Il ricco tra Vangelo e Patristica
Gesù, nostro Salvatore e nostro Dio, da ricco che era, in quanto Figlio di Dio che poteva avere potere, ricchezza, immortalità, si è fatto povero e si è sottoposto liberamente alla morte perché, condividendo in tutto e per tutto la condizione degli uomini, potesse redimerli e salvarli dal peccato e dalla morte stessa. Noi cristiani abbiamo in lui il modello della nostra condotta personale, anche su un piano economico e sociale. Se siamo poveri economicamente, siamo già in parte in sua compagnia perché Gesù non visse in condizioni di miseria o di totale indigenza ma condivise sempre le esigenze dei poveri e la loro aspirazione ad una vita migliore; se invece siamo economicamente benestanti o decisamente ricchi, dobbiamo preoccuparci più di altri di “tagliare” buona parte dei nostri averi o beni a favore di coloro, e sono tanti, che sono totalmente privi di mezzi per poter sopravvivere o sono in possesso di risorse completamente insufficienti a garantire loro una vita dignitosa.
Ora, cristianamente parlando, non si può essere buoni pur continuando ad essere ricchi sfondati per tutta la vita, e solo mettendosi di tanto in tanto la coscienza a posto con atti munifici di beneficienza che non incidano per niente sul proprio reddito, per il semplice fatto che, essendo originariamente la ricchezza proprietà esclusiva di Dio, il ricco non può trattenerla per sé, e quando ciò accade egli è un ladro, ma deve, in una misura tale che egli veda o senta effettivamente più vuoto o più leggero il suo portafoglio, venderla, investirla, distribuirla nei modi che riterrà più opportuni ed efficaci al fine di contribuire ad elevare le condizioni di vita di chi non ha casa, non ha lavoro, non ha assistenza sanitaria, non ha nulla insomma che gli consenta di vivere decorosamente. Dove, però, questo spirito del doversi privare non solo o non tanto del superfluo ma persino, in talune circostanze, del necessario, non è qualcosa che riguardi semplicemente il ricco ma qualcosa che, proporzionalmente alle possibilità di ciascuno, riguarda anche chi benestante o ricco non sia.
Forse è improprio e fuorviante distinguere tra “ricchi onesti” e “ricchi disonesti”, perché, da una parte, se il ricco rimane sostanzialmente ricco, quale che sia il suo modo di gestire la ricchezza di cui dispone, onesto certo non può essere in quanto evidentemente, pur facendo ipoteticamente e relativamente (nella migliore delle ipotesi) del bene, continua a trattenere per sé ed anzi ad incrementare un capitale economico o finanziario destinato ab aeterno da Dio alle necessità di quanti, dalla giostra terrena delle riforme economiche e sociali e da forme private sempre diverse di investimento, non vedono mutare affatto le proprie condizioni di vita o le vedono mutare in peggio. Dove bisogna anche precisare che eventuali “perdite” dovute a investimenti avventati o a giochi di borsa o comunque a manovre finanziarie concepite e praticate con l’intenzione di servire i propri esclusivi interessi personali non sono evangelicamente degni di considerazione mentre lo sono le eventuali “perdite” dovute a generosi e caritatevoli tentativi di salvare una fabbrica e posti di lavoro o di creare nuova e produttiva occupazione.
D’altra parte, il ricco in quanto tale, in quanto cioè non sia disposto ad impoverirsi volontariamente e a sacrificarsi concretamente per il bene altrui, è sempre almeno in parte disonesto e ingiusto, perché le ricchezze terrene, anche se ce le siamo guadagnate legittimamente e nel rispetto delle leggi, sono sempre in qualche modo “ricchezze ingiuste”, cosí le definisce Gesù, ovvero ricchezze che, per il solo fatto di essere “private” e non già o non ancora “al servizio di tutti” e di tutti coloro che non hanno, non possono essere che ingiuste. Se il ricco, essendo cosciente di ciò, mette in gioco le sue ricchezze solo per il bene di tutti, egli è o resta fedele alla parola di Dio, il quale un giorno lo ricompenserà affidandogli le vere ricchezze, quelle celesti che non muoiono mai. Ecco perché Gesù dice: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12, 33-34).
