Maria e la piena comunione con Dio

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

Maria ha sempre creduto che Dio, lungi dall’essere un’astrazione o un’illusione della mente, fosse una persona realmente esistente e dotata di poteri illimitati, tra i quali quello di essere infinitamente giusto e misericordioso. Maria ha sempre sentito intimamente che il suo destino di creatura e di donna non fosse privo di senso e di scopo, avvertendo attorno a sé non già i segni di una muta casualità o del nulla ma quelli di una presenza misteriosa e tuttavia spiritualmente e sensorialmente concreta. Nella sua stessa umanità e nella sua stessa sensibilità femminile ha sempre percepito l’estrema vicinanza di un Essere infinitamente distante ma anche capace di rendersi accessibile all’umano e di manifestarsi in esso.

Non c’è dubbio che l’apostolo Giovanni, che avrebbe posto Maria tra le sue cose e i suoi affetti più cari in ossequio alla volontà di Cristo morente sulla croce, abbia ripreso, nello scrivere l’Apocalisse, la testimonianza data dalla madre del suo Signore con la sua stessa vita: quella per cui, per l’appunto, Dio non è una realtà impenetrabile e inaccessibile all’uomo ma una realtà che in esso si incontra o di cui può farsi concreta esperienza. Giovanni cerca di far emergere nella sua opera proprio questo concetto: che quanto più la nostra umanità progredisce tanto più è possibile fare esperienza del Dio-con-noi («Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio») (Ap 21, 3).

Maria sapeva bene, in base alla migliore cultura religiosa ebraica, che se l’uomo ha bisogno di Dio in quanto creatura, Dio è talmente “geloso” delle sue creature, è cosí preso da esse che non può mai starne lontano e le ama visceralmente più di quanto una madre possa amare i suoi figli: il che implica che egli viene manifestandosi nella vita degli esseri umani almeno per quel tanto che basti a porre quest’ultimi nella condizione di sentirsi realmente amati dal loro Padre, riservandosi di rivelarsi sempre più chiaramente a quanti lo cerchino con disinteressata e crescente sincerità.

Maria si sentiva una creatura privilegiata ancora prima che l’angelo le annunciasse che sarebbe diventata madre del figlio dell’Altissimo, perché non solo il suo cuore ma i suoi stessi sensi erano sempre stati pieni della reale presenza di Dio: non si potrebbe altrimenti spiegare il particolare trasporto emotivo dei meravigliosi versi del Magnificat, il cui esaltante contenuto salvifico ed escatologico Maria aveva dovuto necessariamente serbare ed alimentare nella propria interiorità sin dai primi anni di vita.

Ecco perché, pur creaturalmente soggetta agli stessi bisogni naturali anche di natura affettiva di tutti noi, la sua mente, la sua psiche, la sua stessa corporeità trovavano in Dio e nella fedeltà alla sua volontà il punto più alto della loro gratificazione e del loro appagamento. Che non significa che il suo amore per i suoi simili e per le cose stesse dell’universo fosse un amore depotenziato ma che anzi  tale amore, costitutivamente pervaso dall’amore e dalla grazia di Dio, finiva per risultare nei confronti di cose e persone ancora più genuino e intenso di quello presente in tante forme correnti di amore puramente immanente in cui esse sono amate in e per se stesse e non nell’orizzonte esistenziale più radioso ed elettrizzante dell’ineffabile amore di Dio.

Maria perciò visse in terra esattamente come Adamo ed Eva avevano vissuto in paradiso prima del peccato originale e tutto quello che venne pensando, sentendo, operando durante la vita terrena fu assolutamente identico a ciò che un essere umano può pensare, sentire ed operare in una condizione paradisiaca. Non è che, pur essendo l’Immacolata Concezione, non potesse peccare ma di fatto non peccò perché liberamente e non coattivamente scelse di amare per l’eternità il suo Signore senza disobbedire ai suoi decreti.

Non è un caso che le Scritture si aprano e si chiudano con l’immagine del giardino, del luogo che simboleggia la pienezza della vita e quindi la forma più alta di felicità per ogni creatura: la vita in un giardino in cui tutto sia lecito fare per l’eternità tranne che trasgredire la volontà giusta e misericordiosa del Padre. Questo è sempre stato il progetto di Dio per il genere umano, il progetto che trova la sua realizzazione e il suo compimento nella nuova umanità inaugurata da Cristo.

Proprio attraverso il riferimento al “paradiso di Dio”, la stessa Apocalisse giovannea vuole segnalare, in conformità alla stessa esperienza umana e spirituale di Maria, che la Parola di Dio non è tanto una dottrina da apprendere e fissare nella mente quanto una realtà vitale da sentire e assimilare non attraverso una spiritualità sostanzialmente staccata dalla vita reale ma attraverso una spiritualità che ne sia carica e se ne faccia generosamente carico e quindi anche attraverso gli stessi sensi umani, anch’essi mezzi preziosi per ricercare anche sensibilmente Dio.

Dove però va ancora precisato che, proprio come accadde a Maria, l’accesso al giardino dell’eterna felicità non dipende tanto dagli sforzi e dai meriti umani, pure apprezzati dal Signore, quanto soprattutto dalla capacità creaturale di accogliere l’amore che il Signore regala ad ogni suo figlio e dunque dalla capacità umana di voler fare pienamente comunione con Dio. Per Maria questa comunione fu costante e totale.

Ma è già molto importante che ognuno di noi, seguendone l’esempio al meglio delle proprie possibilità e implorandone la costante assistenza, si sforzi di realizzarla non solo nei pressi della mensa eucaristica ma in tutti gli ambiti della sua vita terrena. Perché nella effettiva tensione alla perfetta comunione con Dio persino la morte non può tenerci lontani da lui ma ci introduce nel vero mondo-della-vita.