Crisi dell'eurocrazia e impegno cattolico

Scritto da Francesco di Maria.

 

Non c’è dubbio che, per parlare di politica economica globalizzata, occorra disporre di adeguate competenze, ma l’assenza di competenze qualificate non implica che si debba pendere dalle labbra degli “esperti” e non sia possibile assumere decisioni politiche e governative responsabili anche in difformità dalle loro diagnosi e indicazioni. Peraltro, come ormai è ben noto a tutti, sia le previsioni che le prescrizioni o le terapie degli “esperti”, dei “tecnici”, degli “scienziati dell’economia”, non di rado vengono clamorosamente smentite dai fatti che non si lasciano mai irreggimentare del tutto nelle loro sofisticate teorie.

Per esempio, se i ricchi sfondati, i plutocrati di tutte le nazioni del mondo tendono ad incrementare la loro ricchezza, nonostante le crisi economiche e finanziarie che per interi popoli risultano devastanti, non è che ci si possa attardare a discutere se sia o non sia autoritaria o democratica una politica fiscale volta a tassare i loro redditi molte volte di più di quanto vengano tassati i redditi medio-bassi: è ovvio che i detentori di redditi, di patrimoni finanziari e/o immobiliari e profitti particolarmente elevati si debbano far carico in notevole misura delle necessità economiche della comunità di appartenenza, e che al riguardo ogni possibile polemica non possa che essere considerata non solo sterile ma completamente ingiustificata e riprovevole. Per capire una cosa del genere non è affatto necessario essere grandi professori di economia, perché bastano il buon senso e una sensibilità elementare per comprendere quali siano le priorità oggettive dell’azione politica e le decisioni che devono essere adottate.

Se oggi la diseguaglianza in tutto il mondo e all’interno degli stessi Stati occidentali ed europei tende a crescere illimitatamente, non c’è bisogno che a pronunciarsi sul da farsi siano menti particolarmente colte e raffinate perché un politico appena dotato di buona intelligenza, di adeguato senso etico, e degno del ruolo che svolge, non può accettare di sottostare a politiche di austerità o di risanamento, a riforme strutturali e a programmi fiscali indiscriminati, che concorrano obiettivamente ad accrescere nello stesso tempo la povertà di intere masse popolari e ingiustizie economiche e sociali sempre più incompatibili con obiettivi di bene pubblico o comune.

Anzi, è semplicemente riprovevole la tendenza generale di teorici,  esperti, economisti, degli stessi politici, a non attribuire particolare importanza al tema della diseguaglianza e a non prendere di conseguenza in seria considerazione l’idea che si debba necessariamente procedere ad una politica di rigorosa ridistribuzione dei redditi, indipendentemente dal fatto che essa serva o non serva a rilanciare l’economia.

Altrettanto abietto è quel pensiero economico molto diffuso che ritiene che la presenza di un debito pubblico molto elevato implichi ineluttabilmente l’obbligo per lo Stato che lo abbia contratto di adottare misure oltremodo severe, indiscriminate e particolarmente dannose per la popolazione più povera al fine di ridurlo sensibilmente se non di saldarlo del tutto, a prescindere dalla legittimità o meno delle tabelle e dei criteri usati per quantificare gli interessi maturati sul debito stesso. Si arriva cosí ad una situazione paradossale quale quella della Grecia in cui, come scrive in data 22 febbraio 2014 (in un articolo intitolato Greece’s health crisis: from austerity to denialism) una delle più autorevoli riviste mediche internazionali, “The Lancet” (“Il bisturi”), «6 anni di recessione economica, aggravata da rozzi tagli di bilancio, hanno portato a visibili peggioramenti della situazione sanitaria greca».

Ora, benché il sistema sanitario greco necessitasse obiettivamente di una riforma e il governo greco fosse pertanto tenuto a ridurre la spesa sociale in tutti i settori ivi compreso quello sanitario, non sarebbe stato saggio e opportuno tagliare le spese su numerosi esami medici superflui o non strettamente necessari e sull’eccessivo consumo di medicinali, piuttosto che, come è avvenuto, sulla sanità pubblica, sulla salute mentale o sull’assistenza alle persone disabili? Nel primo caso si sarebbe dovuta vincere l’opposizione di potenti lobbies professionali e finanziarie, nel secondo caso invece non sono stati incontrati ostacoli di sorta. Oggi le conseguenze in Grecia di questa dissennata decisione politica sono non solo l’aggravamento delle sue complessive condizioni economiche segnate da un tasso ormai esorbitante di disoccupazione ma anche e naturalmente l’aumento delle malattie infettive, dei suicidi soprattutto tra i cittadini economicamente più deboli, della drastica riduzione della possibilità di accesso pubblico ai servizi sanitari e sociali e ai prodotti di prima necessità.

