Giorgio La Pira ovvero il vangelo che si fa politica

Scritto da Francesco di Maria.

 

1.  L’articolo 1 della Costituzione italiana, cui grandemente contribuí Giorgio La Pira, recita testualmente: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, il che significa, senza tanti giri di parole, che l’Italia sarebbe stata una repubblica ed una democrazia sin tanto che fosse venuta edificandosi e sviluppandosi sulle forze del lavoro, dell’occupazione lavorativa che costituisce la reale concretizzazione di ogni attività lavorativa, e quindi della produzione e della stessa distribuzione della ricchezza nazionale, la quale ultima beninteso avrebbe dovuto essere equamente ripartita innanzitutto tra i lavoratori-produttori dei diversi settori dell’organizzazione economica nazionale e poi in funzione di specifiche istanze assistenziali di cui uno Stato Sociale che si rispetti non avrebbe potuto non farsi carico.

L’Italia, quali che fossero state le sue particolari congiunture economico-finanziarie, le sue difficoltà politiche, le sue relazioni internazionali, sarebbe rimasto o diventato uno Stato repubblicano e democratico solo a condizione che il complesso delle sue attività istituzionali, da quella relativa alla politica interna a quella concernente la politica estera, da quella politico-legislativa a quella economica e amministrativa,  da quella giuridica a quella della ricerca scientifica e culturale, da quella preposta al funzionamento delle infrastrutture e del servizio sanitario a quella avente per oggetto la previdenza sociale, avesse continuato nel tempo ad avere il suo fulcro o il suo punto archimedeo nel lavoro correttamente prestato e regolarmente retribuito con salari adeguati a necessità personali e familiari di vitale importanza e al costo stesso della vita.

Sarebbe difficile trovare chi oggi non riconosca immediatamente che, almeno da dieci anni a questa parte, tutti gli indicatori economici concordino nell’indicare una progressiva polverizzazione del nostro mondo del lavoro, con migliaia e migliaia di licenziati e cassintegrati, con una disoccupazione soprattutto giovanile galoppante che non accenna ad arrestarsi, con una produttività sempre più bassa e sempre meno “competitiva”, con una ricchezza nazionale sempre meno utilizzata a favore delle nostre necessità interne e sempre più convogliata o dirottata verso le banche, i mercati finanziari, le strutture burocratiche e decisionali europee: il tutto sulla base di trattati economici internazionali e di un “debito pubblico” a quanto pare capaci di esigere e ottenere la totale sottomissione della sovranità nazionale italiana (come di altre sovranità nazionali europee) alle direttive provenienti da più alti e sempre più inaccessibili centri internazionali di potere.

Oggi dunque per il nostro Paese il problema centrale non è il lavoro, non è la lotta alla disoccupazione, ma sono il debito e i modi fiscalmente e finanziariamente più rapidi e più efficaci – si legga pure “riforme strutturali”, aumento esponenziale della tassazione diretta e indiretta, austerità –per poterlo saldare o almeno ridurre in misura significativa. Non si lavora più per sé, per la propria famiglia, per la propria nazione, ma per onorare l’impegno di pagare il debito accumulatosi, in tanti decenni di malgoverno, di dissipazione del denaro pubblico, di interessi contratti per poterlo ogni volta rinnovare, nei confronti di potenze finanziarie straniere, di multinazionali, di fondi monetari e società azionarie planetari di varia natura e consistenza, che altro non stanno rivelandosi se non organizzazioni a spiccata vocazione usuraia e sotto aspetti non secondari anche criminale!

Le conseguenze inevitabili, che sono ormai chiaramente sotto gli occhi di tutti, si chiamano recessione e depressione economica, fallimento e chiusura di molte piccole e medie imprese, calo della produttività e della competitività con i prodotti esteri, riduzione vertiginosa dei consumi, crescita della disoccupazione giovanile, vendita e svendita tendenziali dei beni pubblici dello Stato, vistoso e patologico accentuarsi degli interessi privati da un lato e della diseguaglianza sociale dall’altro, progressivo ed esasperante restringimento e riduzione del dibattito politico pubblico a questa o a quella leadership di partito il più delle volte sintonizzata molto più con le istanze dell’alta finanza internazionale che non con i complessivi e reali bisogni del popolo italiano.

