Don Peppino Diana. La Chiesa contro crimine e omertà.
Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe, nei pressi di Aversa, da una famiglia di proprietari terrieri. A 10 anni è già un seminarista cattolico, a 24 anni è ordinato sacerdote, dopo aver fatto studi teologici regolari ed essersi laureato in filosofia presso l’università Federico II di Napoli. A 31 anni diventa parroco nella parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe e subito dopo è anche segretario del vescovo della diocesi di Aversa. Don Peppino è persona colta, preparata, spiritualmente ispirata e tenacemente radicata nei valori evangelici. Ma è soprattutto un uomo che aiuta concretamente i poveri e tutti coloro che cominciano ad essere vittime del feroce dominio della camorra casalese prevalentemente legata al boss Francesco Schiavone detto Sandokan che con i suoi uomini non si limita a controllare i traffici illeciti ma viene sempre più infiltrandosi negli enti locali e gestendo a proprio piacimento notevoli porzioni di economia legale, sino a diventare “camorra imprenditrice”.
Proprio per questo fermo e inesausto impegno a favore degli oppressi e dei deboli, per questa sua pacifica ma risoluta opposizione alle pratiche vessatorie e omicide esercitate dal clan dei casalesi nella provincia di Caserta, egli sarebbe stato barbaramente ucciso a colpi di pistola il giorno stesso del suo onomastico (19 marzo del 1994) nella sacrestia della sua chiesa poco prima che si recasse all’altare per celebrare la messa mattutina delle 7,30.
Cosa aveva fatto don Peppino di cosí terribile per suscitare l’incontenibile collera omicida dei criminali di Casal di Principe e per provocare un gesto tanto spietato ed efferato? Una cosa semplicissima, anche se ripetuta con certosina continuità: aveva fatto in modo esemplare il suo lavoro di prete, aveva testimoniato il Cristo amico dei poveri di spirito e nemico dei violenti sino ad immolare la sua stessa vita, aveva incarnato una Chiesa coraggiosamente capace di eseguire senza tentennamenti di sorta il dovere evangelico di realizzare la giustizia nell’amore e l’amore nella giustizia. Don Peppino aveva sempre predicato l’amore per tutti, ma proprio per questo aveva sempre concretamente preso posizione contro coloro che non solo seminavano menzogna, odio e terrore nella loro comunità ma che giungevano persino al punto di professarsi cristiani pur nel deliberato esercizio di attività criminali e sanguinarie.
Don Peppino esprimeva con la sua stessa esistenza un concetto che dovrebbe essere ben chiaro ad ogni sacerdote cattolico e che invece ancor oggi tende a sfuggire completamente allo spirito di parte forse non trascurabile del clero e del laicato cristiano: che non sussiste alcuna possibile compatibilità tra la fede cristiana e una condotta di vita basata su azioni reiteratamente e premeditatamente violente e scellerate, né tra misericordia divina e richiesta umana insincera o ipocrita di perdono. E si impegnava cristianamente, come tutti i sacerdoti sarebbero tenuti a fare, non operando quella molto diffusa riduzione della fede a fede privata e quindi a fede che resti confinata nell’intimità della propria coscienza, ma conferendo alla fede una valenza pubblica e precise implicazioni di carattere comunitario e sociale.
La fede non ha valore se si esprime privatamente e in modo esclusivo nell’attività di preghiera, liturgica, sacramentale o devozionale ma se la sua dimensione privata o intima viene resa coerentemente manifesta e quindi pubblica ovunque siano posti in pericolo da pratiche tanto arbitrarie quanto delittuose la vita, la dignità e la libertà di tutti e di ciascuno. Il cristiano non può essere semplicemente uno che lotta in astratto o a parole contro il male ma uno che prende concretamente e talvolta anche rischiosamente posizione contro il male in nome del bene, dell’amore e della giustizia. In questo può essere riassunto il pensiero cristiano di don Diana.
Egli aveva messo sotto accusa la presunta fede cristiana dei boss anche per evitare che si determinassero confusione ed equivoci intorno a ciò che costituisce realmente una retta coscienza cristiana. Come per tutte le mafie anche per quella camorristica campana il messaggio evangelico non doveva essere considerato in antitesi alle sue pratiche illegali, immorali e criminali, perché, se era vero che il camorrista era un peccatore, era altrettanto vero che egli, forse più di tanti buoni cristiani di chiesa, era molto più generoso nel fare offerte per le feste religiose, per i bisogni della parrocchia, per la “sistemazione” di tante persone senza lavoro e senza alcun tipo di protezione sociale.
