Cattolici: svegliamoci!

Scritto da Francesco di Maria.

 

Un economista cattolico, non accademico ma generalmente più chiaro e preciso di altri economisti cattolici dotati di titolo universitario e costantemente ospitati sulle colonne di alcuni importanti giornali nazionali, alcuni mesi or sono gettava brillantemente luce sulle dinamiche che sono alla base di una crisi epocale che non accenna ancora a finire.

Alla fine di luglio scorso, descriveva questa situazione: «il 9 luglio scorso la maggiore agenzia di rating mondiale, Standard & Poor’s (S&P), la stessa agenzia che nel 2008 poco tempo prima del fallimento Lehman and Brothers, aveva emesso un giudizio positivo sulla banca d'affari americana ("ci si poteva mettere la mano sul fuoco"), ha declassato il rating dell'Italia a BBB (la stessa valutazione del Perù), con outlook negativo (prospettive negativo, ossia ci sono il 30% di possibilità che il rating venga ulteriormente abbassato nel corso del 2013-2014)...La motivazione esplicita di questa penalizzazione secondo S&P è dovuto alla mancanza di attuazione delle riforme strutturali da parte dei governi che si sono succeduti…Si tratta di un giudizio molto grave che pone i titoli di stato italiani appena due categorie di rating sopra la valutazione di titoli spazzatura…Questo ha delle pesanti conseguenze sia di breve che medio lungo periodo (nel caso si dovesse arrivare in futuro a tale valutazione), sul costo del debito pubblico che l’Italia deve e dovrà pagare. Imporrà ulteriori tagli devastanti che incideranno sulle carne viva delle famiglie e delle imprese» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -prima parte- in “Zenit” del 28 luglio 2013).

D’altra parte, la valutazione negativa della tristemente nota agenzia americana di rating avrebbe ulteriormente scoraggiato il sistema bancario nel suo insieme a finanziare l’economia reale, al cui servizio la finanza dovrebbe di norma sempre porsi, contribuendo notevolmente ad alimentare la perversa spirale di recessione e povertà. La non attuazione delle riforme strutturali necessarie all’economia italiana, la sostanziale stagnazione del PIL, la difficoltà di raggiungere gli obiettivi di bilancio per il 2013 a causa di una recessione ancora in corso e della volontà del governo italiano di sospendere o eliminare una tassa importante come l’IMU e infine dell’aumento di un punto percentuale dell’IVA, la quale, abbassando probabilmente il consumo, non avrebbe potuto non compromettere l’auspicata ripresa, non avrebbero consentito di superare talune rigidità presenti nel mercato del lavoro e in quello dei prodotti, per cui non era sembrato difficile alla Standard & Poor’s prevedere un ulteriore allontanamento della soluzione della crisi.

Nel frattempo, però, l’agenzia americana insisteva sul fatto che la condizione necessaria di qualsivoglia processo di crescita, di sviluppo, di ripresa dell’occupazione e quant’altro, doveva rimanere pur sempre l’obbligo del governo italiano di tenere in ordine i conti pubblici con tutto quel che di vessatorio ciò sarebbe venuto ancora implicando per il popolo italiano e principalmente per le sue fasce sociali meno protette e meno abbienti. A questo punto, il nostro economista non poteva fare a meno di affermare: «le misure proposte da S&P per evitare ulteriori declassamenti, lasciano alquanto perplessi sia dal punto di vista della giustizia sociale, della solidarietà e della tenuta democratica, sia dal punto di vista tecnico. Quale giustizia sociale, quale solidarietà, quale democrazia può perseguire la finanza speculativa, rappresentato da poche persone (di cui S&P è uno dei massimi esponenti), che nessuno ha votato, quando emette le sue "valutazioni" interessate che incidono sulla carne viva e sui destini di miliardi di persone?» (ivi).