In questo momento lo Stato italiano è fondato sul non lavoro, sulla speculazione finanziaria, su trattati economici e commerciali fortemente penalizzanti la nostra economia, sulla grande evasione fiscale e su consistenti forme di parassitismo immobiliare e bancario, su ingentissime porzioni di mercato sottratte illegalmente all’economia nazionale da parte delle organizzazioni criminali. In questo momento, lo Stato repubblicano e democratico italiano si trova ad esser privo del suo stesso “fondamento” costituzionale, della sua stessa ragion d’essere etica, giuridica e politica e della sua principale finalità: la salvaguardia e la tutela della libertà e della dignità del cittadino e della persona umana.

La res publica, da cosa di tutti ha finito per essere piuttosto la cosa di nessuno, perché ogni potere economico e politico oltre che parlamentare non è più rappresentativo, se non forse in modo del tutto nominale, degli interessi generali del popolo ma di poche corporazioni finanziarie completamente sganciate da ogni vincolo comunitario e nazionale; cosí come la democrazia sembra trasformarsi a grandi passi nel suo simulacro e modificarsi sostanzialmente, tra riforme elettorali mai fatte e una mai attuata moralizzazione della vita dei partiti e della vita politica tout court, in pura e vuota finzione di una realtà politica che riserva sempre meno spazio al potere partecipativo, ancor prima che decisionale, non solo delle masse ma anche di quelle minoranze pensanti che non siano funzionali, ben al di là di ogni steccato ideologico e con precisa cognizione di causa, al mantenimento del “sistema”.

 Perciò, non sembri eccessivo il giudizio, si ha ormai virtualmente a che fare con una configurazione istituzionale e statuale sempre più prossima ad assumere una forma dittatoriale, dove le leve del comando non riflettano più la legittima volontà popolare ma piuttosto volontà altre ed antitetiche a quella popolare e non risultino più finalizzate al reale e concreto perseguimento del bene comune ma piuttosto al perseguimento di un nuovo ordine europeo e mondiale sempre più scopertamente fondato su inconfessabili progetti di potere autoritario e di ricchezza élitaria.

2. Stando cosí le cose e alla luce della sconfortante constatazione che l’attuale classe dirigente nazionale, che non si esaurisce solo nella classe politica ma comprende tutte le principali articolazioni del potere statuale tra cui anche quella culturale e massmediale, è sostanzialmente incapace, sotto il profilo intellettuale e morale, di dare adeguata rappresentanza alle istanze, agli interessi e alle aspirazioni del suo popolo, mi viene spontaneo di pensare alla figura di grandi personalità politiche e culturali italiane del secolo scorso. In particolare, per quanto riguarda il mio punto di vista di cattolico con lo sguardo radicato non in alcune parti ma in tutto il vangelo di Cristo, ripenso con struggente nostalgia ad una figura, certo non più replicabile storicamente e tuttavia felicemente attuale ed inattuale ad un tempo sotto l’aspetto politico, come quella di Giorgio La Pira.

A La Pira furono rivolte da molti suoi compagni di partito accuse pesanti: di statalismo, assistenzialismo, filocomunismo, radicalismo religioso, comunitarismo velleitario. Nello specifico economico, poi, c’è chi, ancora recentemente, gli ha contestato la sua avversione preconcetta al liberalcapitalismo che sarebbe l’equivalente dell’odierno liberismo economico, e la sua pretesa di poter rimediare alle disfunzioni e alle abnormità del capitalismo con strumenti presi in prestito non già dalla dottrina sociale della Chiesa ma dalla teoria e dalla pratica del marxismo-comunismo, sebbene quest’ultimo fosse talvolta oggetto delle sue critiche, che tuttavia non lo facevano desistere dal cercare un dialogo costruttivo e intese programmatiche con gli stessi comunisti italiani guidati a quell’epoca da Palmiro Togliatti.

A La Pira, che pure si professava keynesiano quanto all’orientamento economico, sarebbe rimasta preclusa la possibilità di capire esattamente la natura e i meccanismi dei processi economici e in particolare la vera origine dei processi inflattivi, a causa della sua pregiudiziale mistico-religiosa che, facendo capolino in ogni ambito della realtà e nelle stesse questioni concernenti i fatti economici reali, non poteva non condizionarne il giudizio e le scelte che finivano alla fine per risultare inadeguati o inefficaci. Per cui, ancor oggi, benché a volte coronata da successo, molto controversa o discutibile dovrebbe necessariamente ritenersi la sua azione amministrativa complessivamente considerata. 

