Silone e i falsi democratici
Ignazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, scrisse nel 1938, pensando in quel caso più al “fascismo rosso” del comunismo politico di matrice sovietica che non al “fascismo nero” di Mussolini e compagni, “la Scuola dei dittatori” (pubblicato in Italia con Mondadori nel 1962), un vero e proprio vademecum per aspiranti dittatori che cercano di ottenere per via democratica il più ampio consenso popolare possibile. Silone qui fa spiegare le ragioni e le modalità della conquista del potere al suo stesso alter ego, ovvero a Tommaso il Cinico (cinico non nel senso corrente di indifferente o amorale ma in quello etimologico di κύων e quindi di cane randagio in quanto esule ma anche di cane sciolto o cane abbandonato in quanto privo di sostegni politici o religiosi, come era in effetti lo stesso Silone nel suo duplice stato di “socialista senza partito” e di “cristiano senza chiesa”), che impersona la parte di un fuoruscito antifascista ed ex comunista italiano.
Ecco, Tommaso il Cinico spiega che tutti i politici che sono affetti da pulsione dittatoriale fanno pregiudizialmente e sistematicamente ricorso alla volontà popolare per giustificare la loro ricerca di potere. Se si pensa al mantra quasi quotidiano di questi anni sulla “maggioranza degli italiani”, sembrerà di poterne udire ancora oggi e per l’oggi le sferzanti parole. Gli aspiranti dittatori, argomenta il Cinico, sono mediocri sia intellettualmente sia moralmente, benché abbiano la mente infarcita di una falsa cultura basata più sulla categoria della verisimiglianza che su quella della verità ma utile a trasformare se stessi in idoli per le masse. Costoro sono essenzialmente soggetti ignoranti ma molto intuitivi, nel senso che sono «opportunisti di genio», capaci cioè di stare dentro la storia e di muoversi con istinto, istinto tanto più funzionale ad un’ascesa al potere quanto più in grado di correggere via via il tiro di precedenti analisi sbagliate e istinto che sfrutta e rivela debolezze intrinseche ai sistemi democratici.
Costoro sono in grado di capire che per puntare al successo si devono attenere ad una regola precisa: «gettare il discredito sul sistema tradizionale dei partiti e sulla stessa politica, renderli responsabili di tutti i mali della patria e aizzare contro di essi l'odio delle masse…Discutere? Persuadere? Sarebbe una pazzia. Un aspirante dittatore non deve fare appello allo spirito critico degli uditori. Egli ne sarebbe la prima vittima. Un capo fascista deve saper trascinare infiammare esaltare i suoi uditori, ispirando disprezzo e odio verso i perdigiorno che discutono. 'Le chiacchiere non riempiono lo stomaco', ecco uno slogan efficace contro i politicanti tradizionali. Tutto quello che il capo fascista dirà, sarà enunciato nella forma dell'evidenza, in modo da non dare adito al minimo dubbio o discussione. Locuzione come 'può darsi', 'forse', 'a me sembra', 'salvo errore', saranno rigorosamente evitate. Ogni invito alla discussione sarà respinto. 'Non si discute sulla salvezza della patria', 'non si discute coi traditori', 'i disoccupati aspettano lavoro e non parole', ecco risposte che ogni seguace approverà».
Non sono impressionanti queste parole alla luce di certi fenomeni democratico-dittatoriali che oggi abbiamo sotto i nostri stessi occhi? Intendiamoci, questi capipopolo, questi tribuni del popolo molto più plebeo che colto o consapevole, sanno bene come blandire, come coinvolgere, come usare le masse per i loro fini di potere, e per questo non pronunceranno mai la parola dittatura né arringheranno la folla alla rivolta o alla rivoluzione contro i poteri costituiti dello Stato prima di essere ultrasicuri che lo Stato non abbia più la forza di opporsi o di resistere a moti eversivi o rivoluzionari.