E non poteva non denunciare la cecità ideologica che stava in realtà alla base di una visione economica e sociale non solo pseudoscientifica perché costantemente priva di positivi riscontri empirici ma anche profondamente nichilistica e immorale perché completamente priva di interesse per l’umanità e la solidarietà, dove, se questa denuncia è vera, come è vera, né l’Europa né l’Italia potranno mai uscire da una crisi suscettibile invece di peggiorare in modo indefinito. A ben vedere, le riforme invocate da S&P non possono minimamente intendersi come da concepire nell’interesse dei lavoratori italiani e di un sano sviluppo della nostra compagine sociale ed istituzionale, ma esclusivamente nell’interesse di un capitale internazionale sempre più vorace che non avendo ormai molto da lucrare nelle tradizionali aree modiali del sottosviluppo ha deciso di doversi accanire sulle ultime riserve di ricchezza rimaste, ovvero sulle stesse società occidentali che fino a ieri potevano godere di un buon tenore di vita pur se anch’esse caratterizzate dalla presenza di non trascurabili sacche di povertà.

Questa è la verità pura e semplice e ha perfettamente ragione chi scrive incidentalmente, pur da veterocomunista, che «l’attuale recessione non è un episodio accidentale, ma una crisi strutturale causata dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive, una crisi accelerata dalla saturazione dei mercati internazionali» (L. Garofalo, Avanguardia di “ciarlatani e pifferai magici” o consociazione di rivoluzionari?, in Il Dialogo, 8 settembre 2013), il che significa che questa crisi «si spiega in virtù dell’enorme divario tra la crescente produttività del lavoro e la declinante capacità di consumo dei lavoratori. In altri termini, gli operai producono troppo, a tal punto che non si riesce a vendere quanto essi producono. E’ questa la radice delle contraddizioni del capitalismo, che è riconducibile alla sua tendenza intrinseca (e cioè innata) alla sovrapproduzione di merci. In questo quadro complessivo l’azione dei governi (qualsiasi governo) asseconda gli interessi del capitalismo di finanza» (ivi).

Se non si capisce, adottando politiche appropriate, che è proprio questa tendenza strutturale il reale motore della crisi in atto, come è significativamente dimostrato dalla persistenza negli ultimi decenni delle politiche di liberalizzazione indiscriminata poste in essere dai vari governi nonostante si accresca la consapevolezza che esse favoriscono grandi potentati economici, banche e società finanziarie, a netto svantaggio dei lavoratori di ogni ordine e grado, non sarà mai possibile ottenere significative inversioni di tendenza volte a tutelare il lavoro in tutti i suoi aspetti ed articolazioni contro la volontà ormai non solo incontrollata ma ostentatamente dispotica del grande capitale finanziario internazionale.

Come si fa a non capire che, oggi più che mai, termini come impresa, mercato, produttività, profitto, rigore finanziario e amministrativo, sono sempre meno termini asettici o neutrali perché definiscono al contrario affari e poteri concreti, persone in carne e ossa apparentemente anonime ma terribilmente reali? Come si fa a non capire che la prima mossa di una onesta e sensata strategia politica deve essere quella di non esibire più univocamente questi interessi come beni comuni o come strumenti irrinunciabili del bene comune? Fino a che punto, al di fuori di eventuali o reali riferimenti ideologici non più accettabili, anche un cattolico integro può dissentire da chi sostiene che «la contraddizione centrale è tuttora quella che contrappone l’impresa capitalista al mondo del lavoro sociale. I lavoratori devono prendere coscienza che il vero problema risiede nel costo del capitale, nell’inasprimento delle condizioni di sfruttamento e nell’aumento degli straordinari, nella crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita degli operai» (ivi)?

Sono sempre più numerosi, dopo un lungo periodo di letargo intellettuale, gli economisti che non esitano più ad indicare con chiarezza lo stretto nesso che intercorre tra le politiche europee di austerità e il crollo del PIL con una decrescita economica che non accenna a fermarsi. Cosa si aspetta dunque a zittire per sempre l’agenzia americana di S&P che da una parte ci punisce abbassandoci il rating perché il PIL non cresce secondo le previsioni (le previsioni poi di chi?) e dall’altra chiede nuove misure di austerità per raggiungere gli obiettivi di bilancio? Fino a quando ancora la classe politica italiana ed europea sarà disposta, per obbedire a queste assurde direttive, a tollerare che i propri cittadini siano trattati come "bestiame umano", come "scarti umani? Ma soprattutto: è possibile che non ci siano cattolici italiani capaci di impegnarsi politicamente, con tutti i loro limiti, per tentare in tutti i modi di restituire dignità morale e vera stabilità economica alla loro nazione?