E’ stato scritto altresí che La Pira avrebbe fatto un uso smodato degli elementi caratteristici del New Deal rooseveltiano che era di chiara derivazione o ispirazione keynesiana, ovvero dello spreco istituzionalizzato della spesa pubblica e dell’inflazione programmata come strumento di governo (P. L. Tossani, Giorgio La Pira. Una riflessione critica, in “Quaderni del Covile”, n. 11 del 2010), dove bisogna ricordare che in quegli anni negli States la parola keynesismo designava i fautori dell’intervento statale e veniva usata quasi come un sinonimo di socialismo. Infatti, si è sostenuto, «l’assistenzialismo finalizzato al consumo, l’occupazione drogata, i massicci investimenti in opere pubbliche anche inutili (Keynes era colui che propugnava l’utilità economica di fare buche in terra per poi riempirle nuovamente), producono il logico e inevitabile effetto di far aumentare esponenzialmente il debito pubblico e di erodere, nel tempo, il potere d’acquisto del denaro. L’altra faccia della medaglia, causata dall’inflazione sistematica innescata a sua volta dalla politica della redistribuzione del reddito, è rappresentata dall’aumento inesorabile del costo della vita. Questo meccanismo ha sensibilmente impoverito le famiglie» (ivi).

In altri termini, uno dei responsabili della pesante situazione debitoria in cui oggi noi tutti ci troviamo ad essere coinvolti sarebbe stato il “sindaco santo” di Firenze, il quale però, a dispetto di tutte queste critiche, può vantare un curriculum politico-amministrativo oggettivamente tempestato di preziosi e brillanti risultati: aprí cantieri di lavoro per migliaia di disoccupati; varò un programma di edilizia pubblica (le “case minime”) per i non abbienti, ordinando nello stesso tempo per fronteggiare l’emergenza, e a causa dell’assoluta indisponibilità dei proprietari immobiliari a dare in fitto al Comune temporaneamente un certo numero di appartamenti vuoti, la requisizione di tutti gli alloggi liberi in base ad una vecchia legge del 1865 che dava questo potere ai sindaci in casi per l’appunto di emergenza o per motivi di ordine pubblico; aumentò nei bilanci i capitoli per l’assistenza, esigendo dal governo i fondi preventivati, non si esimette dal chiedere aiuti finanziari a tutti gli enti pubblici che potevano concederli; salvò dal fallimento, grazie al provvidenziale intervento del suo amico Enrico Mattei, una fabbrica come la Pignone (telai tessili) che oggi sotto la denominazione di Nuova Pignone è leader  mondiale nell’estrazione e nella lavorazione di petrolio e gas, salvando altresí i posti di lavoro degli operai che vi lavoravano e che alla sua morte ne avrebbero portato la bara sulle spalle in segno di profonda ammirazione e riconoscenza; ha creato la città-satellite dell’Isolotto (il quartiere operaio in cui avrebbe operato don Mazzi); ha ricostruito diversi ponti fiorentini distrutti durante la guerra; ha restaurato il Teatro comunale; ha ripavimentato il centro storico di Firenze; ha costruito 15 scuole, ha realizzato la Centrale del latte.

Tutto questo come sindaco. Come politico nazionale fu, con Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, Lelio Basso e Piero Calamandrei, tra i principali e più attivi padri costituenti della nostra carta repubblicana preoccupandosi di dare in essa particolare rilievo al lavoro come fondamento e giustificazione ultima degli ordinamenti statuali democratici previsti dalla stessa Costituzione. Specialmente in qualità di sottosegretario al ministero del lavoro avrebbe presto acquisito la consapevolezza che la disoccupazione costituiva “la patologia del sistema nazionale ed internazionale” e che la lotta contro essa avrebbe dovuto essere il primo punto di ogni seria agenda politico-governativa.

Non so se tutto questo sia sufficiente, anche a prescindere dal suo continuo impegno per la pace nel mondo e contro il disarmo atomico, a conferire a La Pira la statura di un grande uomo politico, nonostante i suoi presunti o possibili limiti in economia, il suo tanto criticato “statalismo”, il rapporto se non privilegiato di certo sempre aperto con le forze della sinistra e certe sue audaci operazioni amministrative e finanziarie in difesa del lavoro e dei lavoratori, l’ipotetico contributo che avrebbe dato al formarsi di quel “debito sovrano” di cui le generazioni successive si sarebbero dovute far carico e che rappresenta forse il problema più drammatico dell’odierna scena politica nazionale ed internazionale.

