Giuseppe Dossetti senza eredi

Scritto da Francesco di Maria.

 

Adesso si è trovato anche il modo di ipotizzare che due cattolici dichiarati come Matteo Renzi ed Enrico Letta, ognuno naturalmente con la sua particolare sensibilità, possano essere in qualche modo eredi del pensiero politico di Giuseppe Dossetti. Infatti essi, per rivitalizzare la spenta e spaesata politica italiana, pensa qualcuno, potrebbero sforzarsi di rilanciare «una inattesa centralità della cultura politica dossettiana» (G. Marengo, La sinistra italiana oggi e le radici dossettiane, in Zenit del 16 dicembre 2013). 

E, sebbene i due leaders del PD non si siano mai esplicitamente richiamati a Dossetti, i fautori cattolici di questa tesi ritengono che essi potrebbero fare cosa veramente utile all’Italia se, in un momento cosí drammatico e per certi aspetti simile alla situazione in cui si era venuto a trovare il nostro Paese nel secondo dopoguerra, tentassero di riappropriarsi, sia pure in una versione aggiornata, di alcuni elementi peculiari del pensiero politico di Giuseppe Dossetti: il riconoscimento di un marcato primato alla politica rispetto all’economia e a qualsiasi altro settore della nostra vita nazionale; il radicamento di tale primato «in una forte identità cristiana ed ecclesiale» com’era quella evocata da Paolo VI quando definiva la politica come una delle più alte forme della carità; la difesa ad oltranza dei princípi fondativi della Carta Costituzionale; il partito concepito non tanto come organo di mediazione tra le sue componenti interne e nei confronti di altre forze politiche costituzionali e parlamentari quanto come gruppo politico profondamente riformatore e riformatore in direzione degli eterni valori comunitari indicati dal vangelo; la potenziale funzione egemonica che lo stesso partito cattolico avrebbe dovuto esercitare ad alti livelli di progettualità economico-sociale nel quadro della dialettica intercorrente tra le diverse forze politico-culturali italiane.

Peraltro, in particolare sulla forma-partito, Dossetti, pur collaborando lealmente con De Gasperi per più di un lustro, avrebbe espresso una concezione diversa da quella del politico trentino. La DC, infatti, per il primo non doveva essere, come pensava il secondo, una specie di contenitore di istanze ed interessi molteplici ma anche virtualmente eterogenei o conflittuali, perché questo l’avrebbe condannata a sottostare a troppe mediazioni interne che alla lunga ne avrebbero quanto meno depotenziato l’originaria carica profondamente riformatrice, e allo stesso tempo non doveva puntare su una politica di compromesso con gli altri gruppi parlamentari dell’arco costituzionale solo per dar luogo a coalizioni governative stabili e durature che però ne avrebbero frenato o impedito lo spirito e lo slancio evangelicamente innovativi.    

La visione politica dossettiana del partito come dello Stato non coincideva con una difesa dello status quo o di posizioni conservatrici (come forse in parte si può dire per De Gasperi), ma con una strategia democratica d’attacco volta a porre, nel nome e nel segno della fede in Cristo, vere condizioni di emancipazione non solo economica e sociale ma anche morale e spirituale, non coincidenti con bruschi e repentini passaggi “rivoluzionari”, in un Paese povero e disgregato di cui certo andava ricostruito e potenziato il tessuto sociale e le strutture economiche ma di cui andava ancor più rafforzato lo spirito di mutua solidarietà per evitare che lo stesso sviluppo economico favorisse interessi privati di tipo particolaristico e non un bene comune fondato sulla giustizia sociale e su un diritto equamente ridistributivo.

Come ha ben ricordato il 9 febbraio 2013 sul suo blog (Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti) Pierluigi Castagnetti, che avrebbe conosciuto meglio Dossetti attraverso il personale rapporto di amicizia instaurato con suo fratello Ermanno Dossetti, non si deve dimenticare che il giurista e politico cattolico avrebbe molto contribuito a definire la struttura personalistica della Carta Costituzionale negli articoli 2 (sui diritti inviolabili dell’uomo) e 3 (sulla pari dignità sociale e sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge) e che sarebbe stato relatore degli articoli 7 (relativo ai rapporti tra Stato e Chiesa di rispettiva indipendenza e sovranità) e 11 (relativo al ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali). Inoltre, forse ancor oggi non tutti sanno che il politico democristiano avrebbe dato, d’intesa con il comunista Palmiro Togliatti, un grandissimo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul delicatissimo tema del lavoro (che già nel 1° articolo figura come vera e propria struttura portante della Costituzione).

