La coscienza, questa sconosciuta
Della coscienza si può parlare in modi e da punti di vista diversi. Se ne può parlare in senso psicologico, e a questo livello si vedrà emergere il complesso gioco di quelle forze biologiche e pulsionali di varia natura ed entità che ne costituiscono il più profondo sostrato, oppure in senso morale, dove determinati imperativi morali acquisiti per via di educazione di esperienza e di cultura si troveranno costantemente a confliggere e a lottare con la parte più istintuale della nostra vita (quella che Freud chiamava l’Es) e con aspetti e realtà irrazionali del mondo in cui viviamo, oppure in senso spirituale e religioso, per cui pensieri e atti individuali o collettivi saranno vissuti ed esercitati almeno tendenzialmente non tanto secondo istanze razionali e civili di natura storica quanto secondo istanze spirituali in parte coincidenti con le prime ma appartenenti ad un ordine trascendente di riferimento e basate essenzialmente sul dato rivelato e quindi sulla fede.
E’ altresí evidente che il significato di coscienza non potrà essere identico per il credente e il non credente, dal momento che per il primo essa ha un’origine divina e costituisce dunque, come recita il Catechismo della Chiesa cattolica (art. 1776), «il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria», mentre per il secondo è solo un complesso e pur meraviglioso prodotto dell’evoluzione umana la quale tuttavia non può non risentire in ogni sua fase di quell’animalità originaria da cui ha avuto inizio. Nel primo caso, la coscienza risponde principalmente a Dio delle proprie azioni, nel secondo caso essa deve rendere conto solo a se stessa.
E’ pur vero che, ove di fatto la coscienza credente sia portatrice di una religiosità manifestamente distorta, come nei casi eclatanti del mafioso o del ricco cinico e sfruttatore che non di rado fanno mostra di devozione religiosa, essa in realtà è solo la caricatura di una vera coscienza religiosa, cosí come, al contrario, si danno forme di coscienza non credente ben più dotate di rigore morale rispetto a tante forme mediocri di coscienza credente; ma, in linea di principio, non è possibile porre sullo stesso piano queste due forme di coscienza. Si può e si deve peraltro notare che, a voler adottare una logica veramente stringente, solo nel caso della corretta coscienza credente appare giustificabile lo sforzo personale e comunitario di evitare il male e di fare il bene, e per il semplice fatto che di tutto bisognerà rendere conto a Dio, mentre in ogni altro caso la coscienza sarà priva di motivazioni realmente oggettive che possano giustificarne un rigoroso impegno morale.
Se non sono convinto che ci sia un Dio misericordioso ma giusto, perché mai dovrei preoccuparmi di perseguire il bene anche a costo di rimetterci personalmente e di rendermi inviso agli altri? Certo, ci sono atei capaci di compiere persino azioni nobilissime o altamente altruistiche e disinteressate, ma generalmente, per quanto ciò sia in ogni caso lodevole, le motivazioni del loro comportamento sono tutte in un’autostima personale molto elevata e quindi in un’immagine gratificante di se stessi magari favorita dal fatto di godere di una posizione di particolare notorietà o influenza socio-culturale. E’ peraltro molto difficile che la coscienza del non credente possa essere immune da concezioni in qualche modo “soggettivistiche” e “parziali” più che “relativistiche” del bene morale e del bene comune, o almeno che essa possa esserne immune nella stessa misura in cui ne è immune la coscienza integra del credente.
In altri termini, è più che plausibile la domanda di Vito Mancuso: «Se non veniamo da un'origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico?» (Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino, in “Repubblica” del 13 dicembre 2013). Potranno esserlo sí, anche per la coscienza del non credente, ma nei limiti in cui glielo consentiranno le sue convinzioni culturali e i suoi valori morali solo fino ad un certo punto coincidenti con le convinzioni e i valori della fede. E, se per quanto riguarda il credente, nessuno potrà dirgli in modo sensato: “ma chi te la fa fare?”, questa domanda invece potrebbe risultare più plausibile se rivolta a dei non credenti dichiarati che ammettano candidamente, come fa il giornalista Scalfari, di non essere interessati alla ricerca né di Dio né della fede. Sempre ammettendo che persone come Scalfari siano capaci di perseguire il bene in totale disinteresse personale.
Se uno non crede in una giustizia divina per quale motivo dovrebbe concepire i rapporti interpersonali e lo stesso mondo sociale sulla base di una concezione non ipocritamente altruistica del bene personale e comunitario? Tutto questo ovviamente non implica che allora tra credenti e non credenti non sussista alcuna possibilità di dialogo e di collaborazione, anche perché è certamente esatta e condivisibile l’osservazione per cui il dialogo «va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza» (E. Bianchi, Quando credenti e non credenti cercano insieme la verità, in “Repubblica” del 16 settembre 2013). Ma parlare della coscienza dell’ateo, e dell’ateo che dichiara di non sentire alcun bisogno né di Dio né di una fede che avrebbe a suo avviso una funzione meramente consolatoria, come se fosse in tutto identica alla coscienza del credente, sembra francamente erroneo e fuorviante.