Tuttavia, intimamente coltivano propositi o sogni di rovesciamento delle istituzioni democratiche, pur tenendoli accuratamente nascosti e camuffandoli propagandisticamente come sentimenti altamente e genuinamente democratici. Come ben osserva il Cinico: «Il dittatore moderno ha bisogno di qualificare il proprio regime come una forma superiore di democrazia, addirittura come la vera democrazia, la democrazia diretta, e a questo scopo farà promuovere quotidiane manifestazioni di folla e ogni tanto qualche plebiscito» (che oggi possono senz’altro leggersi come esaltazione acritica della “rete”, come logica meramente assemblearistica del meetup, come mentalità referendaria indiscriminata o puramente strumentale, e via dicendo).
La democrazia, d’altra parte, rileva il Cinico, tende a sovraccaricare lo Stato di «un numero sempre più grande di funzioni sociali» che viene implicando una moltiplicazione a dismisura di poteri «di una specie e in una quantità tali che la democrazia politica non può in alcun modo controllare» e allora accade che «la cosiddetta sovranità popolare si riduce in tal guisa ancora più a una finzione. […] La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile […]. Alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale degli eletti. I deputati non si curano che della propria rielezione».
Proliferando i poteri dello Stato democratico con relativa destinazione di fondi ai vari settori in cui essi vengono esercitandosi, «il bilancio dello Stato medesimo assume proporzioni mostruose indecifrabili per gli stessi specialisti. La sovranità reale passa alla burocrazia, che per definizione è anonima e irresponsabile, mentre i corpi legislativi fanno la figura di assemblee di chiacchieroni che si accapigliano su questioni secondarie», per cui «alla decadenza della funzione legislativa corrisponde fatalmente la caduta del livello morale medio degli eletti». Infatti,«per poter servire i gruppi di pressione che facilitano» la decadenza del potere legislativo, «essi stessi», cioè gli eletti, «hanno bisogno di benevolenza dell’amministrazione» ovvero degli apparati e dei poteri centrali dello Stato.
Va da sé che la forte egemonia statuale conseguita dalle élites di potere in seno alla società e sulla stessa società, costituisca «la premessa per ogni dittatura, anzi è essa stessa già dittatura». Queste élites tendono ad opacizzarsi sempre più rispetto ai bisogni reali della gente e a fare sostanzialmente tutto quello che vogliono, usando a proprio piacimento e in modo del tutto strumentale gli stessi meccanismi della vita democratica come le libere elezioni, il parlamento, il rispetto formale delle norme costituzionali, le libertà civili, in ciò enormemente aiutate dall’enorme diffusione dei cosiddetti massmedia, che concorrono enormemente ad «uniformare il modo di sentire degli individui e a distrarli da ogni pensiero autentico».
Proprio in situazioni di questo tipo, peraltro, vengono attecchendo movimenti impetuosi di protesta che non tanto alla loro base quanto ai loro vertici, sia pure nel nome delle idealità costituzionali e democratiche, il più delle volte vengono in realtà perseguendo obiettivi di violento e radicale rovesciamento dell’ordinamento democratico per sostituirlo al momento opportuno con un regime dispotico o dittatoriale. Anche questi movimenti formalmente non ideologici e solo alimentati in apparenza da una condizione generalizzata di malessere economico e sociale, tendono ad enfatizzare molto il concetto di maggioranza popolare e il diritto di quest’ultima ad esercitare una democrazia diretta, sino ad identificare il «governo della maggioranza del popolo», posto che di oggettiva maggioranza numerica si tratti e non di un consistente ma pur sempre limitato consenso elettorale manifestato a loro favore, con la «democrazia» tout court: equazione, questa, che Ignazio Silone contesta decisamente quando scrive che «il numero, senza la coscienza, è zavorra servibile a tutti gli usi».
