Per non peccare contro lo Spirito Santo

Scritto da Francesco di Maria.

 

Quante volte ci capita di dire cose evangelicamente giuste, di dare indicazioni evangelicamente veritiere, di offrire consigli evangelicamente onesti e disinteressati, di manifestare la nostra sincera disponibilità a prenderci cura delle problematiche o delle sofferenze altrui, sia pure nei limiti delle nostre possibilità e magari correndo il rischio di poter rimanere coinvolti in situazioni psicologicamente ed emotivamente sgradevoli, e al tempo stesso di raccogliere in cambio solo assensi e sorrisi di circostanza, di essere trattati con sufficienza, di essere considerati come soggetti ambigui oppure come soggetti cui non si ritiene per ragioni personali inconfessabili o decisamente ignobili di dare troppo spazio?

Tutto questo capita spesso nella vita, benché non sia possibile dire se tutto questo capiti a molti di noi o a pochi di noi, essendo peraltro molto difficile stabilire in astratto chi abbia realmente titolo ad essere collocato fra coloro che tentano di far bene ricevendo male o indifferenza e chi invece abbia solo titolo ad essere incluso tra coloro che passano la loro vita a celebrare illusoriamente e più o meno inconsciamente speciali virtù di cui sono privi e a censurare gli altri che non li ascoltano o non li apprezzano perché presumibilmente insensibili ai suggerimenti e ai doni dello Spirito Santo.

Molti di noi non se ne rendono conto, ma accade spesso che proprio nella comunità cristiana e cattolica venga commesso il più grave dei peccati: bestemmiare contro lo Spirito Santo (Lc 12, 8-12). I peccati contro lo Spirito Santo sono quelli descritti nel catechismo di Pio X: disperare di potersi salvare, presumere di potersi salvare anche senza merito, impugnare la verità conosciuta, invidiare la grazia altrui, ostinarsi nei peccati, essere impenitenti persino in prossimità della morte.

Già, perché molti di noi ancora colpevolmente non comprendono che la nostra fede non è affatto perfetta solo perché facciamo privatamente e pubblicamente la nostra recitata professione di fede, perché preghiamo, perché ci confessiamo, perché partecipiamo a processioni e ad ogni genere di rito previsto dalla liturgia, perché facciamo qualche elemosina, perché ci mostriamo gentili e comprensivi verso chi ci gratifica con la sua simpatia e la sua stima, perché ci impietosiamo verso poveri e mendicanti, perché ci sentiamo trasportati misticamente verso Dio.

Se fosse solo per il puntuale e meccanico adempimento di tutti questi “doveri religiosi” e per quella sorta di consolatorio entusiasmo religioso che di solito vi appare connesso; se non fosse che scadente o mediocre la qualità di tutte queste operazioni spirituali; se, nonostante il nostro apparente attaccamento ad ogni pratica spirituale e religiosa, non fossimo ancora capaci di giusto e onesto discernimento, continuando a leggere e a deformare a colpi di rimozioni e razionalizzazioni mentali soggettive ogni insegnamento o precetto evangelico in funzione del mantenimento di interessi e motivazioni personali del tutto egoistici e sbagliati; se dunque, nonostante ogni manifestazione esibita di fede e di fedeltà a Dio e indipendentemente dal nostro grado di cultura personale, ben poco facessimo in funzione di una vera santificazione della nostra esistenza, la nostra fede potrebbe anche essere o rimanere sommamente imperfetta, sebbene in ogni caso il Signore possa sempre concederci per tempo la grazia di ravvederci delle nostre insufficienze o colpe spirituali e consentirci ugualmente di accedere in paradiso.

