Svergognati d'Italia!

Scritto da Francesco di Maria.

 

Poco fa, Giorgio Napolitano, nel suo discorso parlamentare di reinsediamento in veste di confermato Presidente della Repubblica italiana, ha detto: «il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti». Che è un ragionamento formalmente ineccepibile ma, alla luce di vent’anni di prassi politica e parlamentare scorretta e inconcludente, ancora una volta ambiguo sotto il profilo morale, insufficiente sotto il profilo sociale, e sostanzialmente inefficace e inaccoglibile sotto il profilo politico se non da parte di forze parlamentari ormai arroccate da tempo attorno ad una concezione farisaica ed eteronoma dell’impegno politico in quanto incapace quest’ultimo di esplicarsi autonomamente rispetto ad istanze politico-finanziarie internazionali non solo estranee ma sempre più antitetiche ad istanze nazionali di riorganizzazione e di ripresa del complessivo quadro economico e sociale.  Allora vediamo di poter rimettere a fuoco alcuni concetti semplici ma essenziali per una vita realmente e non retoricamente democratica del Paese Italia.       

La democrazia storicamente non è nata come ricerca di consenso ma come metodo per risolvere quanto più pacificamente possibile i dissensi e quindi le stesse contraddizioni che attraversano la società, per cui può accadere, e oggi accade molto frequentemente, che tutto il consenso ricevuto dai partiti non sia ancora condizione sufficiente perché uno Stato e una nazione occidentali possano meritare di essere definiti e qualificati come democratici. Se contraddizioni e conflitti inerenti il corpo sociale non possono esprimersi né nel quadro istituzionale, a cominciare dalla istituzione parlamentare, né per le strade o nelle piazze, è del tutto evidente che viene a mancare lo spazio vitale di espressione e di denuncia che è assolutamente necessario alla vita democratica.

Se la democrazia non riesce di fatto a costituirsi quale “strumento di liberazione e di lotta”, secondo la definizione di Jean Jaurès, essa viene meno al suo compito principale che è quello di migliorare non tanto formalmente quanto sostanzialmente la complessiva condizione di vita dei cittadini e innanzitutto e soprattutto dei cittadini più disagiati.

E’ inutile girare attorno alla questione: la democrazia è essenzialmente questo e se questo essa non è capace di essere non è più democrazia ma al più un truffaldino surrogato della democrazia che potrebbe comportare alla lunga pericolosissime convulsioni sociali di natura eversiva o rivoluzionaria.

Una società non è democratica semplicemente perché fondata sul suffragio universale e su un parlamento liberamente eletto ma è democratica solo se essa dispone di procedure che garantiscano la non eludibilità delle principali questioni economiche e sociali emergenti dalla complessiva volontà elettorale dei cittadini, e di regole o meccanismi preposti inderogabilmente a salvaguardia di un libero parlamento in cui non abbiano possibilità di accesso in qualità di rappresentanti della nazione non solo i cosiddetti incensurati ma anche i titolari di redditi esorbitanti: questo, evidentemente, per evitare che la democrazia, di cui tutti si sciacquano copiosamente la bocca, da “potere del popolo” non venga trasformandosi o non rischi continuamente di trasformarsi, a causa della sua pur necessaria mediazione della rappresentanza indiretta, in “potere dei ricchi” o “per i ricchi” o, che è lo stesso, dei furbi e per i furbi.

La democrazia si autodivora ove venga usata come strumento di potere fine a se stesso (ed è il caso dell’Italia) e non come strumento di servizio finalizzato a soddisfare domande oggettive e pressanti di eguaglianza e giustizia. Né sussistono ragioni particolari che oggi, nell’epoca della globalizzazione economica e finanziaria, possano giustificare il progressivo snaturamento della democrazia occidentale rispetto al suo originario e fondativo significato, a meno che non si voglia apertamente sostenere che, dati i tempi e la particolare emergenza economica mondiale ed europea, essa non sia praticabile integralmente, e che quindi paradossalmente democrazia possa esserci non già in tempo di crisi e di discordia ma solo in tempi di prosperità e di concordia sociale. Laddove invece la democrazia è proprio intrinsecamente antitetica non solo all’idea di una possibile e sia pure momentanea sospensione del libero esercizio della volontà popolare ma anche alla stessa possibilità che quest’ultimo possa essere minimamente condizionato da ingerenze internazionali “esterne”.