E’ vero che il nostro attuale ministro dell’economia Saccomanni ha avuto parole molto dure sul declassamento dell’Italia sanzionato da S&P, affermando che «è aperto il dibattito nelle sedi ufficiali sul ruolo delle agenzie di rating nell’orientare le scelte e le aspettative dei mercati finanziari internazionali. Decisioni non adeguatamente sostenute da analisi condivise possono avere effetti pro-ciclici e destabilizzanti» (C. Tabarro, Europa, finanza o democrazia? -seconda parte- in “Zenit” 29 luglio 2013), ma poi egli dichiara di voler rispettare alla lettera gli impegni finanziari presi dall’Italia con l’Unione Europea e con la BCE, dimostrando cosí di non aver compreso come alla lunga proprio questi impegni siano obiettivamente insostenibili e contrari ad ogni reale e durevole possibilità di ripresa economica.

Tanto più questo è drammaticamente vero quanto più si rifletta sulla strafottenza con cui un’altra agenzia americana come Moody’s, proprio mentre viene scritto il presente articolo, dichiara che, benché l’attuale governo italiano sia sopravvissuto alla recente crisi politico-parlamentare provocata da Berlusconi, esso sia tuttavia cosí “fragile” da mettere in seria discussione l’attuazione delle riforme fiscali e strutturali gradite ai signori burocrati e tecnocrati di Bruxelles e necessarie alla ripresa economica del Paese che però non sarebbe affatto sicura. La previsione di Moody’s, quindi, non può essere altro che negativa ed è quella per cui dunque difficilmente l’Italia potrà centrare «l'obiettivo di portare il deficit di bilancio entro il limite del 3% del Pil nel 2013». Risponderà ancora una volta il ministro Saccomanni, e che cosa risponderà?

Sembra perfettamente inutile che persino un premio nobel per l’economia ed uomo espertissimo di finanza mondiale come Joseph Stiglitz si sia molto sbracciato per cercare di far capire ai signori che decidono del destino dei popoli vivendo isolati dalla realtà e resi ciechi e indifferenti dal proprio status di sicurezza e di privilegio, che «l’austerità è una condanna a morte per i più poveri» (Ridateci il sogno, in “L’Espresso” del 7 marzo 2013).

Allora, si diceva, possibile che non ci siano cattolici evangelici in grado di farsi carico non velleitariamente ma coerentemente della necessità di liberare l’Italia dalla tirannide finanziaria internazionale, dietro la quale non è affatto vero che ci siano solo altri risparmiatori i cui diritti devono pur essere garantiti in modo adeguato, essendo molto più vero che dietro e tra questi risparmiatori ipotetici o reali agiscono persone in carne ed ossa che sono emeriti  farabutti, delinquenti, criminali come narcotrafficanti e mafiosi di tutte le categorie, oppure individui che sono galantuomini d’aspetto ma che in realtà sono mascalzoni incalliti?

Che c’entrano le riforme con la mancanza di lavoro, di domanda, essendo stati ed essendo consumi e investimenti asfaltati drasticamente proprio dall’austerity di questi cervelloni dell’alta finanza, a cui in realtà interessa esclusivamente prelevare tutto il denaro che possono al maggior numero di persone possibile e che parlano di riforme solo per tentare di nascondere il totale vuoto etico ed economico dei loro strambalati e disonesti ragionamenti? In realtà, questi novelli padroni del mondo non vogliono né democrazia né uguaglianza ma vogliono solo ridisegnare profondamente il mondo a loro immagine e somiglianza ovvero alla luce di princípi iniqui, immorali e contrari ad ogni idea di umanità giusta e solidale.      

