La porta stretta
La porta della salvezza e del Regno di Dio è piccola e stretta, dice Gesù. Ci può passare solo chi è magro cioè chi non è gonfio e tronfio, chi è interessato a cose semplici essenziali e necessarie e dunque non troppo ingombranti per inutilità vacuità e superficialità, chi non mente e non è dilatato da supponenza e autosufficienza anche se ama circondarsi di un alone di composta religiosità; ci può passare solo chi è piccolo, umile, dunque chi non si preoccupa di essere influente o potente anche se svolge ruoli importanti nel mondo, chi non è superbo anche se è capace di trattare duramente i superbi a fin di bene, chi è povero perché non ama né ricchezza né notorietà né apparenze di qualunque genere, chi non indossa né maschere né truccature di sorta; ci può passare solo chi è solo, chi non è accompagnato da nessun altro e da nient’altro che la propria persona e l’effettiva consistenza della propria vita.
Da quella porta non può passare né chi non abbia mai voluto credere in Gesù Cristo, nella sua parola e nella sua opera salvifiche, nelle sue promesse di vita eterna, né chi gli abbia creduto solo per finta o per scena, per abitudine personale o per consuetudine sociale, per puro e semplice sentimentalismo o addirittura per esibizionismo pseudoreligioso. Per passare da quella porta non basta l’appartenenza, la presenza o l’apparenza. Il biglietto di entrata deve essere convalidato da una fede non tiepida o convenzionale ma sincera e ardente, che si sappia sempre insufficiente e che al tempo stesso sia desiderosa di essere più matura e granitica, e naturalmente dalle opere, perché se le opere sono di ingiustizia, di sostanziale disconoscimento del prossimo e di amore solo generico e ambiguo oppure solo strumentale e opportunistico o ancora puramente pietistico ed ipocrita per lui, il Signore non potrà riconoscerci neppure se avremo frequentato giorno e notte la sua Chiesa partecipando assiduamente alla realtà eucaristica dell’altare, neppure se saremo stati parti attive in importanti e pubbliche opere caritative, neppure se lo avremo servito semplicemente celebrandone ogni giorno i misteri sul piano liturgico.
Gesù non potrà riconoscere quel giorno chi abbia voluto riconoscere il suo volto e la sua offerta di amore solo nei fratelli e nelle sorelle compatibili con le proprie abitudini mentali, con i propri schemi intellettuali, con il proprio consueto modo di vivere e di sentire. Gesù ci riterrà responsabili anche del fatto che non abbiamo fatto abbastanza per accorgerci della presenza di donne o uomini “giusti” accanto a noi nel corso della nostra vita, di averne sminuito la funzione spirituale solo per orgoglio o per non volerci riconoscere più poveri e peccatori di quanto ritenessimo, di aver rifiutato con loro il soccorso stesso dello Spirito Santo. Allora, davanti a lui, dopo la fine della nostra vita e a tempo quindi scaduto, sarà inutile bussare, rivendicare: la porta resterà chiusa.
Quella porta è stretta come la via di chi avrà fatto di tutto per dedicarsi ad una continua ricerca interiore, ad una inesausta attenzione e tensione verso l’altro o il diverso da noi stessi, ad un’opera di sincero e coraggioso apprezzamento per un bene che fosse sempre al di là del bene che noi compiamo o pensiamo di compiere. Quella porta è stretta perché attraverso essa potrà passare non chi abbia semplicemente patito il dolore sulla terra, dal momento che non c’è essere umano che al dolore non sia soggetto, ma chi abbia voluto trasformarlo in atto consapevole d’amore verso Dio e verso gli uomini, in occasione o strumento di mutamento qualitativo della propria esistenza, in uno sforzo di “svuotamento” o di “abbassamento” non facile ma ostinatamente esercitato per amore di Cristo.
Quando, pur immersi nel dolore, saremo ancora capaci e anzi più capaci di amare e di soffrire per gli altri pur tra limiti e contraddizioni mai interamente superabili, potremo coltivare ragionevolmente la speranza di poter passare da quella porta; quando avremo sperimentato la solitudine del deserto, nella quale ci si trova privi di quegli anelli, di quelle collane o di quei gioielli materiali o psicologici e morali da cui generalmente ci si sente gratificati, forse potremo sperimentare pienamente anche l’accoglienza e la misericordia di Dio.