Le domande che vengono sollevate dalla infelice situazione greca sono sempre le stesse e sono quelle che qualunque essere pensante non può non porsi: è l’economia che deve governare sulla politica o è la politica che deve orientare l’economia, è la globalizzazione commerciale e finanziaria che deve decidere della vita e della storia dei popoli o sono quest’ultime che devono decidere dei modi e dei tempi di attuazione della globalizzazione commerciale e finanziaria? Quel che, certo non per pura ignoranza o innocentemente ma per precisi e spesso meschini interessi finanziari non di rado anche di natura personale, non si vuole ancora intendere in moltissimi ambienti accademico-economico-finanziari e politico-istituzionali è che in economia non esistono “leggi” assolutamente e universalmente valide o definitive perché pur sempre leggi storiche ed umane e che, soprattutto, non c’è un solo caso in cui, nel nome o per conto di ragioni economiche e finanziarie, per quanto plausibili e non arbitrarie, ci si possa sentire legittimati a violare elementari princípi morali com’è quello relativo al dovere di tutelare concretamente la sopravvivenza materiale e la dignità stessa di persone e popoli.

D’altra parte, se si vuole restare sul piano scientifico, ormai sempre più frequente anche se non ancora sufficientemente ampio e diffuso è il riferimento massmediatico a tutti quei premi nobel per l’economia che sembrerebbero essersi espressi anche in tempi non sospetti, ma è bene conservare qualche riserva, molto criticamente nei confronti dell’euro e della possibilità che la moneta unica abbia realmente di consentire una risoluzione adeguata dei complessi e molteplici problemi nazionali europei. Si pensi in particolare a un recente articolo pubblicato sul sito www.scenarieconomici.it in data 11 gennaio 2014  e dal titolo molto significativo: “7 Premi Nobel (P. Krugman, M. Friedman, J. Stigliz, A. Sen, J. Mirrless, C. Pissarides, J. Tobin): l’euro è una patacca”. Tanto che viene spontaneo chiedersi: ma allora, se persino i massimi esperti della scienza economica mondiale parlano dell’euro come di una “patacca”, cosa aspettano ancora tutti i governi che fanno parte dell’UE a liberarsene? Questo sarebbe l’unico modo per essere oggi “europeisti critici” e non dogmatici, a differenza di quel che, almeno in Italia, pensano i tanti seguaci di Giorgio Napolitano che ha appunto parlato, ma solo recentemente, di “europeismo critico” alludendo probabilmente alla tesi enunciata da Massimo D’Alema in un libro pubblicato quasi nello stesso periodo: Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa, Rubbettino, 2014.

Peraltro, era difficile aspettarsi qualcosa di più dal sempre ambiguo “migliorista” Napolitano e da un perfido “riformista” come D’Alema: essi rimodulano ma non cambiano realmente il loro vecchio e compassato europeismo, ne cambiano la forma ma non la sostanza semplicemente perché incalzati in modo virulento dal fallimento sempre più evidente delle politiche economiche europee e dai minacciosi “populismi” continentali e forse anche per motivi di opportunistica autodifesa personale e di sopravvivenza politica. In sostanza, essi dicono: non è più sufficiente l’accettazione e l’uso dell’euro se al mantenimento della moneta unica non si sia capaci di aggiungere politiche finalmente volte ad incentivare la ripresa economica, il lavoro, la giustizia sociale e la democrazia.

Ma essi non sembrano rendersi conto che il problema è proprio quello per cui, permanendo l’euro, non sussiste alcuna possibilità di sviluppo, di occupazione, di giustizia sociale e di democrazia. Lo aveva già chiaramente capito, nel lontano 1971, in un periodo in cui il progetto monetario europeo era ancora in incubazione, un neokeynesiano come Nicholas Kaldor quando scriveva in un articolo del 12 marzo dell’anno citato e intitolato “Effetti dinamici del mercato comune” che introdurre una moneta unica prima della realizzazione di una unione politica e fiscale avrebbe significato per l’Europa andare dritti verso un vero e proprio “disastro” dei Paesi economicamente “periferici” al quale sarebbe seguita una rottura dell’intero sistema economico-monetario. Tutti sanno che alla “rottura del sistema” non si è ancora giunti mentre è un fatto conclamato “il disastro di mezza zona Euro”, per cui previsione più azzeccata non si sarebbe potuta dare.