Ma qui il problema è di capire che la nostra religione non di rado è priva di fede ovvero di una fede capace di ripensarsi e rigenerarsi ogni giorno, che la comunità cattolica incorre troppo frequentemente nel colpevole errore di ritardare gli effetti benefici e santi dell’eterno soffio vitale dello spirito divino, ogni qual volta in essa ci si ritenga cosí perversi o viziosi da non poter più confidare nel perdono di Dio e da attribuire eventualmente a quest’ultimo le avversità o le sventure patite durante la vita o al contrario cosí unilateralmente e semplicisticamente fiduciosi nell’immancabile misericordia divina da continuare a vivere secondo propri mediocri standards di vita o ostinandosi nei propri peccati senza soluzione di continuità come se l’altra faccia dell’infinita misericordia di Dio non fosse la sua infinita giustizia; ogni qual volta in essa si sia cosí duri di mente e di cuore da ostinarsi senza soluzione di continuità nei peccati o da persevare fino alla fine dei propri giorni terreni in uno stato di impenitenza. Questi sono tutti peccati contro lo Spirito Santo, cui se ne devono aggiungere altri due: l’impugnazione o la contestazione delle verità rivelate e l’invidia della grazia altrui.

Impugnare la verità evangelica, custodita e trasmessa dalla Chiesa nei secoli e alle generazioni di tutti i tempi, significa mettere in discussione i dogmi fondamentali su cui si fonda la fede in Cristo oppure anche l’alterazione di taluni essenziali passaggi del suo divino insegnamento. Se uno, solo per esemplificare, mette in discussione l’Immacolata Concezione di Maria santissima o la realtà trinitaria dell’unico Dio esistente e rivelatosi in Cristo, se uno attenua la radicalità dell’invito di Gesù a mettere i propri beni al servizio dei più bisognosi con spiegazioni artificiose e parziali o tende ad avallare per motivi di comodo una concezione permissiva o “tollerante” della riconciliazione sacramentale oppure ancora tende a disconoscere o a ridimensionare la realtà fisica e spirituale dell’inferno, non solo non è un cattolico ma è una persona che non potrà salvarsi, perché avrà posto in discussione tutto ciò che Dio stesso ha stabilito essere bene o essere male.

E peccato altrettanto grave e preclusivo della salvezza eterna è infine quello per cui uno porta un sentimento implicito o esplicito di invidia a coloro, credenti o non credenti, cui Dio abbia concesso la grazia di illuminare le menti e di fortificare i cuori in modo diretto o indiretto. Ove poi gli “incaricati” di Dio appartengano organicamente alla comunità cattolica, sia in qualità di presbiteri sia in qualità di credenti laici, tale peccato appare ancora più ripugnante perché compiuto nei confronti di fratelli o sorelle “battezzati” in Cristo ai quali il Signore ha inteso concedere in forme evangelicamente ineccepibili e spiritualmente inequivocabili determinati e particolari “carismi” in funzione del bene altrui. Come dicono san Pietro: «Chi parla lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli» (1 Pt 4, 10-11); e san Paolo: «Abbiamo pertanto doni diversi, secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia, la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero, attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento; chi l'esortazione, all'esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12, 6-8, ma anche Lettera agli Efesini 4, 11).

Scriveva Giovanni Paolo II, nella sua esortazione apostolica postsinodale “Christifideles Laici” del 30 dicembre 1988, che «i carismi vanno accolti con gratitudine, da parte di chi li riceve, ma anche da parte di tutti nella Chiesa» (CL 24). Mi pare che ci sia ben poco da commentare, ma purtroppo le nostre parrocchie e la nostra Chiesa in senso generale, tanto tra i fedeli quanto talvolta anche tra i chierici, sono non di rado affette dal terribile e mortale morbo dell’invidia quale generalmente si manifesta in forma tacita e sussiegosa oppure in forma  mordace e maliziosa e sempre comunque in forma auto roditrice e autolesionistica.

Non è forse privo di significato che a questo particolare ma essenziale tema, a prescindere dai canonici interventi magisteriali del sommo pontefice, persino gli omileti ordinari della Chiesa cattolica, ovvero preti e religiosi di ogni ordine e grado, non siano per nulla abituati a concedere molto spazio, pur trattandosi obiettivamente di uno degli aspetti più centrali e preziosi della buona novella. E perché è cosí centrale e prezioso? Perché se il popolo di Dio non è capace di distinguere, indipendentemente dai ruoli ufficiali ricoperti nell’ambito della comunità ecclesiale, non solo tra falsi profeti e veri profeti ma anche tra testimoni di Cristo più ispirati ed autentici e testimoni di Cristo più scolastici e convenzionali, mettendo quindi tutti sullo stesso piano o anteponendo addirittura i secondi ai primi, il soffio dello Spirito di Dio non può giungere a destinazione con tutta la forza e l’efficacia con cui vi giungerebbe se lo stesso popolo di Dio fosse spiritualmente più pronto ed esercitato a percepire e a recepire i segnali più importanti dello Spirito Santo.

