Il cristianesimo: né religione di morte, né religione consolatoria
La morte è un fatto biologico naturale ma, in un’ottica di fede, è anche un mistero scandaloso e insopportabile, perché il fatto stesso che io possa essere venuto al mondo, con pensieri, sentimenti, emozioni, bisogni relazionali e aspettative esistenziali tutti centrati su una ricerca di senso e su un desiderio conscio o inconscio di felicità, difficilmente mi induce ad accettarmi come un episodio del tutto fortuito e casuale della grande evoluzione della materia cosmica e quindi come un semplice anello di passaggio della grande catena degli esseri viventi. C’è qui qualcosa che collide in modo stridente con la mia razionalità morale più che teoretica, con la mia sensibilità, con i miei bisogni più vitali, con la mia stessa spiritualità, qualcosa che non mi permette di accettare in modo pacifico l’idea della razionalità della morte oltre che quella della sua ineluttabile definitività.
Forse molti di noi continuano a pensare che, al contrario, non vi sia cosa più naturale della morte ma questo di per sé non costituisce certo una prova della natura o del significato razionale della morte bensí tutt’al più una prova della difficoltà umana a valutare in modo realmente razionale taluni fenomeni o aspetti particolarmente complessi ed enigmatici del mondo in cui viviamo e della nostra stessa esistenza.
Se per secoli gli uomini hanno ritenuto verità certa e inoppugnabile quella della centralità della terra nell’universo, non si vede perché per una questione già a prima vista più complicata la razionalità dovrebbe pendere decisamente dalla parte di coloro che, affidandosi esclusivamente alle apparenze fisico-biologiche, si limitano a dire che con la morte finisce tutto non rendendosi peraltro conto di esprimere in tal modo una posizione ancora dogmatica. Tutto quel che si può razionalmente affermare è infatti solo che con la morte finisce la vita storica, terrena e personale di ognuno di noi, finisce cioè questa vita che io e noi abbiamo conosciuto e conosciamo, ma non necessariamente la vita tout court, una vita altra che potrebbe sussistere anche se a noi sconosciuta.
Il razionalista ortodosso deve fermarsi qui, non può andare oltre se non vuole essere privo di logica consequenzialità; mentre il razionalista eterodosso che sfida continuamente i dati acquisiti dalla stessa ragione scientifica in funzione di una più ampia e complessa razionalità, il razionalista audace, che esercita la sua intelligenza critica attraverso ma anche oltre le certezze già verificate e sperimentate del sapere e dello stesso sapere scientifico, il razionalista radicalmente non dogmatico che alla luce e per mezzo della sua fede non dà per scontato né per definitivo il significato delle realtà storiche e terrene è colui che sa di non poter dimostrare ancora compiutamente la fondatezza di ciò in cui crede e tuttavia sostiene coerentemente come ciò in cui crede, ovvero una vita dopo la morte, resti ipoteticamente vero sino a quando nella storia degli uomini non si diano dimostrazioni empiriche, fattuali incontrovertibili del contrario.
Ma il credente solido e non debole, a cui naturalmente può non interessare tale questione da un punto di vista rigorosamente logico-teoretico e che si è fermamente convinto dell’avvenuta risurrezione di Cristo, non giudica per nulla fantasioso che anche per noi possa esserci una vita reale ultraterrena dopo la morte pur con caratteristiche diverse da quelle della nostra vita terrena. Per questo credente lo scandalo sarebbe semmai che, una struttura cosí complessa e articolata come quella del nostro cervello e della nostra mente, del nostro pensiero, del nostro sentire, del nostro bisogno d’amore, non denoti nient’altro che processi naturali ermeticamente chiusi o confinati in percorsi puramente fisici, chimici, psichici e biologici.
Non si è cristiani se si pensa che recarsi al cimitero una volta al mese per far visita ai defunti sia più importante dell’andare a messa la domenica o che ci siano situazioni tragiche di vita in cui non si possa e non si debba trovare il modo e il tempo di confidare non solo nella misericordia infinita di Dio ma anche nelle sue promesse di infinita felicità. Gesù ci ha insegnato la vita, la speranza, la risurrezione, pur facendo coincidere tutto ciò con una via o una porta stretta e non con una via o una porta larga. Egli ha detto “lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Lc 9, 60) per far comprendere che i suoi seguaci non devono pensare tanto alla morte, alla rassegnazione, né vivere nella tristezza e nell’angoscia continue, né insomma essere morti loro stessi, perché egli è venuto a portare la serenità, la gioia, la vita pur in un mondo di peccato e di dolore. Chi segue lui è dunque chiamato a convertirsi alla vita e a voltare le spalle ad una cultura di disperazione e di morte pure cosí naturalmente presente nel cuore degli esseri umani. Chi crede in Gesù crede che la vita sia più forte della morte e che oltre la morte corporale ci sia la vita vera, la vita che non muore più.
C’è chi ha sempre pensato e chi ancora oggi pensa che tutto questo rientri in una concezione meramente consolatoria della vita e che la fede religiosa sia sostanzialmente un disturbo mentale.
Ma è proprio la frase sopra citata di Gesù a dimostrare che il cristianesimo non è una religione consolatoria o una religione in cui l’infantile desiderio umano di immortalità troverebbe una sua illusoria gratificazione psicologica. Non pensate ai morti, alle cose morte, alle cose tristi del passato, alle vostre esperienze negative, ai vostri affetti violati o turbati, alle vostre speranze deluse o tradite, alla vostra stessa infelicità, e non vi attardate a compiere gesti quotidiani che alimentino il vostro pessimismo e la vostra pigrizia spirituale o che risultino funzionali ad un rituale meramente consolatorio, ma datevi da fare, prendete sul serio il mio messaggio di salvezza che vi invita ad un impegno attivo e fattivo, ad operare concretamente nel mondo anche se non a favore del mondo e di tutte le sue iniquità ma a favore degli ultimi, degli oppressi, dei malati, di chiunque abbia bisogno di solidarietà e d’amore. E che la vostra preghiera non sia meramente intimistica, sentimentalistica, consolatoria, priva di spirito di lotta contro il peccato e il male sotto qualsiasi latitudine storico-esistenziale, ma sia tutt’uno con la vostra disponibilità a fare sempre la volontà di Dio, che è assoluta volontà di vita, e ad eseguire praticamente al di là di ogni pur umano insuccesso gli impegnativi comandi di Cristo.
Questo è esattamente il senso evangelico dell’esortazione di Gesù e la cifra più alta della sua opera di salvezza.