Che cos'è la confessione?
Confessarsi significa confessare ovvero accusare i propri peccati, riconoscerli come offese recate a Dio, alla Chiesa e quindi all’intera comunità ecclesiale, e alla propria dignità personale. Perché questo sacramento della confessione o riconciliazione sia validamente esercitato, non è però sufficiente accusare, riconoscere, assumersi la piena responsabilità delle proprie colpe, essendo necessario che tutto questo avvenga non meccanicamente, quasi solo per togliersi uno scrupolo, ma sinceramente attraverso un atto di reale contrizione e di rinnovato amore verso Dio.
Ciò comporta anche che la confessione non possa avvenire direttamente, o per meglio dire esclusivamente con Dio, giacché la misura completa della nostra sincerità di penitenti è data dall’umiltà con cui accettiamo non solo di confessare intimamente a Dio le nostre debolezze ma anche di dichiarare faccia a faccia tali debolezze ad un nostro fratello sacerdote. Non c’è alcun dubbio che in senso psicologico il confessarsi semplicemente con Dio, pur avendo la concreta possibilità di recarsi da un prete, richieda meno umiltà di quella che occorre per confessarsi invece in presenza di una persona come noi e sia pure di una persona ministerialmente preposta ad esercitare i santi sacramenti istituiti da Cristo.
San Paolo confessava la sua debolezza ai fratelli faccia a faccia e Giacomo scriveva: “Confessate…i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti” (Lettera, 5, 16). Anche oggi, se non ci fossero controindicazioni di ordine psicologico e pratico, la forma più alta e più pura di confessione potrebbe forse ben risultare quella fatta pubblicamente (che non significa necessariamente in mezzo a qualche centinaia di persone) anche se, pure in quel caso, non si potrebbero escludere forme di esibizionismo o di isterismo personali. Ecco perché, a giusta ragione, la Chiesa ha affidato nel corso dei secoli ai sacerdoti, sulla base della parola di Gesù, la funzione di rappresentare sia Cristo sia la stessa comunità dei fedeli nell’atto di raccogliere le confessioni dei penitenti.
D’altra parte è sbagliato pensare che la confessione coincida con un semplice e generico colloquio con il prete o con una seduta psichiatrica o, viceversa, con una pratica di tipo sadico. Essa consiste solo nella volontà di dire non già: “sono un peccatore” o “sono un peccatore come tutti”, “ purtroppo ho commesso molti peccati”, “ho fatto questo, però mio marito, mia moglie, mia figlia o mio figlio o chiunque altro, mi hanno fatto quest’altro”, e cose eteree o astratte di questo tipo, ma: “ho fatto questo, questo e questo”. I peccati, cioè, devono essere confessati nella loro concreta particolarità o specificità, non in modo indeterminato o vagamente allusivo e impreciso: tanto per capirci, io uomo o donna, se ho fatto un pensiero impuro, se ho commesso atti impuri di qualsiasi genere, devo dirlo con la massima onestà possibile senza cercare scuse; se ho imbrogliato qualcuno o sono abitualmente un truffatore e un bugiardo, lo devo riconoscere in modo franco ripromettendomi sul serio di cambiare vita; se ho frequentato ambienti malsani contraendo amicizie ambigue oppure se ho screditato ingiustamente persone che mi sono antipatiche o ostili, devo ammetterlo senza giri di parole esprimendo la sincera intenzione di non commettere più gli stessi errori; anche se ho dubbi sulla risurrezione finale dei corpi, devo dichiararmene colpevole in quanto tali dubbi costituiscono un grave peccato contro la stessa fede in Gesù Cristo, e via dicendo.
Sono tutte cose per le quali, si dirà, non ci si può non vergognare! Certo, ma è necessario vergognarsi, come è necessario rinunciare a qualunque tipo di autogiustificazione, perché un sentimento personale di vergogna o di mortificazione sta a dimostrare che la nostra confessione è realmente umile e non ipocrita o puramente “scaramantica”. Non è valida la confessione di chi non abbia la sincera capacità di vergognarsi delle proprie colpe davanti al sacerdote: non è valida pur ottenendone eventualmente l’assoluzione.
Se non ci vergogniamo delle nostre colpe, ha detto recentemente papa francesco, vuol dire che non sentiamo veramente bisogno del perdono di Dio. Per il cristiano confessare deve significare il riconoscere pienamente la santità della Parola di Dio, dei suoi insegnamenti e dei suoi comandi, alla luce dei quali per l’appunto egli viene periodicamente ammettendo che alcuni suoi comportamenti, giudizi, atti sono sbagliati e dannosi.
Naturalmente, va anche precisato che, se scientemente o impulsivamente noi rendiamo offesa a qualcuno in particolare, la nostra confessione sarà valida se manifesteremo il proposito di scusarci in qualche modo, di ricucire il rapporto spezzato, con colui o coloro cui abbiamo fatto torto o recato offesa, o quanto meno se pregheremo il Signore di porci il più presto possibile nelle condizioni giuste per riavvicinarci al fratello o alla sorella offesi.
Infine, non è forse inopportuno soffermarsi su una importante precisazione e distinzione teologica. Premesso che la confessione, secondo il Catechismo cattolico, è anche il sacramento della conversione, della penitenza, del perdono e della riconciliazione con Dio e con i fratelli, è necessario distinguere tra la remissione dei peccati, ossia la cancellazione totale di tutti i peccati, che si riceve una sola volta con il battesimo – allorché, accettando Gesù, anche per mezzo dei nostri genitori, come nostro personale Signore e Salvatore, veniamo “liberati dal peccato” originale “e rigenerati come figli di Dio”, per cui riceviamo la natura divina, ovvero una nuova natura che non ha mai peccato e che, pur suscettibile in futuro di peccare, non è tuttavia schiava del peccato – e il perdono o riconciliazione, che si ottiene o si può ottenere ogni volta che, nel corso della propria vita, si sbaglia e si pecca e si ha tuttavia la prontezza spirituale di implorare il perdono divino, che il Signore, essendo “fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1Gv, 1-9), non esiterà a concedere anche tramite i suoi “rappresentanti”.
In altri termini, la remissione dei peccati ripristina la relazione con Dio che era stata spezzata dal peccato d’origine, mentre il perdono ripristina la comunione che si interrompe quando si pecca. Con il battesimo noi diventiamo figli di Dio ma, quando, pur come figli di Dio, noi pecchiamo, ci viene meno la comunione, non già la relazione con lui, perché restiamo figli di Dio anche quando pecchiamo, a meno che il nostro peccato non sia quello di rinnegare lo stesso Cristo.