Mi chiedo anche, però, se e come la pletora di liberisti, di europeisti, di mondialisti, e poi di raffinati esperti dell’economia e del diritto ad essa organici, che gli sarebbero succeduti prendendo nelle proprie mani il destino politico ed economico dell’Italia siano riusciti, con l’apporto spesso socialmente determinante delle più autorevoli grancasse mediatiche, ad essere più concreti ed incisivi di quel “sognatore”, di quel “mistico”, di quel “monaco della politica”, di quel “folle apostolo” della verità evangelica e della dignità della persona. Dagli anni ’70 in poi, la politica italiana sarebbe stata rappresentata dai teorici della modernizzazione statale, delle riforme strutturali ed istituzionali, dell’austerità (già ai tempi di Berlinguer!), della revisione della spesa pubblica e dell’alleggerimento del Welfare, della riorganizzazione del mondo del lavoro e della produzione: ma, ci si deve pur chiedere, il lavoro di costoro, spesso più arzigogolato che seriamente ragionato, ha forse comportato benefici tangibili per lavoratori, giovani disoccupati, famiglie, pensionati, o non ha prodotto piuttosto una devastante disertificazione dell’economia reale con l’espulsione programmata dal mondo del lavoro e della pubblica amministrazione di migliaia e migliaia di persone e con un progressivo disimpegno finanziario statale soprattutto rispetto a quelle piccole e medie imprese considerate da tutti come la spina dorsale della produttività nazionale?

La sapiente ed europeistica tecnocrazia degli ultimi decenni (i cui messi italiani sono stati i vari Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Mario Monti, Enrico Letta, ma in generale la stragrande maggioranza dei partiti di destra e di sinistra) è forse stata capace di migliorare le condizioni economiche del nostro Paese, di arginare il “debito pubblico” originatosi da avventate politiche assistenzialistiche come per esempio sarebbe stata secondo alcuni quella di La Pira, di rimettere a posto i conti dello Stato, di creare le premesse per un forte rilancio del mondo produttivo italiano ivi compreso quello relativo alla ricerca tecnologica e scientifica, di escogitare qualcosa di intelligente e di utile per favorire l’occupazione delle giovani generazioni, o con le sue ricette e i suoi prelievi fiscali sempre più in linea con la politica monetaristica europea e socialmente sempre più vessatori e iniqui non ha piuttosto prodotto una gigantesca macchina espropriatrice di ricchezza soprattutto ai danni dei cittadini comuni, dei salariati, dei pubblici dipendenti, dei pensionati, lasciando al popolo solo illusorie e menzognere prospettive di risanamento economico e di sviluppo?

Tra tasse dirette, tasse indirette, prelievi fiscali ordinari o forzati, recupero di ingenti somme di denaro per mezzo della lotta alla criminalità organizzata e ad evasori di ogni ordine e grado, sono affluiti nelle casse dello Stato fiumi torrentizi e sempre più gonfi di denaro pubblico. Ma quello che, di decennio in decennio, si è venuto a sapere è semplicemente che questo denaro, sempre più ingente, risulterebbe costantemente insufficiente a varare seri programmi politico-governativi contro disoccupazione e cassintegrazione, contro l’eccesso di spesa pubblica e il continuo aumento dei prezzi, contro l’impoverimento generalizzato della popolazione e delle migliori strutture produttive nazionali. Perché, com’è possibile? Mistero!

La verità non è forse quella per cui la destinazione dei forzieri del nostro Stato repubblicano, pur sempre stracolmi di denaro, non è l’Italia e il bene comune degli italiani ma l’Europa burocratica e bancaria e il bene particolare di pochi soggetti privati? Ma, se questa è la realtà, non è vero che i sapientoni della politica e della scienza economica e finanziaria contemporanee, tutti indistintamente convinti del verbo salvifico liberista anche se apparentemente divisi sui modi di coniugarlo con le specifiche necessità nazionali, hanno mentito e continuano a mentire, dando luogo ad una colossale mistificazione storica che ha imbavagliato per troppo tempo i popoli e gli individui privandoli spesso persino della loro dignità?