Kaldor, ritenendo illusoria l’unione monetaria ed economica come premessa necessaria di una unione politica europea o più semplicemente «come lievito per l’evoluzione verso una unione politica» europea, vedeva chiaramente che «se la creazione di un’unione monetaria e il controllo comunitario rispetto ai bilanci nazionali genererà pressioni che porteranno ad un collasso di tutto il sistema, tale collasso non potrà che impedire lo sviluppo di un’unione politica anziché promuoverla». Perché dunque nel tempo questa lungimirante analisi sarebbe stata accantonata per seguire teorie e progetti che hanno spinto e spingono continuamente il nostro vecchio continente verso il baratro? Verosimilmente per inconfessabili motivi finanziari, non di rado anche di natura personale, e per quel piano paneuropeo e mondialista che, pensato negli anni ’20-’30 del secolo scorso dal conte Kalergi, era e più che mai è ideologicamente funzionale alla creazione di un nuovo ordine mondiale con poteri autoritari e fortemente accentrati che avrebbero dovuto annullare totalmente l’autonomia politica e la libertà decisionale di tutti i governi nazionali del mondo, ad eccezione di quelli meglio rappresentati ai posti di comando dalle cricche plutocratiche, e in definitiva distruggere la sovranità degli stessi Stati democratici occidentali.

Peraltro, Kaldor auspicava anche una politica di moderati tassi di interesse non tanto per favorire gli investimenti quanto per evitare il formarsi di una classe di “redditieri”, ovvero di individui o gruppi che non vivono di lavoro ma di pura rendita dovuta al possesso di risorse naturali o finanziarie e di proprietà ereditate di qualsiasi genere, e quindi di una classe economicamente e socialmente improduttiva. Ma questa sua proposta ancora maggior rilievo acquistava in relazione al debito pubblico, dal momento che tassi elevati aggravano pesantemente l’indebitamento dello Stato.

Ora, se Kaldor operava una brillante analisi di quel che sarebbe stata un’Europa puramente o prevalentemente economico-monetaria, noi oggi sappiamo, soprattutto in qualità di cristiani, che a dover essere radicalmente cambiata non è solo l’Europa finanziaria e burocratica, autoritaria e dirigista, pur fondata su un governo e un parlamento nominalmente democratici, non è solo l’Europa con la sua Banca Centrale, le sue commissioni, i suoi ferrei regolamenti e i suoi rigidi disciplinari commerciali o alimentari, ma anche l’Europa culturale e giuridica basata su organismi valutativi e decisionali sin troppo estesamente inquinati da forme di razionalismo laico prevalentemente ottuso ed esasperato e su corti o tribunali che, nel nome di “diritti umani” non sempre limpidamente e universalmente riconoscibili come tali, mettono praticamente bocca su questioni che dovrebbero essere di esclusiva competenza dei tribunali nazionali.

Quella con cui si ha oggi a che fare non solo non è un’Europa capace di cogliere e comprendere le priorità e le necessità economiche di ogni Stato membro, ma è anche, a ben vedere, come più volte e giustamente rilevato dall’antropologa Ida Magli, un’Europa incapace di rispettare e valorizzare la diversità e la ricchezza dei popoli, delle loro storie e delle loro tradizioni culturali e religiose, un’Europa che si sovrappone ad essi con la pretesa di dettare loro le condizioni della loro complessiva emancipazione storica.

Anche in Italia non sono mancati economisti capaci, molto per tempo e su posizioni fortemente minoritarie, di cogliere gli elementi di forte ambiguità presenti nella stessa genesi dell’euro. Si allude in particolare al compianto economista Augusto Graziani, sin dal 1999 molto critico sia nei confronti di un europeismo prettamente economico-finanziario fondato sull’adozione della moneta unica, sia nei confronti dell’insignificante e distruttiva evoluzione riformistica o pseudoriformistica del vecchio partito comunista italiano. Per ciò che attiene l’euro, egli, contrariamente alle tesi allora prevalenti, ricorda oggi uno dei suoi allievi più acuti, pensava che «la scelta di fissare il tasso di cambio tramite l’adesione al Sistema monetario europeo e poi alla moneta unica europea, non» avrebbe affatto «contribuito a ridurre» le distanze già esistenti tra i paesi centrali, economicamente più forti, e i paesi periferici, economicamente più deboli, dell’Unione Europea, ma avrebbe «finito per accentuarle» e per determinare prima o poi il tracollo stesso dell’euro (E. Brancaccio, La lezione di Augusto Graziani, in “Critica marxista”, 2013, n. 6, pp. 18-20).

