Lettera aperta ai fedeli della diocesi di Cosenza

Scritto da Francesco di Maria.

 

Oggi tra i cattolici si parla spesso d’amore dando quasi per scontato che siano sempre e solo gli altri a non amare abbastanza, si fa uso della parola umiltà prevalentemente per ricattare o quanto meno condizionare in senso psicologico chi abbia una mentalità meno conformista e più critica  della nostra pur professando la nostra stessa fede, si evoca la giustizia raramente nella globalità dei suoi significati e molto più frequentemente attribuendole significati che riflettono differenti interessi personali o punti di vista parziali, si discute di pace e di pacificazione in termini tendenzialmente astratti e generici. Ciò accade evidentemente perché molti cattolici hanno della verità e quindi di Cristo stesso percezioni oltremodo differenziate e talvolta persino incompatibili tra loro, sino al punto di potersi affermare provocatoriamente che la fede cattolica contemporanea, seppure spesso validamente assistita e sostenuta dal magistero della Chiesa, appare ormai come una fede non di rado priva di quella forza unificante delle coscienze che aveva caratterizzato in passato forme più tradizionali ma non per questo meno incisive e proficue di fede. 

Tale fenomeno però non dipende tanto dalla preparazione o dalle capacità culturali dei singoli credenti, quanto da una sorta di smania psicologica oggi abbastanza diffusa di adattare taluni dati essenziali della fede “rivelata” alla propria egoità, alle proprie pulsioni che si vorrebbe più giustificare che non rimuovere o reprimere, alla propria nascosta volontà di supremazia o a discutibili pratiche di vita cui non si riesce a rinunciare.

Forse un tempo accadeva più frequentemente di vedere un credente cattolico che, a prescindere dal suo status culturale, fosse capace non solo di esprimere giudizi obiettivi ma soprattutto di praticare una severa autocritica, ovvero quell’esame interiore rigoroso, che è tipico del cristiano realmente pervaso da spirito di verità e di carità, senza cui nessuna testimonianza di Cristo e per Cristo può avere luogo nella nostra vita e nella storia degli uomini. In tal senso oggi abbiamo a che fare non solo con cattolici che non hanno mai seriamente interiorizzato i princípi e i valori della fede in Cristo ma con cattolici che, per quanto dotati di buona preparazione religiosa e teologica, aspirano ad assolvere una funzione critico-educativa talvolta eccedente rispetto a capacità personali e a conoscenze acquisite e che, anche per le modalità in cui viene ordinariamente esercitata, finisce per produrre il più delle volte l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere una testimonianza cristiana.

Nella diocesi di Cosenza, per esempio, abbiamo professori universitari cattolici che, anziché preoccuparsi di dimostrare innanzitutto di aver meritato e di meritare il posto che occupano pubblicando un certo numero di studi qualificati che riguardino le loro specifiche competenze, sembrano molto più desiderosi di cimentarsi in cose di ordine morale e politico di cui non solo non hanno alcuna specifica competenza culturale e professionale ma di cui senza avvedersene parlano e scrivono con una delicatezza logico-metodologica e argomentativa pari alla delicatezza con cui un elefante si muove in una cristalleria. Nella diocesi di Cosenza abbiamo poi preti sobri e preparati, ma abbiamo anche preti che usano il pulpito per deliziare generalmente l’uditorio di ineffabili sciocchezze, e preti più o meno intelligenti che però, da sempre frustrati e di dubbia trasparenza spirituale, nonché convinti di padroneggiare tutti i campi dello scibile umano, trovano il loro sfogatoio naturale in molto presunte attività culturali e giornalistiche caratterizzate da continue imprecazioni predicatorie e da un’assoluta carenza di spessore teorico oltre che da interpretazioni teologiche non sempre “ortodosse” ed esegeticamente legittime o accurate.

Inoltre, abbiamo un discreto numero di “fedeli” di varia umanità e di diversificata estrazione sociale e culturale, anche se di sesso prevalentemente femminile, che non sanno fare a meno della santa messa giornaliera semplicemente perché non sanno rinunciare a un’abitudine di tipo consolatorio o non sanno come riempire quell’ora di tempo e non perché intendano utilizzare la partecipazione alla celebrazione eucaristica per porre a se stessi domande mai poste, per interrogare la propria coscienza in modo più scrupoloso di quanto non siano stati fin lí capaci di fare, per aggiungere ai propri doveri qualche essenziale dovere mai considerato come tale, per avere una più nitida percezione dei propri limiti e delle proprie possibilità, per dare un senso spirituale più elevato alla propria residua esistenza, per modificare in senso più generoso ed altruistico il proprio rapporto con gli altri specialmente quando abbiano a che fare con persone sagge e “giuste”, per potenziare la sincerità delle preghiere di lode e di richiesta elevate al Signore.