Per questo è ora che ci si renda conto che l’enorme debito pubblico, che le attuali politiche di austerità non potranno certo arrestare ma solo incrementare, è la principale causa strutturale del declino italiano e sorprende dolorosamente che l’economista cattolico sopra citato oggi sostenga che i nostri guai si devono spiegare principalmente col fatto che nel corso dei decenni gran parte della spesa sociale non sia stata destinata solo alla creazione di necessarie strutture e infrastrutture ma sia stata finalizzata principalmente a garantire “consenso elettorale”, per cui «per pareggiare l’aumento del debito pubblico è stata aumentata la pressione fiscale, senza riuscire a pareggiare le perdite» (C. Tabarro, Debito pubblico. Una storia triste, in “Zenit” dell’1 ottobre 2013).

Certo, per via di astrazioni, specialmente se esse siano totalmente indeterminate e non circoscrivibili a fatti empirici rigorosamente riscontrabili ed accertabili (come nel caso specifico) al di là di dati numerici che notoriamente possono essere usati in tanti possibili modi, si può rendere conto, si può giustificare qualunque cosa. Ma, in realtà, chi per esempio è nato nel 1949 da dignitosa ma non agiata famiglia impiegatizia e monostipendiata, laureandosi poi con sacrificio in una università italiana lontana dal suo luogo d’origine e avendo poi la fortuna di esercitare per circa 40 anni il lavoro di professore liceale, e pur non potendosi lamentare di come gli siano andate le cose a livello personale, può testimoniare di aver sempre vissuto sino ad oggi in una società di sprechi ma anche di iniquità, di poche opportunità di lavoro e di grandi delitti contro il lavoro e contro i cittadini, di diffuso o eccessivo benessere per pochi anche a prescindere da meriti e capacità professionali e di benessere assai contenuto se non decisamente insufficiente per molti e soprattutto per non poche persone certamente bisognose e meritevoli di un migliore destino di vita. Anche lo Stato Sociale, che l’economista cattolico Tabarro dice essere stato sostenuto con il debito pubblico, a questo testimone del 1949 non è mai apparso particolarmente florido e capace di rispondere adeguatamente alle necessità e alle priorità oggettive del popolo italiano.

Ora, poiché questa testimonianza è veritiera, è da ritenere semplicemente ridicolo che il baratro in cui stiamo cadendo possa essere stato determinato semplicemente dalla cattiva amministrazione politica o dallo sperpero della pubblica ricchezza, che peraltro nessuno nega, e non soprattutto da cause molto più distruttive per la nostra economia. In primis, come sempre Tabarro ricorda, l’infausta divisione intervenuta nel 1981 in materia di debito pubblico tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, la quale diventando cosí autonoma dalla politica «non era più obbligata all’acquisto illimitato del debito pubblico» (ivi). Rileva quindi Tabarro che, a quel punto, «senza nessun filtro della Banca d’Italia, nei quindici anni successivi, il debito esplose indebitando il nostro futuro e quello dei nostri figli» (ivi). Egli forse non si rende conto della portata di questa affermazione: perché se il filtro della nostra Banca nazionale era cosí decisivo per la nostra economia, a quale genio della stirpe italica è stato consentito, e per quale motivo, e per favorire chi, di farlo saltare a vantaggio della Banca Centrale Europea che notoriamente non può e non potrà, né vuole e vorrà con o senza il ricchissimo banchiere Mario Draghi, neppure lontanamente, garantire gli interessi nazionali italiani come erano garantiti dalla Banca d’Italia?

Inoltre, ormai è pacifico che, almeno per il grande pubblico e più segnatamente per i ceti sociali medio-bassi, il cambio della lira in euro non ha certo rappresentato un buon affare per la nostra vita economica e sociale, anche perché viene ormai riconosciuto quasi unanimemente che il valore della moneta europea non è uguale in tutti i Paesi dell’Unione ma differisce da Paese a Paese in dipendenza della maggiore o minore forza economico-finanziaria complessiva di determinati Paesi europei rispetto ad altri.