Sotto l’incalzare rivoluzionario dei fatti e della verità da quest’ultimi generata, essi ora cominciano ad eccepire, ad esprimere riserve, a chiedere pubblicamente forme meno dogmatiche e più critiche di “europeismo”, ma ormai è inevitabile porsi una domanda assai amara: l’utopia, l’irresponsabilità, il radicalismo, lo spreco, l’incompetenza, erano davvero dalla parte di Giorgio La Pira, o non stanno molto meglio a caratterizzare il pensiero e l’operato di tutta una generazione di intellettuali, di politici, di economisti, di giornalisti, indubbiamente infatuati di liberismo anche per vantaggi o guadagni economici ed istituzionali che ne sono conseguiti per le loro vite e le loro carriere personali e per gli ingentissimi concreti contributi finanziari che la potente organizzazione sovranazionale liberista o liberalcapitalista ha fatto affluire sui conti correnti dei loro laboratori di ricerca politica, dei loro roboanti think tank, ovvero “serbatoi di pensiero” in senso letterale, aventi per oggetto le politiche pubbliche, le strategie tecnologiche economiche e finanziarie, le politiche industriali o commerciali e le consulenze militari?

3. Avercene oggi di politici e di politici cattolici come La Pira! Ci sentiremmo molto più protetti, molto più garantiti, molto più al sicuro, perché avremmo dalla nostra parte un nemico giurato di tutti i “poteri forti”, economici e non economici, ivi compresi, e qui parlo per noi cattolici, quelli delle lobbies laiciste più antitetiche ai valori cristiani e cattolici sul terreno delle questioni bioetiche e dei cosiddetti diritti civili (tanto per capirci aborto, divorzio, unioni civili, eutanasia). Ma, per ciò che riguarda il discorso politico ed economico, la vera forza di La Pira consisteva nella definizione che dava di se stesso in una lettera del 27 novembre 1953 a Fanfani: «Caro Amintore, io non sono un “sindaco”, come non sono un “deputato” o un “sottosegretario”: non ho mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro. La mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo…mi sarete testimoni. La mia vocazione, la sola, è tutta qui! Sotto questa luce va considerata la mia “strana” attività politica».

Parole che si possono e si devono intendere cosí: per un seguace di Cristo la politica è sempre al servizio della carità e quindi della giustizia sociale, non è pura e semplice contabilità ma soccorso verso i più poveri e i più bisognosi, è strumento di comunione materiale e spirituale sia nei momenti di normalità sia nei momenti di crisi, è spirito di condivisione, di fraternità, di assistenza a favore di chi non ha ancora abbastanza per vivere civilmente e dignitosamente; per un seguace non ipocrita di Cristo, la politica non può mai significare totale asservimento dell’economia di un intero popolo a calcoli e ad interessi finanziari astronomici di banche o di organismi economici e burocratici completamente estranei alla vita e ai bisogni del popolo stesso, allo stesso modo di come non può significare in alcun caso e per nessun motivo totale asservimento della libertà e della dignità nazionali alle ambizioni di dominio di uno Stato straniero, anche se o specialmente se questo Stato, per quanto corposamente e anzi voracemente esigente, non fosse ancora segnato sulle carte geopolitiche.

Per un cristiano che assolva una funzione politica, la prima e più importante fonte di riferimento e di azione non sono le competenze tecnico-amministrative e tecnico-contabili, non sono le conoscenze specialistiche di ordine economico-finanziario, né le prescrizioni metodologiche o le previsioni scientifiche di questa o quella scuola economica di pensiero, né le pressioni variabili e molto umorali dei mercati finanziari, ma sono la capacità e la volontà morale di servire il suo popolo, la sua gente, alla luce degli insegnamenti e delle beatitudini evangeliche, della fede nella non equivocabile e non strumentalizzabile Parola di Dio. Un politico cristiano coerente ed onesto potrà sempre accettare idee-guida come rigore finanziario, revisione di spesa, riforma strutturale, imposizione fiscale, riforma del mercato del lavoro, modernizzazione complessiva dello Stato e dello stesso Stato Sociale, a condizione però che le venga declinando in modo intellegibile e lineare sempre e soltanto nell’interesse e per il bene effettivo della sua comunità nazionale.