Un governo democratico, al contrario, non è solo questione di natura numerica ma anche e soprattutto questione di natura culturale e morale: sulla scena politica italiana quante volte si sono alternati governi numericamente maggioritari ma privi di quella conoscenza e di quelle competenze, di quella determinazione a risolvere i problemi economici e sociali più urgenti dei cittadini e più segnatamente di quelli più disagiati, e di quella volontà etico-politica di tutelare i legittimi interessi del proprio popolo rispetto ad indebite o illecite ingerenze e prevaricazioni di gruppi finanziari nazionali e internazionali di potere? Sono le conoscenze, le competenze, le capacità intellettuali, non propagandisticamente sbandierate ai quattro venti ma oggettive ed incontrovertibili, insieme ad una coscienza morale capace di resistere a qualsiasi condizionamento di parte e di recepire le più profonde istanze del popolo e della nazione rappresentati senza mai indietreggiare rispetto alle molteplici pressioni di “poteri forti”, a dare vera sostanza alla democrazia e alle sue finalità generali di buon governo.
Negli ultimi vent’anni, in Italia, abbiamo avuto delle maggioranze numeriche che, salvo poche eccezioni individuali, proprio in virtù di un acritico numero maggioritario hanno finito per giustificare, con mille sotterfugi e motivazioni risibili, scelte politiche importanti ma compiute non nel rispetto bensí nella palese violazione di quella stessa volontà maggioritaria da esse paradossalmente invocata a sostegno delle proprie attività governative. «Siamo la maggioranza» è stato forse il leit-motiv più pressante, l’argomento buono per zittire il dissenso, arrivando spesso ad esiti paradossali appunto perché contrari alla stragrande maggioranza popolare. Forze di governo, forze di opposizione, forze parlamentari, forze extraparlamentari, farebbero bene a ricordarsene per evitare di reiterare in modo indeterminato una siffatta operazione truffaldina ai danni del popolo.
Ha scritto significativamente un’insigne accademica e studiosa brasiliana del pensiero siloniano come Doris Nàtia Cavaliari che «l’opera siloniana sarebbe “poco utile” in un mondo dove non vi fossero contadini senza terra per coltivare, dove non esistessero ingiustizie sociali e neanche politici corrotti, in un mondo che non fosse controllato dai mass media, dove i ricchi signori e i ricchi paesi non opprimessero i poveri e non comandassero il loro destino; un mondo del genere sarebbe senza guerre, senza armi e senza nessun tipo di dittatura, compresa quella che tante volte si traveste sotto il nome di democrazia, e non sarebbe necessario lottare per la libertà. Giudichi allora il lettore se valga la pena conoscere l’opera letteraria di Ignazio Silone».
Ma vale qui la pena di citare altri due giudizi. Il primo è dello scrittore francese Gilbert Sigaux: «La rivoluzione di Silone è la rivoluzione degli uomini nudi. Nudi, non soltanto nel senso di sprovveduti ma, più profondamente, nel senso di uomini soli, solamente uomini. Uomini che conoscono la loro solitudine e si sforzano perpetuamente di spezzarla con la fiducia e con le opere di misericordia: dar da bere agli assetati, nutrire gli ignudi, guarire gli ammalati». Il secondo è di Sandro Pertini, un uomo e un politico molto caro ad un “rivoluzionario” di questi tempi come Beppe Grillo e a molti attivisti del movimento 5 Stelle: «Silone era un uomo dal cuore puro, un intellettuale onesto. Di Silone c'è una frase che ho sentito di recente: "Gli schiamazzi della folla non possono far tacere la voce della coscienza". C'era tutto Silone in quella frase». Sarebbe bello se il leader genovese e almeno una parte consistente di suoi seguaci condividessero almeno quest’ultimo giudizio e si sforzassero di fare propria l’esemplare e non comune sensibilità etico-civile di Ignazio Silone.
Sarebbe bello soprattutto perché, per quanto moralmente infervorati e politicamente determinati possano essere, talvolta sembra potersi loro applicare lo stesso giudizio che Silone esprimeva sui bolscevichi russi, a cominciare da Lenin, appena saliti al potere: «Ciò che mi colpí nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l'assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz'altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile» (citato in I. Montanelli, I protagonisti, Rizzoli Editori, Milano 1976, p.183).