Quella porta è Gesù stesso che non riconoscerà quelli che sulla terra sembravano i primi, i più felici, i più riusciti o osannati, tutti coloro che erano ben inclini a percorrere vie molto larghe e ad evitare le strettoie dolorose della vita. Costoro non potranno passare quel giorno attraverso di Lui perché troppo amanti di cose larghe, comode e abbondanti per poter passare adesso per una porta stretta. Viceversa, quelli che sembravano gli ultimi, gli sfortunati, gli emarginati, i misconosciuti, non solo avranno le giuste caratteristiche per passare da quella porta ma, dopo averla attraversata, si sentiranno consolati e guariti, saranno ricolmati di beni celestiali, saranno innalzati alla presenza di Dio per ritrovarsi anche in compagnia degli angeli e dei santi.
Forse bisogna ulteriormente precisare. E’ certo che quanti non si preoccupano della propria vita spirituale, e quindi di pregare, di leggere sia pure non sistematicamente la Scrittura, di frequentare la Messa e di confessarsi periodicamente, tendono ad accumulare peccati su peccati che trattati con superficialità e quasi con orgoglioso distacco finiscono per radicarsi talmente nella coscienza da non renderla libera e pronta ad una nuova vita nel giorno del giudizio. Ma non meno a rischio, per cosí dire, sono tutti coloro che vivono in modo esclusivamente o prevalentemente rituale la fede: perché tanti atti quotidiani di sottomissione, come l’abbassare la testa durante la celebrazione eucaristica, il mettersi in ginocchio in segno di adorazione o di umiltà, il battersi il petto in segno di ammissione dei propri peccati, abbiano valore, occorre che essi siano realmente il segno del proprio atteggiamento interiore in quel che si pensa e si fa e non siano invece come dissociati dal vero o più profondo “vissuto” personale.
Se noi viviamo ipocritamente secondo certi modelli standard di tipo mondano e secondo logiche di apparenza, di possesso, di successo o di importanza sociale, con la sola aggiunta, rispetto ai non credenti o ai non praticanti, di un po’ di fede e di tanta esteriore o esibita religiosità, non potremo evitare di sentirci dire un giorno dal Signore: “Io non vi conosco”. Non sarà mai inopportuno ribadire che, se tutta la nostra religiosità si riduce all’aspetto rituale e liturgico del credo cristiano e cattolico e se non si è capaci di fare il sincero proposito di migliorare la propria vita ogni volta che si esce dalla chiesa o si conclude una celebrazione eucaristica con le parole “la messa è finita, andate in pace”, le nostre lodi cantate al Signore valgono zero e la nostra fede non è altro che credenza mitica o un sentire riconducibile ad una tradizione puramente umana.
Il Signore non dice se saranno pochi o molti quelli che andranno in paradiso, ma sono significative queste sue parole: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Lc 13, 24). Molti non ci riusciranno: molti non significa la maggioranza degli esseri umani ma sta a denotare comunque una ingente massa di creature che, come dice per l’appunto Gesù, non riusciranno a varcare la porta della salvezza.
D’altra parte, a voler essere più precisi, altrove il Signore è ancora più rigoroso, perché afferma: “Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7, 14). “Pochi”, rispetto ad una enorme massa di persone, possono essere anche “molti” in senso relativo, ma è pur sempre drammaticamente significativo il significato del monito di Gesù: non si creda che, alla fine, la misericordia di Dio sia cosí dolciastra o melliflua da avere nettamente la meglio sulla sua giustizia.
Non bisogna certo disperare, ma non si potranno coltivare realistiche speranze di vita eterna se non si sarà disposti ad assimilare profondamente questo pensiero: che «il cammino del credente è un esercizio continuo di umiltà che, come insegna Ignazio di Loyola, porta a pensare la vita come se dipendesse totalmente da noi nell’impegno delle opere, sapendo, però, che tutto dipende da Dio. Gli ultimi che diventano i primi sono coloro che, come Maria, hanno permesso a Dio di colmare il vuoto della loro esistenza con il dono della sua grazia, che libera dall’autosufficienza e dona un cuore rinnovato, capace di amare sine modo (senza misura)» (Pietro Maria Fragnelli, vescovo eletto di Trapani, La porta stretta e gli ultimi, in “Zenit” del 30 ottobre 2013), dove tutto è molto più semplice da capire letteralmente che non da recepire spiritualmente.