La fede tra intelligenza e rettitudine
Da un punto di vista biblico ed evangelico, la sfera intellettiva e la sfera morale, pur essendo distinte, sono profondamente connesse. Sono distinte perché l’intendere la verità e il bene non si identifica con il volerli rispettare e attuare praticamente, e sono connesse sia perché a poco serve comprendere la verità e quindi il vero senso delle cose e della vita stessa se poi la nostra condotta se ne discosta parzialmente o totalmente, sia anche perché, e reciprocamente, la volontà del bene non può prescindere dalla conoscenza del bene e quindi, per ciò che concerne la vita cristiana, da una corretta comprensione degli insegnamenti di Cristo.
In generale, e assumendo qui un punto di vista laico, la persona intelligente, che usa in modo serio e rigoroso la propria capacità di conoscenza e di discernimento, non è necessariamente una persona retta e moralmente integra. D’altra parte, anche la persona praticamente impegnata in concrete e specifiche attività giornaliere di tipo morale, sociale, politico o religioso, non può definirsi moralmente e spiritualmente integra se non alla luce di una capacità e di una volontà di apprendimento sempre aperta ad approfondire criticamente le questioni della vita e della stessa fede.
Per un verso chi fa buon uso della propria intelligenza può disattendere le sue acquisizioni o conquiste conoscitive con atteggiamenti irrazionali o trasgressivi, per l’altro è altamente improbabile che un comportamento sia irreprensibile dal punto di vista morale se ci si rifiuta di capire perfettamente quanto meno lo spirito di determinati princípi, verità,norme, prescrizioni e di coglierne adeguatamente le implicazioni. Nel caso specifico di una vita cristiana, poi, sarà quanto meno problematico definire buono e giusto il comportamento di chi, pur cercando di rendersi utile al prossimo, non si preoccupi di andare oltre una fede acquisita per pura educazione o abitudine e di riflettere continuamente e quanto più autonomamente possibile sulla Parola di Dio e sugli insegnamenti di Cristo pur in questo aiutato e sollecitato dal magistero ecclesiastico e pontificio.
Si può essere pigri moralmente pur essendo attivi intellettualmente e pigri intellettualmente pur cercando di essere o illudendosi di essere attivi moralmente. Si può dare un’intelligenza fine a se stessa e non finalizzata ad una vita morale realmente vissuta ed esercitata e si può dare una moralità istintiva o abitudinaria non sostenuta ed alimentata da una visione chiara e realmente consapevole dei fini da perseguire e dei modi in cui sia possibile o necessario perseguirli.
Ma bisogna precisare che, per ciò che riguarda l’intelligenza, non è richiesta necessariamente un’intelligenza di tipo intellettualistico, accademico, specialistico o teoricistico, essendo sufficiente un’intelligenza anche molto semplice e tuttavia desiderosa di apprendere e di capire senza chiusure preconcette e senza pregiudizi, mentre, per ciò che concerne la moralità, una vita morale dignitosa non necessita né di azioni eclatanti e compiute per desiderio di lode comunitaria o sociale nel campo della carità e della giustizia, né di itinerari esistenziali particolarmente complessi e ritenuti culturalmente significativi o rilevanti, ma di una disponibilità interiore a migliorare di continuo la propria indole e il proprio spirito di carità o solidarietà ben al di là di inclinazioni o virtù morali acquisite ed esercitate per via di semplice educazione e in funzione di mere gratificazioni di ordine psicologico più che morale o religioso.
C’è anche da dire che, cosí come un uso parziale o distorto della propria intelligenza, non sempre è frutto di leggerezza o superficialità morale, potendosene individuare la causa anche in fattori meramente intellettivi e cognitivi ovvero in idee e convinzioni obiettivamente sbagliate, anche il disordine morale che caratterizza molti comportamenti non sempre è frutto di scarsa intelligenza, sussistendo la concreta possibilità che una vita sregolata o indisciplinata possa coesistere sia pure conflittualmente nella stessa persona (persino se credente) con una vita molto lucida e rigorosa nell’esercizio della conoscenza. Tuttavia, per il cattolico la vera razionalità è legata ad una sapienza che, come rileva monsignor Mariano Crociata, «è ben più di un sapere: è un saper vivere che sgorga spontaneamente da un giudizio formato secondo verità e da una volontà docile nell’assecondare il richiamo del bene e il desiderio della giustizia» (in “La Stampa” del 3 ottobre 2011), sebbene sia noto a tutti come il giusto di cui parla la bibbia non è colui che, pur possedendo certamente tale sapienza, resta immune dai peccati ma colui che, pur cadendo sette volte al giorno, è capace di rialzarsi con la forza del pentimento e della preghiera implorante rivolta a Dio.