Per Dossetti il lavoro non aveva solo un significato politico e sociale (che poteva riassumersi nel riferimento ai diritti soggettivi e agli stessi soggetti che l’avrebbero esercitato ovvero ai lavoratori) , come per Togliatti, ma un ancor più irriducibile significato religioso, nel senso che il lavoro in sé per lui, indipendentemente da specifici destinatari storici, era un valore e un valore dunque non ideologizzabile, nel senso che attraverso il lavoro l’uomo è chiamato a completare la creazione di Dio e a realizzare se stesso cioè a sviluppare e dare forma compiuta all’umanità che porta in se stesso.

Quindi il lavoro veniva pensato non solo come tramite di diritti soggettivi, di rivendicazioni sociali e politiche, ma come mezzo irrinunciabile per diventare persona, per acquisire dignità personale, per estrinsecare la propria libertà-responsabilità di cooperare al perseguimento del bene comune, e implicante conseguentemente, come recita l’art. 36 formulato congiuntamente da Dossetti e Togliatti,  il salario come suo frutto e anche come condizione del fatto che esso realizzasse precise finalità sociali, tra cui Dossetti includeva significativamente (per sottolineare che tutte le forme di lavoro avessero pari dignità) anche quelle proprie di tutte le attività contemplative come lo studio in genere, la creazione poetica o artistica, l’osservazione del cosmo e dei processi naturali, sino alla stessa esperienza monastica, benché poi egli non pretendesse che questa sua specifica esigenza fosse specificata nel testo.

Ecco perché e in che senso, esattamente, l’Italia doveva essere una repubblica democratica fondata sul lavoro: l’Italia per essere di tutti e per tutti, sia pure nelle forme e nei limiti esercitati dalla stessa Costituzione, doveva essere fondata costitutivamente sul lavoro, che in tal modo, e indipendentemente da specifiche congiunture economico-finanziarie, non era solo un diritto costituzionalmente garantito ma il diritto che doveva garantire la natura e la funzione democratica della stessa Carta costituzionale, con la conseguenza che il lavoro, sia come valore in sé sia come concreta opportunità di esplicazione della propria dignità personale, dovesse essere sempre e comunque tutelato dall’ordinamento repubblicano oltre che dalla e nella stessa comunità nazionale.

Certo, la centralità della persona, l’uguaglianza, la libertà, l’autodeterminazione delle comunità locali che è alla base del regionalismo e del federalismo, erano anch’essi princípi ispiratori della Costituzione ma la loro affermazione formale poteva tramutarsi in concreta e materiale attualità democratica solo alla luce del lavoro, per mezzo del lavoro e in conseguenza di un esercizio aprioristicamente garantito del lavoro. Senza lavoro non poteva esserci né repubblica, né democrazia, né produzione di ricchezza, né sviluppo o crescita che dir si voglia. Compito imprescindibile e prioritario della politica nazionale, nella sua triplice articolazione di attività governativa, attività parlamentare e attività partitica o associativa, avrebbe dovuto essere, al di sopra di ogni altro interesse o necessità di Stato, quello di tutelare sempre e comunque il lavoro, difendendolo sia dalle cicliche crisi economiche, sia da eventuali turbolenze legate alla dinamica dei rapporti internazionali tra gli Stati e a quella di possibili e specifiche controversie commerciali.

Lungo queste direttrici valoriali e politico-programmatiche veniva profilandosi il grande riformismo cristiano di Dossetti, un riformismo aperto peraltro anche all’apporto di tutte quelle forze politiche che avrebbero manifestato la volontà di concorrere non tanto alla formazione di governi stabili e quanto più possibili unitari quanto alla formazione di governi capaci di adottare decisioni serie e responsabili ai fini di una vita economica nazionale regolamentata da inderogabili princípi di giustizia sociale e da criteri non arbitrari di distribuzione o ridistribuzione della ricchezza prodotta.

Ma la DC, per Dossetti, prima e più che a possibili alleanze governative di cui De Gasperi era fautore non solo per rendere più coesa ed efficace l’attività di governo ma anche per essere personalmente meno condizionato dal proprio partito e dalla complicata costellazione di interessi che vi gravitava intorno, doveva pensare a qualificare la sua azione politica con proposte legislative e misure economiche realmente compatibili con i suoi valori spirituali e religiosi. Ora, appare del tutto evidente che né Enrico Letta, propenso più ad assoggettarsi alla volontà dei mercati finanziari e dei grandi istituti bancari internazionali che non alla volontà di Dio, né lo stesso Renzi, impegnato a fare del problema generazionale piuttosto che di quello relativo ad un allargamento sociale dello Stato il problema centrale di una “nuova” politica nazionale, potranno mai ereditare, né direttamente né indirettamente, un patrimonio politico altamente ispirato come quello di Dossetti.