La sua peculiare funzione è infatti quella di impedire ingerenze o sopraffazioni dirette o indirette, interne o esterne, di qualsivoglia natura, e di contrapporsi a forme virtuali di “dittatura finanziaria” che possono attecchire storicamente solo in presenza di democrazie molto deboli o puramente formali. Occorre stare perciò molto attenti oggi a tutti quei politici e a quegli osservatori nazionali ed internazionali che agitano continuamente lo spauracchio dei nazionalismi e dei populismi proprio perché ideologicamente portati, nel nome e per conto degli ingentissimi interessi di alcune potenti oligarchie finanziarie, a contrastare l’oggettivo pericolo di un’opposizione democratica popolare troppo forte e determinata alle logiche arbitrarie e vessatorie, di matrice europeistica ed euromonetaria, che puntano ormai a consegnare a pochi gruppi privilegiati i destini del mondo e dei popoli.

Che una vera democrazia sia solo quella in cui si registrano convergenze politico-programmatiche di forze parlamentari diverse o opposte o in cui non si danno mai veri e propri conflitti in funzione di una generica ed astatta pace sociale, è una semplice e banale mistificazione sostenuta tra gli altri dal rieletto presidente della repubblica italiana Giorgio Napolitano, rispetto al quale anche una parte del mondo cattolico non sente di potersi associare alle parole augurali a lui indirizzate da papa Francesco, ovvero «di continuare la sua azione illuminata e saggia e di essere sostenuto dalla responsabile cooperazione di tutti» (20 aprile 2013).               

In particolare proprio i cattolici, il cui incondizionato amore per la verità dovrebbe essere scontato, non devono lasciarsi ingannare da concezioni o interpretazioni farsesche e farisaiche della democrazia, ed è per questo che essi, lungi dal voler evitare o nascondere i conflitti, devono capirli e tentare di risolverli con l’impegno quotidiano e con la preghiera. Consci di essere “agnelli in mezzo ai lupi”, non devono avere paura dei lupi ed indietreggiare pavidamente ma affrontarli con coraggio e determinazione evangelica perché possano nuocere il meno possibile e perché non passi come ovvia e ineluttabile verità quella convinzione, fallace ma ormai comune alla quasi totalità delle formazioni governative e spesso anche non governative, per cui in democrazia tutto si possa fare ma pur sempre in un rapporto di compatibilità con quelle che sarebbero le immutabili leggi del mercato e dell’economia.

E’ forse il caso di ricordare che monsignor Oscar Romero, una grande personalità del mondo cattolico alla quale la Chiesa non ha ancora tributato tutti gli onori che meriterebbe, riteneva che il capitalismo complessivamente considerato, sia pure nella differenza delle forme e dei modi in cui viene attuandosi nelle diverse aree del pianeta, fosse una controreligione assoluta, una mentalità ateistica particolarmente pericolosa per la Chiesa cattolica perché facilmente e subdolamente suscettibile di infiltrarsi nella sua stessa coscienza religiosa chiamata a discernere e ad operare in un mondo per l’appunto capitalistico in cui troppo spesso di fatto «i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio» e in cui parole evangeliche eterne come quelle di giustizia, uguaglianza, libertà in senso ampio, e quindi anche di condivisione personale e comunitaria dei beni materiali e spirituali, sembra debbano venire adattandosi alle meschine e inique dinamiche dei poteri del mondo. Non è cosí, non può essere cosí, perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’umanità semplicemente da un punto di vista politico ed economico ma è altrettanto vero che non potranno essere disattesi impunemente i suoi continui e minacciosi moniti a preoccuparsi degli ultimi, degli affamati, degli assetati, insomma degli indigenti e a fare di tutto per essere giusti agli occhi di Dio e degli uomini. Non ce ne dimentichiamo!

Come potrebbero oggi i cattolici dissentire da una diagnosi quale quella formulata da Zygmund Bauman, il quale, parlando di un “capitalismo parassitario”, ha mostrato come, per precisi motivi di evoluzione storica, gli unici “ospiti” attuali di cui il capitalismo può nutrirsi, spolpandone avidamente le residue risorse, siano «gli stessi cittadini degli Stati ad economia capitalistica», i quali vengono sfruttati attraverso il loro assoggettamento al pagamento di interessi sempre più arbitrariamente alti sul debito contratto con banche e istituti finanziari, e come le politiche degli Stati capitalisti “democratici” o “dittatoriali” (come la Cina) vengano costruite e condotte non contro l’interesse ma nell’interesse dei mercati. Un tempo gli Stati proteggevano l’accumulazione di capitale attraverso lo sfruttamento della manodopera operaia, oggi assolvono tale funzione attraverso lo “sfruttamento dei consumatori”.