In particolare, quali che siano le speciali congiunture economico-finanziarie, gli atti pubblici di un politico cristiano e cattolico muovono necessariamente dalle condizioni di vita e dalle reali esigenze dei più svantaggiati, come poveri, esclusi, disoccupati, cassintegrati, pensionati, malati, e non di quanti vivono in condizioni di privilegio o di almeno relativo vantaggio economico-finanziario, come certi ricchi sfondati o certi agiatissimi proprietari immobiliari, come certi spregiudicati e rapaci operatori e speculatori finanziari o come certi altolocati burocrati di Stato, come tanti facoltosi uomini d’affari o come professionisti pubblici e privati oltremodo benestanti, e pone le maggiori risorse dello Stato al servizio di coloro che non riescono a soddisfare persino le loro primarie necessità di vita. Insomma, il politico radicato nel Vangelo non può che operare innanzitutto e soprattutto in “difesa della povera gente” (L'attesa della povera gente, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina 1951) anche a costo di esporre lo Stato ad una maggiore spesa sociale che potrebbe avere poi delle controindicazioni o ricadute negative.

La Pira pensava che se la mancanza di spesa determina la disoccupazione, l’aumento della spesa deve necessariamente riassorbirla. Ci si può e ci si deve certo interrogare sui modi, sui tempi e sui precisi obiettivi dell’aumento statale della spesa sociale, per fronteggiare adeguatamente possibili o inevitabili processi inflattivi e ridurre al massimo la possibilità di un dissesto finanziario irreversibile, ma la dinamica governativa non può essere che questa, non può andare che in questa direzione, liberandosi saggiamente dal terrore o dall’ossessione del pareggio di bilancio o, pensando all’oggi, del debito pubblico. Egli, nell’individuare nella produzione per opera di tutti, nel carattere non privatistico ma comunitario del prodotto e nella distribuzione proporzionata a tutti, i «tre pilastri dell'edificio della comunità umana», indicava in realtà la via migliore per prevenire, per contenere o per superare qualsivoglia tipo di congiuntura economica negativa, giacché sapeva che bisognava fare di tutto perché lo Stato, realmente e non formalmente fondato sulla sovranità popolare, continuasse ad essere l’unico o il prevalente detentore delle leve dell’economia, della finanza e della stessa politica, giacché è sempre chi ha saldamente il potere in mano che detta poi l’agenda delle priorità, degli investimenti, delle finalità da perseguire.

Sempre a Fanfani scrisse La Pira il 28 febbraio 1955: è necessario «difendere il pane e la casa del popolo italiano… Il pane e quindi il lavoro è sacro: la casa è sacra; non si tocca impunemente né l’uno né l’altra. Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà per sempre assicurata al nostro paese e la vita della chiesa rifiorirà nelle anime, nelle case, nelle città, nelle campagne e in tutto il paese». Intuiva altresí, in virtù della sua fede, quello che, solo alcuni decenni dopo, si sarebbe potuto o saputo capire chiaramente, nonostante il dissenso “liberista” che dal punto di vista “istituzionale” risulta essere ancora maggioritario, e cioè che «l’intero sistema economico e finanziario mondiale non può essere lasciato a se stesso, ma deve essere finalizzato in vista di scopi proporzionati ai bisogni essenziali dell'uomo» (L’attesa della povera gente, cit,).

Tuttavia, proprio questa concezione lapiriana di un’economia statalista, interventista e assistenzialista, sarebbe stata presa duramente di mira non solo dai liberisti di destra, ma anche da quelli democristiani di centro, come si evince chiaramente dalla critica di chi, collocandosi tra quest’ultimi, ha scritto recentemente: tale concezione «condanna il popolo a restare povero e subordinato per sempre, in quanto dipendente da una politica assistenzialista. È quindi una prospettiva del tutto inadeguata rispetto alla soluzione dei problemi ormai storici che siamo chiamati oggi ad affrontare e risolvere con urgenza non più derogabile» (P. L. Tossani, Giorgio La Pira. Una riflessione critica, op. cit.).

Ora, “la prospettiva” lapiriana sarà pure “inadeguata”, ma sono ancora una volta i fatti a dimostrare che, d’altra parte, le diagnosi e le terapie di segno liberista adottate in quest’ultimo decennio in Italia come in Europa e nel mondo non solo non hanno funzionato ma hanno prodotto danni immani che il tanto deprecato assistenzialismo statalista non avrebbe mai prodotto nella stessa misura se, a partire dagli anni ’80, i governi non avessero inaugurato il nuovo corso liberista, cominciando ad adottare politiche fiscali sempre più oppressive e avventurandosi in una lunga e non ancora conclusa fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro, dei cui disastrosi risultati tutti, mi pare, possono e devono oggi prendere obiettivamente atto.

