare ed eucaristico dei suoi primi seguaci ovvero della sua Chiesa embrionale non può che ritenersi ed essere ritenuto incluso in quel “per voi”. In Marco e Matteo si trova invece il termine greco polloi, dove cioè si legge che il sangue di Cristo è stato “versato per molti”, benché qualche esegeta, muovendo dal fatto che l’originaria parola ebraica la-rabbîm poteva significare una “moltitudine indeterminata e molto grande”, abbia tentato di dimostrare che per l’appunto il termine ebraico la-rabbîm possa avere un significato equivalente a quello del greco pantes ovvero “tutti”, tentativo questo che viene tuttavia in gran parte invalidato da una domanda più che ragionevole: il traduttore greco della parola ebraica la-rabbîm era forse cosí sprovveduto da non sapere che essa avesse un significato equivoco o almeno ambivalente? E, d’altra parte, posto che ne fosse consapevole, avrebbe forse avuto difficoltà a trovare e a proporre una parola greca capace di esprimere un significato più fedele a quello della parola ebraica tradotta? Di più: lo stesso sconosciuto autore ebraico dell’originaria stesura evangelica non avrebbe potuto usare una parola ancora più precisa e stringente, dal significato più univoco e netto, se avesse avuto la prova che l’intenzione di Gesù fosse effettivamente quella di dire “tutti” e non semplicemente “molti”?
E’ comunque un fatto che nei vangeli l’espressione ricorrente è upèr pollôn (Mc 14, 24) oppure perì pollôn (Mt 26, 28) ovvero per “molti” e non “per tutti”o semplicemente upèr umôn (Lc 22, 19-20), che significa semplicemente “per voi”, ed è molto improbabile, in totale mancanza di dati pregnanti di diverso segno, che tali espressioni non abbiano riprodotto fedelmente le stesse parole aramaiche usate da Gesù e riportate poi forse nell’immediato in lingua ebraica e successivamente in quella greca. E Giovanni, pur articolando il concetto eucaristico in modo diverso rispetto agli altri evangelisti, sembra tuttavia confermare o ribadire indirettamente il senso del costrutto di quest’ultimi allorché, anche secondo lui, Gesù, parlando con una folla di increduli, prima dice: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6, 35), lasciando intendere che tutti potenzialmente possono accedere alla mensa eucaristica e quindi alla salvezza, ma aggiunge subito dopo: «Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete» (ivi), a voler sottolineare che la salvezza da lui offerta non è certo priva di condizioni impegnative e che in questo senso non tutti saranno veramente capaci di credere in lui e di salvarsi per mezzo suo.
Peraltro, nella consacrazione del calice il rito romano in latino ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus. E non è certo questo un particolare di poco conto, se si pensa che in tutte le epoche della sua storia la Chiesa, la cui lingua ufficiale è il latino, ha potuto avvalersi di una rigorosa e raffinata opera esegetica di suoi valenti esegeti e biblisti. Solo dopo il Concilio Vaticano II si ritenne di tradurre il pro multis con “tutti” con la convinzione che ciò avrebbe potuto rendere più chiara l’universalità del messaggio e dell’opera salvifici di Cristo. Per contro, la stessa Chiesa si è presa “la libertà” di inserire nella preghiera di consacrazione eucaristica alcune parole che francamente non risultano né in ebraico, né in greco e latino. Queste parole sono “calice del mio sangue”, espressione assente da tutti i testi evangelici, e “eterna”, parola assente tra le parole usate da Gesù nell’istituire l’Eucaristia mentre compare nella Lettera agli Ebrei dove Cristo viene presentato come mediatore di una “alleanza eterna”, (laddove sentiamo invece dire durante la Santa Messa: “Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza”).
La Chiesa, ovviamente, ritenendo di potenziare teologicamente il senso delle parole di Gesù e di renderle pastoralmente più efficaci, ha deciso in modo legittimo, anche in questo caso, di cambiare qualcosa, in senso non omissivo ma aggiuntivo o estensivo, alle parole pronunciate da Cristo. Ma forse oggi, in un mondo sempre peccatore ma per molte ragioni anche più adulto di quello di epoche passate, sarebbe opportuno ripristinare le precise parole di Gesù senza più pensare che esse, cosí come sono e come sono state effettivamente proferite, non siano abbastanza chiare o necessitino di sia pur parziali aggiunte esplicative.