Per contro, la rinuncia alla nostra sovranità monetaria ha forse comportato nel frattempo dei vantaggi? Quali? Proprio nessuno, per quanto riguarda almeno la maggior parte della nostra popolazione: non solo sul piano economico, ma neppure sul piano morale giuridico e civile, giacché, nonostante gli ideologi dell’Europa unita si riempiano la bocca di ideali altisonanti di progresso, di benessere e di civiltà, tali solenni proclami sono sonoramente smentiti dai fatti nudi e crudi: quale benessere e quale civiltà possono essere realmente perseguiti da un centro tecnocratico di potere che parla solo di soldi, di denaro da reperire o prelevare a tutti i costi mostrandosi totalmente indifferente al destino di milioni e milioni di uomini e donne sempre più costretti a trascurare persino le loro più essenziali e vitali necessità? Quale giustizia e quale uguaglianza possono mai garantire quelle commissioni parlamentari europee che vorrebbero persino abolire la differenza naturale tra il genere maschile e quello femminile con dei provvedimenti e delle norme giuridiche ad hoc e che sono impegnate ad irrogare pesanti multe tutte le volte che, solo per fare qualche esempio, i nostri contadini, i nostri agricoltori o i nostri pescatori violano gli assurdi paletti da esse imposte alla produzione di latte, alla raccolta e alla commercializzazione della frutta o del pescato? Non sono danni enormi per la nostra economia, per il benessere del nostro popolo e per le stesse capacità nazionali di competizione economica e commerciale internazionale? Quali valori di umanità e solidarietà tra i popoli possono essere veicolati da un apparato politico sovranazionale di potere che non si preoccupa minimamente o si preoccupa molto poco del fatto che nel mediterraneo si verifichino quasi settimanalmente immani stragi di immigrati?

Peraltro, forse pochi sanno che l’Europa ideologica e politica, che conta molti suoi adepti anche nelle élites della vita politica italiana (a cominciare da Giorgio Napolitano, Mario Monti, Enrico Letta), nel frattempo sta lavorando alacremente al progetto di costituzione di una polizia e di un esercito europei che, ove fosse attuato, garantirebbe allo Stato sovranazionale e mondialista in fieri e vagheggiato da tutti coloro che frequentano assiduamente i clubs economico-finanziari più esclusivi e riservati del mondo il massimo di potere repressivo e di controllo militare sulle complessive attività politico-legislative e sulla stessa volontà democratica di ogni singolo Stato dell’Unione.

Cosa facciamo concretamente anche noi cattolici che diciamo di non poter vivere senza Cristo e senza il suo vangelo per contrastare tutta questa barbarie? Ecco perché alla fine risultano incomprensibili le indicazioni del nostro economista cattolico Tabarro, pur cosí limpido in altri scritti, che, nell’indicare le strade da percorrere per risanare i conti pubblici e ridare speranza alle famiglie e ai giovani italiani, si accoda a tanti altri economisti di scuola bocconiana o luissiana e affini che individuano tali strade risolutive nella riforma della pubblica amministrazione, nella riforma fiscale, nella lotta ad oltranza all’evasione fiscale, nella vendita di beni patrimoniali dello Stato per abbattere il debito pubblico, nelle liberalizzazioni e in una vera riforma del mercato del lavoro, con un contenimento strutturale anche se oculato della spesa corrente, con specifiche politiche fiscali per il meridione d’Italia.

Ora, non è che nel corso dei decenni i governanti italiani, sia pure tra limiti e resistenze di varia natura, non abbiano in qualche misura operato per lo svecchiamento e la modernizzazione della macchina statale italiana intesa in tutti i suoi comparti e articolazioni: la razionalizzazione della pubblica amministrazione, il fisco e la lotta all’evasione fiscale, privatizzazioni e innovazioni nel mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e politiche a favore del Meridione, sono sempre stati, almeno a partire dagli anni ’70, impegni programmatici ben presenti nelle diverse agende dei governi che si sono succeduti in Italia. Certo, si può eccepire che ogni volta si sia fatto sempre troppo poco o male. Ma non è che si possa pensare con assoluta certezza che le strade indicate da Tabarro e altri oggi sarebbero percorribili senza intoppi di sorta e secondo modalità operative e attuative assolutamente perfette. Anche oggi converrà procedere lungo determinate direttrici di riforma, a condizione però che non si smarrisca mai la realistica consapevolezza che gli stessi limiti incontrati dai precedenti governi potrebbero essere sperimentati, sia pure per motivi diversi e in presenza di contingenze storico-politico-economiche diverse, anche dai governi italiani del tempo presente, i quali seguono fedelmente quelli precedenti almeno su un punto: sulla direzione conservatrice di quasi tutti i loro disegni di riforma, quali che sia la loro apparente carica innovativa.