Chi assume i processi economici non come materia che la politica deve plasmare e su cui la politica deve incidere in funzione dei legittimi interessi popolari ma come un prius immodificabile di cui la politica deve solo seguire l’andamento e a cui essa può semplicemente adeguare le sue decisioni sia pure con metodologie più o meno efficaci e più o meno vantaggiose, non può poi assegnare alcun primato alla politica, costretta ad essere invece una funzione ancillare dell’economia, né tanto meno per via del suo spregiudicato pragmatismo modernizzatore sarà portato a radicare la sua azione politica in valori evangelici e cristiani o si sentirà particolarmente interessato a difendere oltranzisticamente gli stessi princípi e valori fondativi della Carta ove dovessero apparire d’intralcio alla suprema logica del profitto a tutti i costi e di uno sviluppo nazionale affidato a potenze economiche straniere e quindi ormai privo di spirito patriottico, cosí come e di conseguenza non potrà guardare al partito che come ad un semplice organo di mediazione tra le diverse anime in esso presenti e rispetto ad altre posizioni parlamentari e governative piuttosto che come ad un soggetto politico autonomo e capace di interpretare i bisogni oggettivi del popolo, facendosene carico attivamente con strategie e comportamenti politici altamente e cristianamente riformistici e non con transazioni o patteggiamenti di tipo meramente demagogico ed opportunistico.

Sulla scena politica attuale, pertanto, possibili eredi di Dossetti non se ne vedono, fermo restando che, il giorno in cui una forza politica di ispirazione cristiana dovesse venire realmente assumendo un profilo dossettiano, verrebbe effettivamente introducendosi nella vita politica italiana una fortissima istanza dialettica in grado di neutralizzare da una parte la carica meramente ribellistica di tanta cosiddetta “antipolitica” comprensibilmente presente nel nostro Paese e di sottrarre dall’altra la politica stessa alle sia pur qualificate competenze accademiche e manageriali dei cosiddetti “tecnici” oppure alla gestione di “governi tecnici” anche se “politici” e stoltamente convinti che la politica possa essere usata come una tecnica “neutrale” e non già come una tecnica che produce o non produce risultati economicamente e socialmente rilevanti a seconda degli obiettivi rispetto ai quali viene resa funzionale.

Non c’è tuttavia bisogno di spiegare come e perché non ci si possa più augurare che Dossetti, come qualcuno parrebbe invece auspicare con toni quasi trionfalistici, diventi nuovamente «il principale punto di riferimento di Romano Prodi e di tutti i leader del centrosinistra» (P. Mieli, La rivincita postuma delle idee di Dossetti, in “Corriere della Sera” dell’8 dicembre 2013). La sua preziosa eredità, considerando la pochezza spirituale dei soggetti evocati, verrebbe ad essere non solo impoverita ma letteralmente dissipata, per il semplice fatto che, rispetto ai Prodi e ai vari leaders più o meno occasionali del centrosinistra, Dossetti, dotato di una ben diversa struttura intellettuale e morale, non fu un “moderato”, né fece calcoli elettoralistici né cercò mai il consenso popolare su programmi politici solo illusoriamente avanzati ma sostanzialmente subordinati ad oscure e ambigue direttive sovranazionali.

In questo caso penso si possa condividere il giudizio dato da Rosy Bindi: «il segreto di questa persona cosí straordinaria sta nel legare la dimensione spirituale (la radicalità della sua fede) e la capacità di leggere ed intervenire nella storia con la forza del cambiamento che la politica deve avere. Lasciò la politica non solo per il disaccordo con De Gasperi ma per la consapevolezza di vedere la crisi morale dell’occidente molto prima di quanto la vedessimo noi e perché intuí che la politica non era in grado di tornare all'autenticità della fede e dei valori per risolvere le difficoltà» (Intervento alla “Festa democratica del PD, Reggio Emilia 25 agosto- 9 settembre 2012” sul tema A 100 anni dalla nascita di Giuseppe Dossetti. Il ricordo di Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Alberto Melloni, Sergio Cofferati). Un profeta della politica, un profeta tout court : questo fu principalmente Giuseppe Dossetti. Questo è ciò che manca ancora all’odierno scenario politico italiano e in particolare a tutti quei cattolici che si sentono decisamente orfani della sua eredità. Almeno per ora.