Nell’antico testamento la coscienza corrisponde al “cuore”, il centro vitale dei pensieri, degli affetti e della condotta complessiva dell’uomo, e se nel “cuore” non c’è la consapevolezza che la vita umana dipende da Dio e che il suo senso è interamente all’interno della relazione tra l’uomo e Dio stesso, quel “cuore” nella e dalla religiosità ebraica è ritenuto empio. Per gli ebrei l’uomo è indissolubilmente relazionato a Dio: può anche colpevolmente chiudersi alla sua volontà, ma riconosce l’esistenza oggettiva di questa relazione soggettiva con il divino, laddove invece per i greci, per la cultura greca, tale relazione esiste solo tra l’uomo e se stesso, per cui l’unica sede di giudizio circa l’assoluzione o la condanna della propria condotta di vita risiede non in Dio ma nella coscienza stessa.
Ma per gli ebrei come per i cristiani non è che l’ateo che si bei di essere tale o che comunque non si dia pensiero di Dio possa da quest’ultimo essere giudicato solo in base a ciò che ha fatto o non ha fatto in vita secondo la sua coscienza, perché una coscienza che non sia prima o poi capace non solo di percepire la presenza di Dio nella vita umana personale e nella vita del mondo ma addirittura di porsi una domanda di ricerca su Dio stesso e sulla fede nelle sue promesse di salvezza, è già, per gli ebrei come per i cristiani, una coscienza peccaminosa e destinata all’eterna dannazione. Certo, gli stessi ebrei risultano eretici rispetto ai cristiani per non aver mai voluto riconoscere che il messia, già venuto una volta sulla terra, è Gesù Cristo, ma quanto meno, rispetto agli atei giulivi come Scalfari, essi riconoscono una precisa dipendenza della vita e della storia umane dagli imperscrutabili disegni di Dio.
Su certe cose è bene essere chiari ed espliciti per evitare di inoculare nella coscienza comune, sia pure in buona fede, falsi convincimenti che avrebbero solo l’effetto di annacquare ulteriormente in credenti e non credenti la ricerca di Dio. Tuttavia, certo si può e si deve dialogare: non però con l’ateismo, con l’ebraismo, con l’islamismo, perché non c’è alcuna realistica possibilità di dialogo tra dottrine non solo diverse ma gelose e intransigenti custodi della propria identità, quanto con atei, ebrei, islamici, perché tra uomini, anche se profondamente diversi dal punto di vista culturale e religioso, il dialogo è sempre possibile e persino suscettibile di produrre talvolta frutti insperati.
Ma, riprendendo e ribadendo il concetto principale di questo ragionamento, che un essere umano, specie se dotato di sopraffina intelligenza, non si renda conto che la sua stessa intelligenza non può derivare semplicemente dal caso o da un pur complesso processo evolutivo ma deve necessariamente avere la sua origine in una realtà extramateriale e superiore a qualsivoglia altro tipo di realtà esistente nell’universo, è non solo sciocco ma decisamente empio e peccaminoso in senso biblico-evangelico. E questo va detto chiaramente senza indulgenze di sorta rispetto a preoccupazioni di natura psicologica o diplomatica.
I cristiani sanno, sulla base del vangelo e di tutto il nuovo testamento, che solo in Cristo c’è salvezza, che tutti hanno in qualche modo o per qualche via la possibilità di salvarsi in Cristo perché Cristo dà a tutti la possibilità di salvarsi anche se non tutti siano disposti ad ascoltare il suo annuncio di salvezza e sebbene Dio abbia sempre pienissima facoltà di salvare e di condannare chi vuole al di là dell’umana capacità o incapacità di intendere perfettamente i suoi insegnamenti e la sua volontà. I cristiani hanno il dovere di testimoniare anche pubblicamente quel che in buona fede si sono sforzati di capire dell’insegnamento di Gesù e di parlare non tanto di coscienza in senso generico e necessariamente ambiguo ma di “retta coscienza” che, in ultima analisi, non può essere tale se non sia illuminata dalla fede.
Un cattolico come Giovanni Bachelet puntava giustamente sulla “retta coscienza” e osservava che «la coscienza dell’uomo, per essere un valido criterio di bene, ha bisogno della luce di Dio. Senza questa luce anche la coscienza può gradatamente appannarsi» (Educare la coscienza, in rivista dell’AGESCI, maggio 1992). Ed è probabile che non sarà sufficiente, per ottenere il perdono di Dio, porre su Gesù e sul suo messaggio domande intellettualistiche di tipo accademico, come quelle di Eugenio Scalfari, essenzialmente finalizzate a dilatare a dismisura il proprio inconfessato e narcisistico orgoglio personale.