Nei vangeli questa distinzione tra “ricchi disonesti” e “ricchi onesti” non esiste. Oggi, ricchi onesti vengono di solito considerati quei ricchi possidenti che agiscono, almeno apparentemente, nei limiti delle norme vigenti ivi comprese quelle fiscali e sono rispettosi della cosiddetta legalità. Ma il rispetto della legalità come degli stessi doveri religiosi, per gli evangelisti, non è condizione sufficiente perché i ricchi possano salvarsi. Altrimenti, Gesù non avrebbe chiesto a Matteo di abbandonare l’odiosa funzione di esattore-usuraio dello Stato e di seguirlo, né avrebbe ispirato a Zaccheo la decisione di dimezzare le sue ricchezze per mettere parte del suo cospicuo patrimonio a disposizione dei poveri, né avrebbe chiesto al giovane ricco, che era pure un “notabile” (come lo qualifica Luca), quindi una persona influente probabilmente anche da un punto di vista sociale e religioso oltre che economico, di lasciare tutte le sue ricchezze e di distribuirle in un modo o nell’altro ai poveri, che era la condizione per poterlo seguire e meritare la vita eterna.
Proprio la parabola del giovane ricco è particolarmente significativa. Gesù qui è in presenza di un giovane che ha avuto veramente tutto dalla vita: pur essendo giovane, è già ricco, potente, influente. E non è tutto: perché anche sul piano morale e religioso sembra essere irreprensibile. Eppure, questo giovane cosí buono ed onesto, cosí “religioso”, quando si sente dire da Gesù che, per ottenere la vita eterna, gli manca ancora una cosa ovvero la rinuncia a tutti i suoi beni e a tutti i suoi onori, si rattrista, e Gesù resta molto amareggiato per lui. Quindi il Cristo non concepisce un ricco onesto ma solo un uomo che essendo onesto decide, se ricco, di comportarsi di conseguenza. Un uomo, in altri termini, non può essere ricco e contemporaneamente onesto rimanendo ricco.
Beninteso, Gesù non condanna la ricchezza in sé o meglio la ricchezza concepita secondo la giustizia stessa di Dio, e quindi utilizzata in forma comunitaria, prodotta secondo i talenti o le capacità di ciascuno, distribuita equanimemente secondo le necessità di tutti, ma condanna i ricchi in quanto tali indipendentemente da una loro presunta onestà soggettiva. La ricchezza privata, da non confondere con un discreto o decoroso stato di vita, la ricchezza cioè priva di vere finalità comunitarie e sociali, per Gesù, è già una “ricchezza ingiusta”, una colpa nei confronti di tutti coloro che versano in condizioni esattamente opposte di vita.
E’ solo una convenzione quella per la quale si definisce onesto un ricco che rispetti tutte le leggi dello Stato e le regole del vivere civile versando regolarmente le tasse dovute. L’amore cristiano è ben più esigente della semplice legalità. Esso trascende la legalità, non per disattenderla, ma per integrarla con uno spirito di carità e con iniziative personali correttive specialmente se o quando la legalità sia il prodotto di uno spirito di iniquità. E tutti sanno che ai ricchi tout court, che si possono definire realisticamente come persone che hanno molto e vorrebbero sempre di più, oltre che naturalmente a quelli che pur essendo poveri hanno la stessa mentalità non solidaristica ma egoistica e competitiva dei ricchi, Gesù non ha mai rivolto parole tenere o comprensive ma parole molto severe e minacciose: «è più facile che una gomena» – la gomena è un grosso cavo che serviva per legare le imbarcazioni ai moli e viene dal greco kamilos, termine che san Gerolamo, traduttore dal greco in latino, avrebbe scambiato erroneamente con kamelos che significa “cammello”–, «passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco vada in paradiso».
Gli interlocutori di Gesù, sapendo che l’avidità o la brama di potere è una tentazione cui siamo tutti soggetti, gli chiesero: «ma allora, Signore, chi potrà salvarsi?» e Gesù rispose: «quel che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio». Come dire: con la mia grazia è possibile che persino un ricco incallito, prima di morire, si penta sinceramente dei suoi trascorsi di peccato e compia in modo riservato qualche gesto o azione particolarmente caritatevoli che gli valga ad ottenere l’accesso in paradiso. Per non parlare poi di quella fin troppo nota espressione: “Guai ai ricchi…”, che non significa semplicemente, come vorrebbe una certa esegesi minimalista, “Poveri voi che non vi rendete conto di quel che fate, cercate dunque di essere più altruisti”, ma “state attenti, perché, se non vi convertite, il vostro destino è che voi ricchi andiate a finire dritti dritti in quell’immondezzaio che è la Geenna”.