Si intende dire, in sostanza, che non esistono garanzie assolute circa il fatto che, nonostante tutti gli sforzi politici che si potrebbero compiere, queste strade potranno essere percorse in modo radicale, perché umanamente e quindi anche politicamente la perfezione non esiste, perché le possibili variabili storiche sono sempre tante; ma si intende dire principalmente che, anche se ipoteticamente tutto dovesse esser fatto in modo esemplare e tutto dovesse filare liscio, non è né vero né possibile che, come scrive ancora Tabarro, queste operazioni o manovre o riforme che dir si voglia sarebbero in grado di conferire all’Italia quella credibilità e stabilità politica che sono assolutamente necessarie per «aggredire quegli 80-90 miliardi di interessi passivi che i governi italiani, di qualunque colore politico, sono costretti a recuperare ogni anno sui mercati per finanziare il debito pubblico di oltre 2mila miliardi» (ivi).

Ecco: sostenere questo significa mistificare ancora una volta la realtà. Nell’ultimo lustro il popolo italiano, è bene insistere su questo punto, è stato sottoposto a tagli e a ristrettezze di ogni genere: tagli sulle pensioni e sull’età pensionabile, sulla sanità, sulla scuola e sulla ricerca tecnologica e scientifica, licenziamenti di massa in aziende e fabbriche di diversa entità finanziaria, aumento dei prezzi in diversi settori produttivi e commerciali e aumento vertiginoso delle tasse, impossibilità quasi totale per famiglie e imprese di ottenere prestiti e mutui dalle banche a condizioni tollerabili, disoccupazione galoppante. Bene, è forse migliorata la situazione o non sta ulteriormente peggiorando nonostante le ottimistiche e propagandistiche previsioni del governo Letta? Quella dell’Italia sembra una vera fatica di Sisifo: più grandi sono i sacrifici, più grande è la percezione collettiva di non riuscire a risalire la china del profondo fossato in cui già siamo caduti.

Francamente non si capisce come il cattolico Tabarro, che critica aspramente le politiche monetarie e fiscali dell’Unione Europea, la sua insensibilità umana e morale, possa poi giustificarne il principale postulato: che il debito sovrano, al pari di tutti i trattati su cui è stata costruita questa Europa, non sia soggetto, per nessun motivo e in alcun caso, a revisioni o a ridefinizioni di sorta. Che è come dire: gli uomini possono anche crepare, ma le oligarchie finanziarie che governano invisibilmente il mondo non potranno mai smettere di accumulare denaro. E’ invece proprio la lotta al principio mistificante di debito sovrano il principale compito della politica italiana. O se ne ridefiniscono termini e condizioni, o è molto meglio ritornare alla vecchia lira, con una manovra ben preparata per tempo su posizioni “di sinistra” e non “di destra” ovvero tale da non incidere troppo negativamente sui ceti economici e sociali più deboli, e alla nostra vecchia Banca d’Italia che ricomincerebbe finalmente a battere moneta. Non è affatto detto che questa prospettiva riservi a noi italiani maggiori sofferenze di quelle che stiamo già adesso sperimentando.    

Possono i cattolici italiani ritenere l’attuale stato di cose compatibile con la loro fede o non dovranno piuttosto sbrigarsi ad abbattere il nuovo Vitello d’Oro che un numero imprecisato di persone invasate ed abitate dallo spirito del male stanno ancora una volta fraudolentemente erigendo contro il genere umano e contro Dio?