Anche l’assassinio, per la camorra, non era in fondo un peccato particolarmente grave, ma un peccato commesso per cosí dire “per necessità” e che come tale sarebbe stato certamente compreso e perdonato da Cristo. Si pensi che in Campania esiste persino un’icona della Madonna venerata (si fa per dire) esclusivamente dai camorristi e da questi chiamata infatti “la Madonna della camorra”.
Don Peppino ci ha lasciato un prezioso testamento spirituale: quello contenuto nella sua ormai celebre lettera “Per amore del mio popolo non tacerò”, diffusa nel natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e del territorio di Aversa e sottoscritta da tutti i parroci della foranía casalese. Questa lettera è un vero e proprio manifesto dell’impegno umano, sacerdotale ed ecclesiale contro ogni genere di sistema criminale. In essa veniva espressa la preoccupazione della Chiesa casalese per quel clima di paura, di terrore e di morte che le organizzazioni criminali locali avevano creato per dettare la loro legge contro le leggi dello Stato e imporre il loro violento potere rispetto a qualsiasi altro potere, fosse esso civile, morale o religioso.
Ecco perché, scriveva don Peppino, «come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”». Bisognava assolutamente opporsi alla volontà della criminalità camorrista di imporsi in Campania come incontrastato sistema di potere con le armi in pugno e con l’affermazione di regole assolutamente inaccettabili come estorsioni nelle campagne, tangenti altissime sulle attività edili, traffici illeciti per l’acquisto e lo smercio di droghe soprattutto tra i giovani che ne restavano talmente dipendenti da diventare soggetti non solo improduttivi ma socialmente tanto più emarginati quanto più essi si riducevano a prestarsi altresí come manovalanza criminale.
Per non dire della pedagogia del tutto negativa che essi, i camorristi, venivano trasmettendo agli adolescenti, ovvero la convinzione che in fondo la violenza e la stessa violenza organizzata fossero elementi del tutto normali e ineliminabili della vita e della società con cui bisognava imparare a convivere.
Naturalmente, cosí proseguiva l’analisi di don Peppino Diana, erano del tutto evidenti le responsabilità politiche, perché solo il disfacimento e la complicità diretta o indiretta delle istituzioni civili e politiche avevano potuto consentire il consolidarsi omnipervasivo del dominio camorristico che aveva finito per riempire «un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi», per cui «la Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L'inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc., non può che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l'inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini» (ivi).
Ma don Peppino Diana tra le cause di questa malsana e drammatica situazione, non mancava di includere «le carenze anche della nostra azione pastorale», per cui riteneva assolutamente necessario che «l'Azione di tutta la Chiesa» si facesse «più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili» (ivi), dove si veniva implicitamente affermando due precise esigenze: la prima era quella per cui la ministerialità presbiterale ha un effettivo senso spirituale ed ecclesiale solo se è realmente funzionale ad istanze umane e sociali di liberazione, di promozione della dignità e libertà di tutte le persone, di servizio nei confronti di tutti i bisognosi e in particolare dei più poveri e dei più sfruttati; la seconda era quella per cui solo una Chiesa credibile nei fatti, nei suoi concreti comportamenti e quindi nelle sue scelte e nelle sue azioni, avrebbe potuto essere recepita veramente come degna testimone di Cristo Crocifisso e Salvatore.
L’impegno della Chiesa e di tutti i fedeli che vi si riconoscono non solo per educazione o abitudine ma anche e soprattutto per convinzione doveva essere dunque un «impegno profetico di denuncia» che «non deve e non può venire meno» (ivi). E’ Dio stesso che «ci chiama ad essere profeti» e il profeta «fa da sentinella» vedendo l’ingiustizia, denunciandola e richiamando «il progetto originario di Dio», come recita Ezechiele (3, 16-18); il profeta inoltre non solo invita gli altri a vivere la solidarietà nella sofferenza ma lui stesso la vive in prima persona (Genesi 8, 18-23); il profeta infine indica «come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)».
Ma, per sottolineare che questo tipo di profezia non ha la sua giustificazione ultima nel quadro di un pur significativo impegno etico-civile ma in quello di una religiosità sana e santa cui ogni credente è chiamato direttamente da Dio-Cristo, il giovanissimo sacerdote campano precisava significativamente: «Coscienti che “il nostro aiuto é nel nome del Signore”, come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare”, riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza» (ivi). La preghiera come fonte della nostra speranza. Come dire: il prete e la Chiesa in cui egli opera non devono opporsi impavidamente alla camorra e ad ogni altro tipo di mafia per servire qualche umana Commissione Antimafia pure rispettabile nella sua funzione istituzionale ma unicamente per corrispondere alla volontà di Dio e per servire Cristo Signore.