L’intelligenza del non credente può essere potentissima e porsi alla base di una vita morale realmente sana e coerente, cosí come la mancanza di intelligenza nel credente può concorrere a determinarne una vita morale e spirituale alquanto difettosa e approssimativa, benché nel primo caso la qualità dei processi intellettuali e conoscitivi non sia ancora esemplare e non raggiunga il suo massimo grado di perfezione, e nel secondo caso invece la presenza della fede, per quanto inadeguatamente coltivata, rappresenti pur sempre un possibile stimolo a superare la mediocrità della propria spiritualità.
Nonostante tutta la sua istruzione e intelligenza, un uomo sciocco non conoscerà mai abbastanza se stesso e questo lo porterà probabilmente a percepire in modo distorto anche il prossimo; nonostante tutta la sua cultura non di facciata, una persona dalla mente gretta non si libererà delle sue cattive qualità. Ma occorre altresì rilevare che, nonostante tutta la sua fede apparente, non è detto che un uomo non possa essere sciocco, stolto e gretto, se presuntuosamente e ostinatamente si chiude ad ogni serio rapporto con il sapere e con lo stesso sapere religioso oltre che ad ogni auspicabile e necessario confronto con chi possa saperne più di lui, ritenendo che il suo modo di credere sia già il più perfetto del mondo.
Una cultura deliberatamente priva di fede non porta all’immortalità, ma anche una fede mediocre ed impregnata di presunzione e supponenza oltre che di deliberata ignoranza non porta all’immortalità. Un grande filosofo ateo come Maritain può legittimamente aspirare all’immortalità perché si converte, e con lui si converte anche la sua cultura, a Cristo Salvatore, e una bambina analfabeta come Bernadette Soubirous può ben aspirare all’immortalità perché, lungi dal ritenere perfetta o bastevole la sua fede semplice e quasi infantile, continua a sentirsi spiritualmente povera e in parte persino inquieta sino alla fine dei suoi giorni terreni.
Per il cattolico, indipendentemente dal livello culturale di ciascuno, sia l’intelligenza che la rettitudine hanno sempre di che soffrire sino a quando non si raggiunga una relazione sufficientemente stabile con Dio anche attraverso un rapporto saggio e caritatevole con il prossimo. Nel libro di Giobbe si legge: «ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza» (Gb 28, 20-28), anche se, si può commentare più che aggiungere, può sempre accadere di peccare e precipitare in un vuoto spirituale e di commettere il male contro cui l’uomo è tenuto ad ingaggiare una lotta faticosa che avrà termine solo alla fine della sua vita. Non c’è sapere critico veramente efficace né impegno morale realmente utile e proficuo che, nell’ottica cristiana e cattolica, possano prescindere dal timore del Signore e dalla capacità di discernere tra bene e male e di riconoscere ogni volta il male commesso.
Il terzo capitolo dei “Proverbi”, che è un libro biblico nato e concepito in ambienti popolari anche se un paio di capitoli possono forse essere attribuiti al re Salomone, recita testualmente: «Confida nel Signore con tutto il cuore/ e non appoggiarti sulla tua intelligenza: in tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri./ Non credere di essere saggio, temi il Signore e sta lontano dal male./ Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore/ e non aver a noia la sua esortazione,/ perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto./» (Pr 3, 5-6-7 e 11-12).
Bisogna pertanto che ad esser retto sia non solo il volere ma anche l’intendere (Gesù stesso diceva ai suoi discepoli: “state attenti a come ascoltate”), perché quel che scriveva il filosofo cristiano medievale Raimondo Lullo nel suo “Quarto Sermone” dedicato alla donna e in particolare alla madre di Cristo, può essere esteso anche all’uomo: «La donna virtuosa con la rettitudine del suo intendere alimenta la rettitudine del suo volere, sentire e immaginare. E con la rettitudine della sua volontà alimenta la rettitudine della sua intelligenza, della sua memoria, della sua immaginazione e dei suoi sensi. E la donna virtuosa con l’onestà della sua memoria alimenta l’onestà della sua intelligenza, della sua immaginazione e dei suoi sensi. Tutti questi buoni alimenti provengono e derivano dalla santità di nostra Signora» (in Testi mariani del secondo millennio, secoli XIII-XV, a cura di L. Gambero, Città Nuova, 2002).
Forse in sede specificamente filosofica il discorso potrebbe risultare un po’ più complicato ma qui il tema in discussione era essenzialmente il rapporto che l’intelligenza e la rettitudine possono e devono avere con la fede e, in questo senso, può forse bastare quel che si è venuto scrivendo con la seguente ultima ed esplicita precisazione: la rettitudine, tanto sul piano intellettuale quanto su quello morale e religioso, non è assenza di errore o di arbitrio, ma assenza di abitudine o assuefazione all’errore o all’arbitrio.