Se le cose stanno cosí, ci si deve chiedere seriamente per quale motivo ci si debba continuare ad indebitare, chiedendo credito e rifinanziamento del debito stesso, e si debba continuare a sottostare alle criminali ingiunzioni di mercanti e banchieri usurai. L’occidente cristiano non può consegnarsi mani e piedi, corpo e anima, a quei lupi famelici che sono chiamati mercati e che tendono a far strage di tutto, oltre ogni più elementare considerazione di ordine umano e morale, e a divorare tutto pur di ingrassare se stessi. Non è possibile né in senso laico, né in senso evangelico. Cristiani e non credenti non possono vivere in funzione di una “democrazia eterodiretta” e di una meccanica crescita a dismisura di mostruosi leviatani politico-finanziari che condannano un numero sempre più grande di persone ad uno stato di schiavitù.

E’ anche e soprattutto in questo senso che la patetica rielezione di Napolitano a Capo dello Stato non può non turbare profondamente l’animo della stragrande maggioranza del popolo italiano. Infatti, Napolitano, socio dell’Aspen Institute e dei più esclusivi clubs finanziari internazionali, è tra i massimi portavoce della grande finanza mondiale e di una politica europea che più che a migliorare le condizioni di vita dei popoli appare diretta ad opprimerli con pesanti trattati economici internazionali e asfissianti politiche fiscali.

Dove è del tutto chiaro che i partiti italiani che oggi hanno voluto rieleggerlo, e solo per motivi di convenienza o di bottega, non potranno domani dar vita ad un governo che non abbia al centro della sua agenda politica, sia pure forse con formulazioni leggermente attenuate, l’idea fissa del “mondialista” Giorgio Napolitano, ovvero l’Europa a tutti i costi, la necessità di onorare a tutti i costi i trattati internazionali e i patti di stabilità sottoscritti anche dallo Stato italiano, l’impossibilità di sottrarsi al dovere di continuare a pagare il debito pubblico, e, dulcis in fundo, proprio al fine di varare un programma cosí impegnativo ma cosí poco democratico, l’obbligo di un governo unitario di tutte le forze che, nel conferirgli il secondo mandato, hanno implicitamente accettato di sottoporsi ai suoi diktat.

In effetti, Beppe Grillo, benché il suo movimento non sia affatto privo di contraddizioni e ambiguità, non è andato molto lontano dal vero nel parlare di “piccolo golpe” in occasione della rielezione presidenziale del “migliorista” Napolitano, giacché la democrazia anche in questo caso è stata rispettata solo di striscio, solo ipocritamente e avendo in animo propositi assolutamente antidemocratici. Già, perché i vari Marini, Prodi, Amato, D’Alema, lo stesso Napolitano et similia, quanti voti avrebbero preso se agli italiani fosse stato consentito di votare e di eleggere direttamente il Capo dello Stato? Questi nomi, ha osservato una coraggiosa intellettuale italiana come Ida Magli, «vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia, che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro-finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale», né mancano buoni motivi per sospettare che «la presidenza della repubblica italiana» sia «appaltata al Bilderberg» (Il Bilderberg nomina il presidente della Repubblica italiana, dal blog “Italiani Liberi” del 21 marzo 2013).

Per questo, l’elezione di Napolitano non solo costituisce un atto di arroganza perché in palese contrasto con la domanda di rinnovamento e con la gran parte delle aspettative popolari emerse dalle ultime e recenti elezioni politiche, ma anche e soprattutto una inequivocabile dimostrazione di spudoratezza politica ed umana che non può non indurre persino i cittadini più civili e pacifici di questo nostro infelice Paese a qualificare gli artefici di una siffatta operazione e in particolare i “grandi elettori” del PD, di sicuro colpevoli di perpetuare un’oscena alleanza con Berlusconi e Monti, come puri e semplici svergognati: svergognati d’Italia!