Ecco perché, era questa la degna conclusione di questo grande sacerdote cattolico e vero araldo e testimone di una Chiesa che per testimoniare la sua fede in Cristo non teme di denunciare pubblicamente le peggiori iniquità non solo e non tanto del mondo in genere ma di quel mondo più circoscritto e concreto che con la sua bieca arroganza e il suo agire violento passa ogni giorno sotto lo sguardo esterrefatto di determinate parrocchie, di determinate diocesi, di determinati fedeli, «le nostre Chiese “hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa chiediamo che non rinunci al suo ruolo ‘profetico’ affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lamentazioni 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere…La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,…del nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare…sono come assenzio e veleno”»(ivi). Una conclusione sí, ma soprattutto l’augurio di un nuovo “inizio” per la santa Chiesa di Cristo.
Il 19 marzo del 2013 il sacrificio di don Peppino è stato ricordato nella sua chiesa di San Nicola dall’arcivescovo di Catanzaro-Squillace mons. Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi. Don Pino Puglisi, ha ricordato il prelato, fu ucciso dalla mafia, don Peppino Diana dalla camorra: il primo nel giorno del suo compleanno, il secondo nel giorno del suo onomastico: «Le mafie», ha amaramente osservato, «scelgono i giorni, calcolano tutto…Entrambi furono uomini di Chiesa non politici» – ha significativamente sottolineato Bertolone – «che hanno portato la loro testimonianza fino all’estremo sacrificio di sé. Cosa è il martirio? È la più alta forma di santità, che rende simile al Maestro. Don Puglisi aveva come scorta la sua fede, umile e forte. Ed è quello che ha fatto anche don Peppino Diana».
L’arcivescovo, che ha già portato alla beatificazione un martire come don Puglisi, cosí ha proseguito: «C’è anche un altro parallelo, quelle calunnie che dopo la morte colpirono entrambi. Le organizzazioni criminali, mafia o camorra, cercano sempre di depistare. E se don Pino venne ucciso perché predicava il Vangelo, annuncio di fede, giustizia, amore e pace, non solo a parole ma con le opere concrete, don Peppe come uomo di Chiesa denunciava come camorra e malaffare fossero sempre legate, e invitava a parlare senza paura, a pronunciare la parola camorra…». Due parroci, cosí simili, che «non vanno messi in una bacheca perché sono segno di una Chiesa militante (Antonio Maria Mira, Il sacrificio di don Diana è il riscatto di una terra, in “Avvenire” del 20 marzo 2013).
E’ vero: sono segno di una Chiesa militante nella fedeltà a Cristo, perché essi non si sono limitati ad essere dei “preti contro”, dei preti che agirono solo in relazione a categorie sociologiche importanti ma pur sempre unilaterali e a valori umanitari o a nobili ideali civili semplicemente proclamati, ma agirono con la semplicità e l’umiltà dei veri sacerdoti di Cristo che operano con parole e fatti in conformità al vangelo e per amore di Cristo al fine di convertire a lui i cuori e di perseguire il bene comune. Essi donarono letteralmente se stessi perché sapevano che solo gli esempi personali possono far sí che il seme del vangelo cresca e le coscienze profetiche maturino e si moltiplichino.
“Esempi personali” sacerdotali come quelli di don Pino e don Peppino sono necessari al progredire di una coscienza cristiana che, generalmente parlando, è ancora troppo prudente, troppo indifferente e chiusa in un intimismo spiritualistico tutto privato, e che fa dunque fatica a consegnarsi totalmente, ovvero anima e corpo, al Signore. Non è anche per questo motivo che papa Francesco, solo qualche giorno fa, ha voluto ribadire che le mafie e i mafiosi di ogni genere «offendono gravemente Dio, nuocciono ai fratelli e danneggiano il creato» (12 dicembre 2013)?
Per usare ancora una volta le parole di mons. Bertolone, sono solo questi gli esempi e i “sacrifici” che, mentre spezzano «per sempre il legame, sia pur solo apparente, tra la mafia ed il cristianesimo, nato dalla leggenda dei boss con la Bibbia sul comò o con la cappella privata nel bunker», concorrono anche non solo e non tanto, come spesso si dice, all’affermazione della legalità, anch’essa spesso carente o ingiusta, ma soprattutto al disvelamento «dell’ateismo pratico e della pseudoreligiosità dei mafiosi» e di tutti coloro che, cristiani pur battezzati ma rinserrati in un fideismo troppo accomodante verso i poteri iniqui del mondo, se ne fanno complici per via della loro sostanziale indifferenza pratica al male e a forme reali sebbene occulte di violenza criminale (Intervista a mons. Vincenzo Bertolone, Don Puglisi presto beato e “martire di mafia”, in “Adista”, 2012, n. 27).