Come ha osservato acutamente Domenico Moro: «A partire dal 1981 la Banca d’Italia ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella lontana decisione contribuí a produrre non solo l’enorme debito pubblico ma anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della UE e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca» (D. Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, in “Keynesblog”, 31 agosto 2012). Non so se questo alleggerisca le responsabilità di mal governo e di cattiva politica imputate a Giorgio La Pira, ma è fuor di dubbio che appesantisca notevolmente le responsabilità politiche di tutti coloro che, da un certo momento storico in poi e ivi compresi la stragrande maggioranza dei comunisti o ex comunisti italiani, hanno ritenuto di potersi svecchiare ideologicamente abbracciando quasi in toto il credo liberista (che pur sempre un’ideologia è) che avrebbe dovuto consentire di modernizzare felicemente lo Stato, l’economia, la società, e che invece ci ha condotto sull’orlo di un precipizio, cadendo nel quale sarebbe probabilmente molto difficile risalirne la china.

La verità è che non esistono metodi, previsioni, terapie assolutamente certi ed infallibili della scienza economica, come troppe volte e molto colpevolmente si è preteso e si pretende, e che anzi le teorie economiche possono rivestire una qualche utilità solo se, come il vecchio e mai anacronistico Marx insegnava, opportunamente accompagnate da una consapevole critica dell’economia politica. Il problema non si può impostare in termini di scelta alternativa tra statalismo e liberismo, tra assistenzialismo e libero mercato, tra spesa sociale programmata e austerità, e cosí via, giacché, al contrario, la politica economica può essere utile e vitale solo se sia capace di oscillare abilmente tra questi due termini utilizzando saggiamente ora l’uno ora l’altro a seconda delle priorità oggettive emergenti e delle specifiche contingenze storiche in cui si opera.

L’unico punto fermo di una politica economico-governativa che non voglia esporre il proprio popolo a rischi di sicuro e irreversibile impoverimento e al declino stesso della sua sovranità è che essa sia sottesa sempre e comunque dalla capacità e dalla volontà di contestare l’egemonia del capitale (quali che siano le forme e le dimensioni storiche che esso venga assumendo) sul lavoro e di puntare ad un rapporto quanto più possibile armonico ed equilibrato tra l’uno e l’altro in termini di profitto buono ma non illimitato per ciò che riguarda i datori di lavoro o imprenditori (pubblici o privati) e di adeguatezza salariale e di dignità materiale e morale per quel che si riferisce ai lavoratori.

Non è detto che si possa e debba essere per forza a favore dello statalismo, delle politiche di previdenza sociale o assistenziali che dir si voglia, oppure contro di essi, senza alcuna possibilità di mediazione, perché in realtà il problema è costituito dall’uso che si fa dello statalismo o delle politiche assistenziali, come anche talvolta di qualche utile spunto “liberista”, fermo restando che non può esserci buona politica là dove il denaro pubblico venga furtivamente o subdolamente usato per scopi privati o in funzione di determinate oligarchie di potere. Ed è alla luce di questa considerazione che il buon senso dovrebbe indurre non solo a difendere la memoria di Giorgio La Pira politico ma anche e soprattutto a perseverare nel cammino politico, ispirato e fecondo perché genuinamente evangelico, da lui intrapreso.

4. Un cammino “scomodo” quello lapiriano, certo; come era “scomodo” La Pira che era, secondo il cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, «una copia del vangelo vivente». Per La Pira, il cristiano in politica come nella vita non poteva essere “neutrale”; era obbligato a fare delle scelte nette e precise: sempre a favore dei poveri, dei disoccupati, dei senza tetto, degli esclusi, anche a costo di toccare gli interessi dei ricchi o dei benestanti. Il politico cattolico, al pari dell’uomo cattolico, doveva trovare nella radicalità evangelica l’unico criterio del suo agire politico anche a rischio di rimetterci di persona, procurandosi molti nemici e andando a finire in tribunale o in carcere. La Pira, in una lettera del 1955 inviata a “Il Giornale del Mattino”, scriveva significativamente: «Un sindaco che per paura dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri, sfrattati, licenziati, disoccupati e cosí via è come un pastore che per paura del lupo abbandona il suo gregge». Quanta inconsapevole ma profetica allusione ai politici italiani, cattolici e non, del tempo presente!