Il linguaggio iperbolico di Gesù (è meglio tagliarsi una mano, un occhio, un piede, se sono pietre di inciampo cioè motivo di scandalo, ed entrare mutilati nel Regno di Dio che essere gettati sani nella Geenna), vuol farci capire che l’amore per gli altri, oltre che per il Signore, richiede sempre dal punto di vista non certo fisico ma spirituale qualche taglio, qualche mutilazione, qualche rinuncia, qualche cambiamento di cuore e di vita. Non possiamo tenere gli occhi puntati solo su noi stessi, né le mani operose solo per le nostre faccende e i nostri interessi, né i piedi solo per camminare verso i nostri affari o verso le fonti del nostro benessere personale. Guardiamo anche verso chi soffre, diamo una mano a chi ha bisogno di essere sostenuto, camminiamo il più possibile sulla via del Vangelo e, nel dare allora senso alla nostra esistenza, comprenderemo perfettamente le parole di Gesù: «Chi vuol salvare la propria vita la perde; chi perde la sua vita per il Vangelo la ritrova». (Mc 9, 38-43.45.47-48).
Non c’è nessun uomo, agli occhi di Dio, che non sia un debitore fallito, che come tale può salvarsi solo se rinuncia a tutti o a molti suoi beni. Chi è povero ha già dovuto rinunciare a molti beni ed è ancora tenuto a rinunciare tuttavia alla sua possibile invidia per chi ha molto o al suo rancore per i potenti, ma chi è ricco avrà molta maggiore difficoltà a rinunciare a tutti i suoi beni materiali oltre che a tutti i suoi appetiti più istintivi dal punto di vista morale. E’ da notare come «l'espressione ‘pietra dello scandalo’ derivi dall'uso romano per il quale il debitore fallito sedeva su una pietra e da quella scomoda posizione dichiarava Cedo bona - cioè, rinuncio a tutti i miei beni - e a quel punto non poteva più essere perseguito. Pur di non escludere nessuno dalla vita e quindi dal suo amore, Gesù si è lasciato tagliare, si è lasciato crocifiggere. Noi siamo chiamati dunque a tagliare quella parte di noi che non appartiene alla comunione, siamo chiamati a colpire quella parte di noi che non segue l’amore, che è contro la relazione fraterna».
Non solo i vangeli ma gli stessi Padri della Chiesa non furono mai particolarmente indulgenti verso i ricchi. E’ in Clemente Alessandrino (II sec. d.C.) che comincia a porsi in modo sistematico il problema del rapporto tra vangelo e ricchezza, ma già prima, nelle Omelie Pseudo-Clementine, cosí dette perché indicano un corpus di scritti apocrifi, di indirizzo prevalentemente gnostico, raccolti sotto il nome di Clemente che, dopo essersi convertito al cristianesimo, fu prima al seguito di Pietro e diventò poi vescovo di Roma verso la fine del sec. I, si va oltre la condanna dei ricchi per giungere a censurare persino nei poveri non già un legittimo sentimento di giustizia economica e sociale ma la brama di ricchezza e quindi il desiderio dello status dei ricchi: «L’indigenza dell’indigente non è buona se si brama quel che non conviene. Tra i poveri vi sono di quelli che sono ricchi con il desiderio; essi sono castigati per aver desiderato avidamente il guadagno. Del resto non basta essere indigenti per essere giusti».
In generale, i Padri della Chiesa successivi a Clemente Alessandrino e impegnati sul tema da lui affrontato (Origene, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Cirillo di Alessandria fra i padri greci, Cipriano, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, Agostino fra i latini, per fare dei nomi tra i più insigni) si richiameranno sostanzialmente alla sua impostazione condividendone i concetti essenziali: la ricchezza in sé, in quanto dono di Dio, è buona; tutti gli uomini devono poterne godere perché uguali; ognuno, a cominciare dal ricco, ha il dovere della condivisione comunitaria fino a sollevare significativamente la condizione del povero.
Ma Basilio Magno è uno dei Padri della Chiesa che vorrà puntualizzare alcuni specifici punti del discorso svolto dall’Alessandrino, prendendo di mira quel cristiano spiritualismo devoto troppe volte separato da concreti atti di solidarietà: «So di molti, che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e sospirano, che praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non sganciano un soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non per questo li si ammetterà nel regno dei cieli!» (Hom. VII, In divites, 3). Precisa poi che: «È in questo modo che si diviene ricchi: in virtù del solo fatto di essersi impadroniti per primi di ciò che è di tutti» (Hom. VI, De avaritia, 7) . Basilio sottolinea perciò che i beni della terra provengono da Dio, sono sua proprietà e gli uomini ne sono solo “gli amministratori”, non i padroni che possono farne ciò che vogliono (Hom. VI, De avaritia, 2). «Devi pensare che ciò che tieni tra le mani è cosa altrui» (Ivi). Perciò chi accumula ricchezze in forma egoistica e non solidale è un “ladro” (Ivi, 7) e “manca di carità”, cioè dell’amore di Dio (Hom. VII, In divites, 1).
