Pastori veri e pastori falsi

Scritto da Benedetto Lorelli on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Chi è il pastore? Il pastore è colui a cui è affidata la vita di un gregge, per custodire e proteggere il quale egli si pone generalmente alle sue spalle mentre non esita a porsi alla sua testa tutte le volte che vi sia pericolo per la sua incolumità. Dunque, quando tutto è tranquillo, il pastore se ne sta nelle retrovie, mentre, solo quando percepisce una situazione reale di rischio, non esita a mettersi in prima fila e ad esporsi personalmente ad eventuali pericoli.

Anche dal punto di vista presbiterale, dovrebbe accadere la stessa cosa, dovrebbe valere la stessa dinamica, per cui un prete dovrebbe dimostrare il suo amore per la comunità parrocchiale in cui opera non standosene protagonisticamente sempre in prima fila, magari con le sue omelie pompose e retoriche o con comportamenti decisionistici tanto esibiti quanto non privi di arbitrarietà, ma offrendo una presenza attiva e tuttavia nascosta, umile, dimessa, proprio per non togliere nulla alla sua comunità che egli ha il dovere di servire preservandone la centralità e quindi non mettendone in ombra i vari “carismi” e le specifiche attitudini spirituali con comportamenti più o meno egocentrici e volti a monopolizzare di fatto, sia pure attraverso espedienti formali del tutto irrilevanti o ininfluenti sotto il profilo squisitamente pastorale, l’intera vita comunitaria.

Chi presiede alla vita pastorale di una comunità esercita un ministero e quindi un semplice compito di servizio, per cui più che autorità egli dovrebbe avere un’autorevolezza spirituale che, senza mai prevaricare nei confronti della libertà di espressione e di iniziativa di alcuno, dovrebbe potersi concretamente manifestare in una non appariscente e presuntuosa volontà o capacità di formazione catechetico-dottrinaria, in una partecipazione franca e qualificata ma equilibrata e non unilaterale alla vita complessiva dell’assemblea, in una saggia e risoluta predisposizione ad intervenire sia per richiamare a fin di bene sia per correggere certe condotte personali o collettive tendenzialmente devianti da un retto sentire e vivere la fede.

Ma tutto questo serve non a negare ma a sottolineare che il vero pastore è solo colui che sta dietro il suo gregge, tranne che nei momenti in cui deve difenderne la dignità o addirittura l’incolumità, cercando di capirne le reali necessità come le effettive debolezze, e non sovrapponendo astrattamente ad esse una prassi omiletico-liturgica non radicata nella reale e specifica configurazione intellettuale e spirituale della comunità medesima e quindi destinata ad essere verosimilmente percepita oltre ogni possibile sforzo di buona volontà come qualcosa di meccanico e scontato.

Il pastore, in altri termini, non deve fare il primo attore per le cose ordinarie e comode della vita parrocchiale o comunitaria, magari lasciando correre in essa per quieto vivere abitudini sbagliate o improduttive, ma deve esporsi solo per fatti oggettivamente gravi e in circostanze in cui sia messa a repentaglio la sicurezza materiale e spirituale della intera comunità o di una parte di essa. L’amore per i propri fedeli non si dimostra con le prediche e spesso le chiacchiere di tutti i giorni, ma con una vocazione profetica più che ecclesiastica che porti il sacerdote ad essere presente tutte le volte che nella sua comunità siano davvero in gioco valori basilari della fede e della vita spirituale di ognuno e persino la propria rispettabilità o la propria vita, mentre duole constatare come spesso succeda esattamente il contrario: cioè che il sacerdote scompaia improvvisamente o si dilegui inaspettatamente proprio nei momenti in cui si avrebbe più bisogno di lui, della sua parola e della sua opera.

Il fatto è che pastori non ci si può improvvisare. Puoi essere vescovo di grande esperienza e di rigorosa cultura teologica, prete dotato di particolare appeal spirituale, missionario di fama internazionale, frate completamente “separato” dal mondo, credente praticante e oltremodo rispettoso dell’ortodossia, ma se manca la forma mentis, la mentalità, il carattere, il coraggio che porti a connettere sistematicamente quello che facciamo e il modo in cui lo facciamo a quello che sappiamo, pensiamo e diciamo, non si potrà mai essere pastori, sia nella tipicità del suo significato sacerdotale sia anche nella sua accezione più generica ed ampia, veramente degni di questo nome, anche se Dio non farà mai mancare il suo perdono e la sua misericordia anche a quanti non intenzionalmente ma solo per insospettate e tuttavia reali debolezze personali non siano sempre capaci di tener fede ai propri impegni battesimali e vocazionali.

Dunque ci sono pastori e pastori, pastori veri anche se non privi di limiti e difetti e pastori falsi anche se non privi di grandi capacità dottrinarie e comunicative, sia pure con tutta una gamma di casi intermedi. I veri pastori sono anche quelli su cui effonde le sue potenti sollecitazioni lo Spirito Santo, mentre i falsi pastori sono quelli che si credono mandati dallo Spirito Santo pur avendo compiuto la loro scelta sacerdotale solo sulla base di esigenze personali di assai dubbio valore spirituale e che poco o nulla hanno in realtà a che fare con «i gemiti inesprimibili dello Spirito Santo» (San Paolo, Lettera ai Romani 8, 26-27). Il che vale ovviamente per le vocazioni spirituali, reali o presunte, di ognuno di noi.

In generale, si può dire che i pastori che parlano sempre dei valori universali del vangelo in modo astratto, generico, decontestualizzato, in realtà non fanno altro che smorzarne la vera potenza profetica e trasformatrice e ridurne enormemente il significato salvifico che tale è e può essere solo se rimane radicalmente alternativo a qualsivoglia tipo di compromissione con i falsi valori e quindi con gli idoli di questo mondo. Il vangelo si allontana inesorabilmente dai discorsi di questi pastori tutte le volte che essi, riducendolo a scontate e generiche formulette dottrinarie e teologiche, non ne presentano il messaggio salvifico come annuncio di liberazione rivolto esclusivamente a coloro che si trovino a dover soggiacere a forme di oppressione fondate sull’iniquità e su una iniquità assai variegata che i diversi poteri del mondo, ivi compresi quello religioso e quello esercitato da non trascurabile parte dei presbiteri e dei semplici fedeli cattolici, non disdegnano di comprendere, di giustificare, e alla fine anche di garantire e consolidare.

Ancora nel mondo cattolico si fa molta fatica a  capire che il vangelo è una “buona notizia” solo perché non è imparziale come molti vorrebbero, solo perché è schierato, al pari di Dio, contro chi è tendenzialmente oppressore e a favore di chi è tendenzialmente oppresso e umilmente impegnato in un’opera non mistificante di verità, di giustizia e di pace. Il vero scandalo della croce non consiste solo nella morte di Dio ma nel fatto che proprio quella morte obbliga implacabilmente ogni credente ad essere fino alla fine in duro conflitto con se stesso e con il mondo per essere in pace armoniosa con se stesso e con gli altri in Cristo.