Mi pare che i fatti gli abbiano dato ampiamente ragione, in particolare sulla valutazione che egli dava, in difformità dalle valutazioni correnti espresse non molto responsabilmente anche da certi “padri della patria”, sui «vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici», che secondo i più sarebbero stati funzionali non solo al consolidamento e allo sviluppo del capitalismo tedesco ma anche alla modernizzazione, ad una maggiore centralizzazione (rispetto alla precedente frammentazione) e quindi ad un sostanziale potenziamento dello stesso capitalismo italiano, e che invece secondo Graziani avrebbero «potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato» e sperato (ivi).

Peraltro, egli lamentava che tanto maggiori sarebbero stati anche per il nostro paese gli effetti negativi del dirigismo e del burocratismo eurocratici quanto maggiore fosse stata la propensione della sinistra italiana ad appiattirsi su posizioni di liberoscambismo acritico e su «una vocazione alla totale apertura dei mercati e all’abbattimento» di tutti i «perimetri statuali»: «in un certo senso, è come se gli eredi del vecchio internazionalismo operaio siano arrivati a stravolgere completamente l’istanza universale delle origini, solidale e pacifista, confondendola con l’unificazione dei mercati e della moneta, vale a dire con le realizzazioni dell’internazionalismo del capitale. La lettura dell’opera di Graziani può aiutare anche a liberare le coscienze da simili illusioni e travisamenti. E potrebbe contribuire ad afferrare i termini di quei decisivi snodi politici della crisi europea, che pian piano affiorano all’orizzonte» (ivi, p. 21).

E’ probabile che tutto ciò sia vero, almeno in parte. Ma forse la sinistra italiana, pur indubbiamente e moralmente colpevole di esser venuta meno alle sue tradizionali idealità etiche di lotta per il lavoro e la giustizia sociale, non ha rinnegato proprio tutto di sé e della sua complessa storia – è bene farlo notare a chi sia pure nascostamente rimpiange forse il vecchio partito comunista di Togliatti e compagni –; non ha rinnegato certamente quella ricerca del potere spregiudicata e non necessariamente finalizzata al perseguimento di nobili scopi economici e sociali che costituisce indubbiamente ancor oggi un elemento di forte continuità persino rispetto al suo passato più glorioso.

Si può anzi dire che l’opportunismo revisionistico della sinistra odierna, molto cresciuto dai tempi in cui Achille Occhetto (aspramente criticato da Graziani) volle la nascita del PDS, si spiega proprio in ragione della sua reiterata tendenza a non lasciarsi sfuggire completamente di mano le leve del potere politico ed istituzionale attraverso la sistematica subordinazione della ricerca della giustizia sociale ad un puro esercizio di potere e di un potere che coincida quanto più possibile con il potere di governo.

In questo senso, appare non più procrastinabile nella storia politica italiana l’ingresso di una inedita presenza cristiana rigorosamente radicata nel vangelo la quale, su posizioni di opposizione o di governo, sia pronta a lavorare responsabilmente per un ripristino della nostra sovranità nazionale, tanto in campo giuridico e politico quanto in campo commerciale ed economico-finanziario, e a promuovere e a tutelare senza secondi fini la dignità della vita personale e comunitaria in tutte le sue dimensioni secondo la logica evangelica della condivisione fraterna e dei talenti da far fruttare anche in senso economico e sociale, logica che è alla base di una concezione e di una pratica politiche realmente democratico-egualitarie e al tempo stesso meritocratiche, essendo protese sia al tendenziale soddisfacimento delle vitali necessità materiali di ciascuno e di tutti sia al riconoscimento e alla valorizzazione sociali e retributive delle capacità e dei meriti individuali e di gruppo.

Forse una nuova forza politica cattolica di ispirazione evangelica non potrebbe ancora, da sola, realizzare in Italia un perfetto modello di vita democratica, fondata sulla cooperazione economica e sociale a tutti i livelli e sull’assenza di disoccupazione, un modello utopico “di sinistra” e tuttavia realmente esistente ed attuato come quello di Marinaleda, una piccola comunità rurale posta nel cuore della regione spagnola dell’Andalusia; ma, con l’aiuto di Dio, la sua testimonianza, ove non fosse di facciata ed ipocrita, finirebbe certamente per trascinare e coinvolgere tanti uomini e donne di buona volontà, anche se non necessariamente credenti, in un’opera collettiva volta a creare condizioni generali di vita finalmente più vivibili e decorose per tutti nel nostro paese e nel mondo.