Naturalmente, non mancano i “critici” e gli “ipercritici” che mirano a sfasciare tutto con analisi e valutazioni completamente disoneste ed interessate e assolutamente indifferenti al problema di cosa e come fare per lavorare al progetto di una diocesi cosentina non suscettibile di ridursi in modo irreversibile ad un museo di vetusti articoli di fede e di declamazioni ecclesiastiche ed ecclesiali ormai prive di fecondità e vitalità evangeliche. Il panorama cattolico diocesano, ma forse non solo diocesano, è evidentemente molto più variegato e complesso di quanto qui, sia per motivi di spazio sia per motivi di opportunità, non sia possibile descrivere.

Tuttavia, è forse utile accennare alla presenza di certi cattolici “conservatori” che purtroppo non sanno essere abbastanza attenti a talune fondamentali istanze di giustizia e di pace sociali, e di cattolici cosiddetti “progressisti” apparentemente più attivi dal punto di vista sociale e politico che però molto spesso non sono per nulla dissimili da tanti scervellati demagoghi di orientamento laico o laicista: non solo sullo stesso terreno della giustizia economica e sociale sul quale molti di essi, al di là di tante dotte analisi e buone intenzioni destinate a rimanere lettera morta, risultano sempre molto “tiepidi” o incoerenti in fase propositiva e realizzativa, ma anche su questioni oggi particolarmente dirompenti come quelle relative alle pratiche eutanasiche o ai cosiddetti “diritti civili delle coppie omosessuali”, oppure alla stessa “immigrazione clandestina” che certo cinico e miope o fintamente caritatevole pragmatismo politico cattolico, su impulso del nuovo ministro Cecile Kyenge, vorrebbe depenalizzare a dispetto di tanti seri e oggettivi motivi di preoccupazione contenuti in un eventuale provvedimento legislativo di questo tipo.

E’ davvero curioso constatare come oggi tanti cattolici, non solo appartenenti ovviamente alla nostra diocesi, appaiano molto più sensibili e agguerriti sul tema dell’immigrazione, pure senz’altro meritevole di attenzione e di considerazione etica e religiosa, che non su quelli dei diritti economici e sociali di operai e lavoratori in genere su cui si stanno abbattendo ormai da tempo le falci spietate e criminali dei potentati finanziari internazionali senza che numerosi intellettuali, economisti, giornalisti, politici di parte cattolica, trovino il modo di dare una rappresentazione adeguata di quanto sta accadendo, di esprimere un giudizio etico-politico di reale e severa avversione a certe strutturali e planetarie politiche di espropriazione ai danni di intere popolazioni, e di proporre infine energiche terapie governative e nazionali capaci di opporsi a forme di usura sempre più estese e violente per restituire dignità alle stesse identità popolari e nazionali nel cui interesse quelle terapie dovrebbero essere per l’appunto adottate.

Non è che la Chiesa, per il tramite dei suoi più alti esponenti, non faccia sentire al riguardo la sua voce e la sua protesta, ma in generale si ha come la sensazione che il discorso su pensioni e assistenza sanitaria, solo per esemplificare, per tanti cattolici diocesani e per tanti cattolici in senso lato sia recepito come meno importante o meno pressante, sul piano morale e spirituale, di quello pure indubbiamente doveroso su certe forme assistenziali giornaliere di tipo caritativo a beneficio di immigrati o di lavoratori stranieri, di nullatenenti o disoccupati cronici, di drogati e carcerati. Dove si tende a perdere drammaticamente di vista, insieme al senso delle attuali dinamiche storiche, un concetto fondamentale: che quello che viene tolto a pensionati o alla pubblica assistenza sanitaria non viene utilizzato per migliorare le condizioni di vita di quelle altre categorie di persone  o  di categorie sociali e professionali meno protette ma, nel migliore dei casi, solo per pagare gli interessi praticamente inestinguibili di un debito pubblico semplicemente arbitrario e criminale  che, alla lunga, non potrà che rendere sempre più flebili e insignificanti quelle stesse opere caritative oggi più celebrate a parole che praticate nei fatti da molti di noi cattolici e che solo pochi compiono con disinteressato amore apostolico e inequivocabile zelo religioso.

Se oggi non si è capaci di resistere nel nome e per conto di Cristo sul terreno economico e sociale contro ingiunzioni semplicemente vessatorie e disumane ai danni di chi ha un qualche lavoro e dispone di una qualche tutela, domani sarà molto più difficile prestare soccorso anche ai senza patria, ad esodati di varia natura, ad emarginati di qualunque specie. Se i potenti e i ricchi del mondo non hanno alcun riguardo per milioni e milioni di onesti lavoratori e di semplici cittadini che ancora dispongono di una parvenza di protezione giuridica e sociale, per quale motivo dovrebbero mostrarsi un giorno più compassionevoli verso chi ormai non abbia più alcuna possibilità di difesa politica, giuridica e sociale?