E cosí se, nel popolo di Dio, ognuno di noi crede di poter cogliere i segni dello Spirito solo nei limiti delle predicazioni liturgiche e dei servizi ministeriali di natura ecclesiastica e non anche o soprattutto in qualunque altro ambito lo Spirito voglia manifestarsi, non può che contribuire a limitare o a rallentare colpevolmente l’effondersi delle intenzioni e dei piani divini nelle molteplici e complesse trame, che solo Dio conosce perfettamente, delle vicissitudini umane.

A Gesù che faceva cose prodigiose dissero, bestemmiando contro lo Spirito Santo, che esse erano opera del Maligno. Ma anche quando accade che qualcuno, magari non troppo organico alla sua comunità parrocchiale o alla sua comunità religiosa, dica o faccia qualcosa di buono, ricevendo tuttavia in cambio non parole di apprezzamento ma di sostanziale disinteresse o di malcelata e ingiustificata avversione, si continua a commettere quello stesso peccato a causa di un modo di essere preconcetto e chiuso della fede che non consente di ascoltare otre i limiti di quel che si è già tante volte ascoltato e di dilatare la  spiritualità oltre i confini di credenze soggettive incontrollate e di una prassi religiosa scontata.

Se uno ha dei talenti e li vuole mettere umilmente a disposizione della comunità, quest’ultima o qualcuno nel nome e per conto di quest’ultima non può chiudergli la porta in faccia, specialmente se quei talenti producano nella comunità stessa effetti imprevisti e destabilizzanti ma virtualmente benefici, senza prima preoccuparsi onestamente di verificare con perizia e tatto che i suoi talenti siano veri e i suoi avvertimenti siano fondati e sensati, perché un siffatto atteggiamento di chiusura si configura inevitabilmente come irresponsabile e peccaminosa rinuncia ai doni stessi dello Spirito. Lo stesso ragionamento vale naturalmente anche per i rapporti più strettamente interpersonali. E’ anche vero che noi cattolici attribuiamo non di rado allo Spirito Santo ispirazioni fasulle, intuizioni o ragionamenti personali piuttosto contorti o fantasiosi, nonché scelte obiettivamente discutibili o errate, ma questo significa solo che occorre stare sempre molto attenti, senza mai dare niente per scontato o per definitivamente acquisito. La fede perfetta è, in questo senso, solo la fede che si sa sempre imperfetta sia in senso assoluto che in senso relativo.

Quanto ai fratelli e alle sorelle i cui carismi dovessero essere disconosciuti e inutilizzati nella loro comunità locale o universale di appartenenza, essi non devono né deprimersi né demordere, ma offrire con quante maggiori umiltà e gioia possibili le loro sofferenze e le loro umiliazioni al Signore in espiazione dei peccati altrui e dei loro stessi peccati personali. Sí, perché, com’è noto, il giusto non è senza peccato ma è quello che riesce sempre a rialzarsi pur cadendo sette volte al giorno. Il giusto, il profeta, il testimone più fedele di Dio, è colui che, sapendo e sentendo più degli altri, sa di essere esposto alle tentazioni e al peccato più di quanto non siano coloro che gli negano ascolto e fiducia. Il giusto, infine, assomiglia in parte al giovane Francesco di Sales che, ancora studente a Parigi, entrò un giorno in una chiesa dirigendosi subito alla cappella della Vergine e pronunciando, dopo essersi inginocchiato, le seguenti parole: «Qualunque cosa abbiate deciso, o Signore, nell’eterno decreto della vostra predestinazione, io vi amerò, almeno in questa vita, se non mi è concesso di amarvi nella vita eterna».