Ma allora Gesù è venuto a salvare tutta l’umanità o solo una parte, sia pure grandissima, di essa? E’ venuto a salvare proprio tutti o, fra noi, qualcuno si perderà? Chi, con l’aiuto decisivo dello Spirito Santo, abbia meditato con attenzione e sana intelligenza tutti i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, sa perfettamente come stanno le cose e quale sia la volontà divina. E’ cioè consapevole del fatto che Dio vuole salvare tutti, tant’è vero che, alla fine del suo vangelo, Marco riporta le seguenti parole di Gesù rivolto agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura», dove per creatura si intende evidentemente “ogni creatura umana” (Mc 16, 15).
Se il vangelo dev’essere proclamato ad ogni creatura umana, non c’è dubbio che il sacrificio di Cristo è finalizzato alla redenzione e quindi alla salvezza eterna di ogni singola creatura umana ovvero di “tutti”. Ma il Signore omnisciente, pur rispettoso della libertà di ogni suo figlio, sa anche che non tutti i suoi figli vorranno soggettivamente salvarsi ottemperando ai suoi santi insegnamenti, sa anche che alcuni di essi saranno “figli della perdizione”, come lo è stato Giuda, uno dei suoi “amici” più stretti. Infatti, il su citato versetto di Marco prosegue cosí: « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà», ovvero chi non crederà non già a parole ma nei fatti, «sarà condannato» (Mc 16, 16), dove occorre precisare che questa eventualità è in realtà una certezza incontrovertibile secondo quanto è già dato di vedere nella profezia di Simeone che parla a Maria: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele» (Lc 2, 33).
Come ha ben osservato il cardinale gesuita Albert Vanhoye, rettore del Pontificio Istituto Biblico, san Paolo dice che la salvezza è per tutti ma che la fede non è di tutti e questo evidentemente impedisce che tutti possano salvarsi. «Anche Gesù usa formule molto limitative, come quando dice che molti sono gli invitati e pochi i salvati» (Intervista con il card. Albert Vanhoye, in “30Giorni”, 2010, n. 4). E’ chiaro che passi come questo «hanno un’intenzione esortativa» e pedagogica, ma Gesù ci pone realmente in guardia contro il pericolo oggettivo «di essere esclusi» e, pur non trovandosi alcun brano neotestamentario in cui sia ventilata «l’idea che qualcuno sia apriori destinato a una sorte negativa», non esiste vangelo in cui Gesù non si mostri consapevole del fatto che «non tutti avrebbero accettato», con il cuore oltre e più che con la mente, «la sua offerta di salvezza» (ivi).
Stando cosí le cose, in un momento storico in cui molti di noi tendono a dare di Dio una rappresentazione generica o addirittura antropomorfica e psicologistica e quindi rispondente a non sempre legittime aspettative umane di misericordia divina garantita aprioristicamente rispetto alle nostre concrete condotte esistenziali, in un momento storico in cui si propende a parlare sempre più di bontà e misericordia divine e sempre meno di giustizia e di giudizio divini e si fa spesso inavvertitamente a gara a chi possa sembrare più buono con l’implicito rischio di fare concorrenza alla stessa amorevolezza divina, è non solo legittimo ma provvidenziale che la Chiesa, sia pure con molta fatica, cerchi di ristabilire la verità sulle parole pronunciate da nostro Signore Gesù, secondo le quali certamente molti ma non tutti saranno i salvati e l’inferno non è affatto vuoto. E anche molti vescovi, che probabilmente in buona fede ancora oppongono resistenza a questa verità evangelica inopportunamente sopitasi nel tempo, dovranno farsene prima o poi una ragione per essere pastoralmente non meno credibili ma più credibili agli occhi di Dio stesso.