Tutto questo serve a sottolineare come, specialmente in questo momento storico, nella nostra diocesi ma probabilmente in tante altre diocesi cattoliche del mondo si possa rimanere facilmente soggetti alla tentazione di confondere la necessaria e vitale moralità evangelica con l’ipocrita e infruttuoso moralismo farisaico e di considerare come mero radicalismo religioso il tentativo di contrastare con il pensiero e con l’azione gli infernali processi storici di potere che si svolgono sotto i nostri occhi, con la conseguenza di attribuire alla carità intesa come buonismo di stampo paternalistico e sentimentalistico una eccessiva funzione di promozione economica e sociale. Perché, se è vero che evangelicamente non si può imporre a nessuno uno spirito caritatevole sia in ambito privato che pubblico, è altrettanto vero che il vangelo obbliga i suoi seguaci, abbienti o non abbienti che siano, ad opporsi pacificamente ma risolutamente a qualsivoglia disegno di oppressione e di sterminio di massa anche se concepito e perseguito con gradualità e in forme apparentemente incruenti.

In tutta coscienza, ci sentiamo in perfetta sintonia con le parole pronunciate recentemente da papa Francesco a Lampedusa. Il papa è andato naturalmente in soccorso di tanti immigrati buoni e generosi che affrontano il terribile rischio di morire in mare pur di approdare in una terra in cui possano costruirsi una vita sufficientemente libera e dignitosa, e anche per questo non ha voluto manifestare la sua consapevolezza circa la natura complessa e problematica del fenomeno immigratorio. Ma, a ben vedere, egli non ha fatto un discorso ovvio o scontato parlando semplicemente e genericamente del dovere di accogliere i migranti o di buon cuore cristiano che, sia pure tra molteplici e spaventose difficoltà, deve sempre poter produrre atti fraterni di amore, di comunione, di solidarietà.

Egli ha invece puntato evangelicamente il dito soprattutto contro i principali responsabili del genere umano, ovvero politici e banchieri, novelli e dispotici Erode insieme ad ingordi Epuloni di sempre, che, prendendo oggi come ieri decisioni sociali ed economiche irresponsabili e criminali, determinano poi i tanti drammi della storia tra cui anche ma non solo quello dell’immigrazione. Infatti, ha detto Francesco, in «questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo».

Multinazionali, lobbyes finanziarie internazionali, associazioni politico-economiche di ispirazione “laicista” e “mondialista”: sono queste le principali forze distruttive anche se “anonime” e non esplicitamente citate che, con tutti i soggetti complici che operano nei grandi apparati dell’informazione di massa, costituiscono a ben riflettere il vero bersaglio dell’omelia lampedusana di papa Francesco, il quale poi ha ribadito e concluso significativamente: «ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore!» (Omelia dell’8 luglio 2013 a Lampedusa).

Una richiesta di perdono che funge però da contestazione profetica verso assetti di potere ingiustificati e iniqui e da sprone spirituale ai cristiani che vengono energicamente esortati a non chiudersi in una logica del benessere personale “che porta all’anestesia del cuore” ma piuttosto a prendere apertamente le distanze da tutti quegli organismi decisionali nazionali ed internazionali che proclamano alti ideali di civiltà e di tolleranza, di pace e cooperazione tra i popoli, di sviluppo economico e progresso sociale, proprio mentre la loro principale attività è quella di espropriare in modo graduale ma inesorabile i popoli stessi e in particolare i soggetti economici più deboli e indifesi, oltre ogni limite di tollerabilità umana e giuridica, di tutte le loro risorse materiali e persino di elementari condizioni di sopravvivenza.       

Fratelli e sorelle della diocesi cattolica cosentina, io sono forse peggiore di voi tutti, ma queste cose dovevano essere dette ed io mi sono assunto, per amore verso Dio e verso gli uomini, la responsabilità di dirvele. Perciò, vediamo di superare nel miglior modo possibile le nostre ambiguità personali, le nostre contraddizioni esistenziali, il nostro quietismo psicologico spesso simile a vero e proprio indifferentismo etico e spirituale, il nostro ottuso e improduttivo perbenismo religioso, e cerchiamo di amarci in modo più serio e costruttivo, senza spirito di rivalità e di rivalsa, senza nevrotica saccenteria e sciatte forme di egolatria, in un lavoro comune in cui ognuno possa essere adeguatamente valorizzato e utilizzato, in base alle sue reali attitudini e alle sue specifiche capacità più che in base a ruoli e a titoli burocraticamente e gerarchicamente definiti, e in funzione del bene comune della comunità diocesana e della comunità sociale di cui fa parte. Chissà che alla fine non potremo essere persino d’esempio a tante altre piccole e grandi diocesi di questo mondo cosí complicato e inospitale! Con la santa benedizione di Dio!