Basilio aveva compreso che la ricchezza e in particolare la grande ricchezza non si fa certo con l’onestà ed egli fu capace di smascherare già nel IV sec. d.C. gli ipocriti meccanismi psicologici che stanno alla base di una logica del profitto illimitato e della tipica mentalità produttivistica e consumistica del nostro tempo, quei meccanismi per cui ci si vorrebbe convincere e si vorrebbe convincere gli altri di aver bisogno della ricchezza e di un continuo incremento di ricchezza solo per poter soddisfare le proprie “necessità”: necessità personali, necessità produttive, necessità di bilancio, necessità finanziarie, necessità fiscali, necessità tecnologiche, necessità ambientali, necessità artistiche e culturali, necessità strutturali e infrastrutturali, e via discorrendo. Ma Basilio, pur non avendo a che fare con le mille e complesse articolazioni dei nostri attuali sistemi sociali ed economico-finanziari, non si lasciava ingannare e cosí diceva: «Quando possiedi una bella somma, già vai desiderandone un’altra uguale. Appena l’hai ottenuta, ecco che subito vai bramando di raddoppiarla. E cosí via: ogni volta, ciò che aggiungi non sazia il tuo desiderio di possesso, ma semplicemente accende di nuovo la tua avidità».
Chissà che anche i probi "tecnici" italiani ed europei che ci stanno in questo momento governando nel nome di un rigore oppressivo e per conto di soggetti economici non chiaramente identificati ed identificabili, non possano trarne qualche utile riflessione!
Ma forse ancora più caustica è la posizione espressa, con la sua stessa vita oltre che con il pensiero, da un altro uomo di Chiesa del sec. V-VI che può essere inserito a pieno titolo tra i Padri della Chiesa benché forse ne resti escluso secondo taluni criteri ecclesiastici “ufficiali”: il vescovo Cesario di Arles, il quale fu chiamato ad operare in tempi difficilissimi quali furono quelli delle invasioni barbariche in Occidente. Egli, attivissimo in campo politico e sociale, si mise accanto alle popolazioni vessate da violenza e povertà, abbandonate a se stesse dalle traballanti autorità politiche e dai dissestati e avari poteri economici dell’epoca, vendendo tesori e oggetti preziosi delle chiese per pagare i riscatti richiesti in cambio della sicurezza o della liberazione dei suoi fedeli non senza esercitare una cosí forte e compromettente pressione morale su governanti e su capi goti e burgundi da trovarsi coinvolto nell’accusa di aver congiurato al fianco dei Burgundi contro i Goti di Teodorico, il quale però lo scagionò dall’accusa medesima. Costruí anche il principale ospedale della Gallia, attanagliata da guerre e carestie, a beneficio di enormi masse di infermi e feriti.
Ecco: questo coraggioso e combattivo padre della Chiesa, il cui amore incondizionato e illimitato per i poveri non può essere posto in discussione, non ebbe mai parole di comprensione per tutti quei ricchi che, pur coinvolti a loro volta in situazioni di precarietà e di pericolo, restavano completamente chiusi ai bisogni materiali più impellenti delle popolazioni, individuando illusoriamente nella gretta conservazione della propria ricchezza l’unico strumento di sopravvivenza e di difesa personali. In uno dei suoi “sermoni” (il ventiduesimo), Cesario dice: «Forse si ritiene che sia ricco colui che ha il petto ricoperto di oro e che non sia ricco colui che ha il cuore pieno di Dio. No, fratelli miei; è veramente ricco soltanto colui nel quale Dio si degni di vivere». Era soprattutto i ricchi che egli esortava a convertirsi il più presto possibile. Ma nel sermone 17 sembra che si riferisca proprio a quest’ultimi quando accoratamente e sconsolatamente dichiara : «Colui che si preoccupa per te ti lancia questo grido: “Non aspettare a convertirti a Dio e non ritardare di giorno in giorno”».
E non c’è dubbio che Cesario di Arles, che nella sua predicazione avrebbe costantemente combattuto l’avidità dei ricchi, la loro avarizia e il loro cinico disinteresse per i poveri, avrebbe sottoscritto pienamente, se avesse potuto, insieme a tanti altri Padri della Chiesa, l’invito di san Basilio Magno : «Voi ricchi date retta a me: spalancate le porte dei vostri depositi ... date libero corso alla ricchezza, perché si spanda per molteplici vie alle case dei poveri…Colui che possiede di più di ciò che è necessario alla vita lo deve usare a vantaggio degli altri». La Chiesa del secondo millennio non può parlare ai ricchi nello stesso modo e con lo stesso tono?