C’è una pagina lapiriana particolarmente ispirata e toccante che consente davvero di comprendere come non sia possibile capire il politico La Pira a prescindere dalla sua fede religiosa e dal Vangelo di Cristo: «Quando Cristo mi giudicherà», scrive, «io so di certo che Egli mi farà questa domanda: Come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale? Né potrò addurre, a scusa della mia inazione o della mia inefficace azione, le ragioni "scientifiche" del sistema economico.

Abbiamo una missione trasformante da compiere: dobbiamo mutare - quanto è possibile - le strutture di questo mondo per renderle al massimo adeguate alla vocazione di Dio. Siamo dei laici: padri di famiglia, insegnanti, operai, impiegati, industriali, artisti, commercianti, militari, uomini politici, agricoltori e cosí via; il nostro stato di vita ci fa non solo spettatori, ma necessariamente attori dei più vasti drammi umani…Credevamo che chiusi nella fortezza interiore della preghiera, noi potevamo sottrarci ai problemi sconvolgitori del mondo; e invece nossignore... L'elemosina non è tutto: è appena l'introduzione al nostro dovere di uomini e di cristiani; le opere anche organizzate della carità non sono ancora tutto; il pieno adempimento del nostro dovere avviene solo quando noi avremo collaborato, direttamente o indirettamente, a dare alla società una struttura giuridica, economica e politica adeguata al comandamento principale della carità. (...) Problemi umani, problemi cristiani; niente esonero per nessuno. Se la nostra vocazione fosse totalmente contemplativa, faremmo cosí: andremmo in un eremo, in una trappa, in una certosa... Ma siamo dei laici: cioè delle creature inserite nel corpo sociale, poste in immediato contatto con le strutture della città umana; il nostro stato di vita ci fa non solo spettatori, ma necessariamente attori, dei più vasti drammi umani. Come possiamo sottrarci ai problemi che hanno immediata relazione con la nostra opera?» (G. La Pira, Le città sono vive,  Brescia, Editrice La Scuola 1957). Questo egli scriveva proprio mentre la classe politica, anche democristiana, a Firenze come in tutta la penisola, difendeva interessi personali o si spartiva poltrone stabilendo indecorosi patti o compromessi di potere. 

Ha scritto Dom Helder Camara: «Nessuno ha il diritto di ascoltare La Pira ed accontentarsi di applaudirlo. L’unico omaggio che gli si può rendere consiste nel non risparmiarsi, nel rischiare, nell’adoperarsi perché la giustizia e l’amore aprano la strada alla pace…Colui che non vuole uscire dall’egoismo, dal perbenismo, dalla viltà non ha diritto di ascoltare La Pira!» (Introduzione alla prima edizione del volume di G. La Pira, Il sentiero di Isaia, Firenze, Cultura, 1978, p. XIII). Ma ci sono, tra le tante, altre due testimonianze che qui non possono essere sottaciute.

La prima è quella di Giuseppe Dossetti, grande amico e compagno politico di viaggio di La Pira per diverso tempo e in momenti cruciali della storia repubblicana. Egli, in un discorso tenuto a Palazzo Vecchio in Firenze il 5 novembre del 1987 per il decimo anniversario della sua morte, lo ricordava con queste parole: «Si è parlato dell’incomprensione della gente, del rifiuto, delle canzonature, dello sprezzo da parte di tanti, persino degli amici politici più stretti...E anche del sospetto verso di lui da parte di larghissime zone della comunità ecclesiale e delle sue autorità più costituite; e di crollo delle sue strategie di pace e anzi del cupo emergere della strategia della tensione e della follia della lotta armata...Il mio grande amico diletto ha vissuto l’esperienza avvertitissima delle necessarie ambivalenze, per il cristiano, di gioia e di dolore, di tenebre e di luce, di vita e di morte».

La seconda testimonianza è quella dell’attuale vescovo di Firenze, Giovanni Betori, che il 5 novembre 2008, nella basilica di San Marco a Firenze, in occasione del 31° anniversario della morte di La Pira, ne ha parlato in questi termini: «E' stato un politico La Pira? Sì! Ha cercato di dare un'anima alla politica. Mi pare bello quello che scrisse su di lui Carlo Bo: “La Pira è passato, sí, come una meteora nel cielo della politica che era indegna di lui, ma è stato, per altro verso, il simbolo di un'altra e più alta ragione: anche un santo può fare politica”» (tratto dal sito “Toscana Oggi”).