Galimberti su pensiero "attivo" e senso della vita
Umberto Galimberti pensa che i giovani di oggi stiano male anche se spesso non sanno riconoscere il male di cui soffrono per carenza di cultura, di strumenti logici e concettuali, di capacità di riflessione. Essi, secondo l’accademico brianzolo, generalmente provano dei sentimenti che non riescono a comprendere perfettamente, sentimenti molto più simili ad impulsi infantili o adolescenziali che non a stati emotivi almeno in parte controllabili e decifrabili razionalmente. Il loro pensiero è spento, è passivo. Ecco allora, afferma il filosofo italiano, che una persona incapace di comprendere e definire il sentimento che prova «vive uno stato di angoscia dovuto al non sapere», per l’appunto, «di cosa stia soffrendo e per quale ragione stia male» (Alienazione e natura umana. In dialogo con Sean Sayers. Manca il pensiero sul futuro. Intervista a Umberto Galimberti, a cura di C. Crosato, in Il rasoio di Occam di “Micromega”, 28 marzo 2014).
Solo che poi Galimberti ritiene di poter trovare nel mito, nella letteratura, nella stessa filosofia, direttamente o indirettamente, dei validi antidoti al loro male o malessere, in quanto essi hanno sempre fornito «e potrebbero fornire un lessico, le parole e i paradigmi per orientarsi nello scenario emotivo, ma soprattutto sentimentale» (ivi). Fosse davvero fondata la sua diagnosi o la sua analisi, forse il problema sarebbe solo quello di capire come fare per coinvolgere maggiormente i nostri giovani sul piano culturale e per rendere più sicura e armonica la loro evoluzione psicologica, troppo spesso priva di significati, di valori, di simboli.
Ma temo che la soluzione non sia cosí semplice o, quanto meno, che la sua natura non sia di tipo esclusivamente intellettuale. Personalmente ho conosciuto molti uomini di cultura, molti studiosi, molte menti veramente pensanti, e non meno capaci e preparati dello stesso Galimberti, uomini intellettualmente notevoli e tuttavia semplicemente infantili, immaturi, esaltati, imprevedibili sotto il profilo psicologico e morale, dallo sguardo sperso o ridicolmente sussiegoso e dai toni isterici o ingiustificatamente collerici, non solo in rapporto agli altri ma anche in rapporto alla propria identità personale. Il disconoscimento dell’emozione e del sentimento non ha a che fare solo o sempre con una carenza di ordine intellettuale, ma almeno in modo altrettanto frequente con più complesse e profonde turbe o anomalie della personalità di origine prelogica.
Invece il filosofo lombardo è convinto che il mancato o insufficiente riconoscimento dell’emozione e del sentimento potrebbe essere adeguatamente curato attraverso una pratica di “consulenza filosofica”, poco conosciuta in Italia, egli tiene a precisare, e molto diversa «dal sostegno di un amico, di un prete, di uno psichiatra» (ivi), perché, se l’amico parla in modo generico più che altro per dare conforto a chi sta male, e il prete si attiene a precise regole dogmatiche e a norme spirituali altrettanto codificate, e infine lo psicologo o lo psichiatra si occupa di alterazioni o squilibri psichici e mentali determinati da traumi infantili, da lutti particolarmente dolorosi o da fallimenti sentimentali e matrimoniali, la consulenza filosofica invece «si occupa della cura delle idee. Se una persona ha delle idee che non sono ordinate rispetto al mondo-ambiente in cui vive, non potendo cambiare il mondo, deve in qualche modo far maturare e ratificare le proprie idee. O, detto altrimenti, se si affollano problemi di cui non si sa vedere soluzione, può giovare disegnare una geografia di questi problemi. È, a tutti gli effetti, una cura delle idee: attraverso la lettura e il commento di libri, si allarga la propria cultura; e questo significa dare alla sofferenza e alla confusione un luogo circoscritto, cioè non pervasivo di tutta la mia persona. Significa allargare il luogo di riflessione, circoscrivendo i problemi e attingendo, da un più ampio armamento culturale, gli strumenti per dar loro una risposta» (ivi).
Secondo questo ragionamento le crisi psicologiche, il disagio sentimentale, il malessere esistenziale, potrebbero essere curate, cioè almeno ridotte, circoscritte o ridimensionate, attraverso una consulenza filosofica, attraverso la lettura o una frequentazione culturale comunque adeguata, ma il difetto di questo ragionamento sostanzialmente “intellettualistico” è che, in realtà, non esiste educazione o consapevolezza culturale di qualunque genere, né formazione critica, né capacità logico-analitica, che possano rendere immune da forme devastanti di sofferenza interiore, da comportamenti irrazionali, da atteggiamenti puramente distruttivi o autolesionistici anche se verniciati di rispettabilità sociale.
Ci sono momenti, periodi anche molto prolungati di vita, in cui persino il più grande intellettuale o il più grande “consulente di idee” del pianeta può non sapere che farsene della sua grande intelligenza e della sua capacità logico-ordinativa, potendo aver bisogno di un amico “alla buona” che però non riesce a trovare, o di un umanissimo prete all’antica che ha difficoltà a raggiungere o di un bravo psicologo che gli si accosti senza saccenteria scientista ma con semplice buon senso e onestà.
Specialmente se il filosofo o il “consulente delle idee” è uno che, senza saperlo, si è invaghito della sua preparazione, della sua abilità concettuale, del suo equipaggiamento logico-metodologico, è molto probabile che, tra lui e il giovane dalla vita emotiva e sentimentale disordinata e confusa, a stare peggio sia proprio lui, perché il giovane sbandato e afflitto da particolari contingenze esistenziali può ancora essere curato in un modo efficace (anche se non è dato stabilire apriori in quale modo) mentre un “medico delle idee” che sia vittima delle sue stesse ossessive pretese “terapeutiche” di natura professorale o accademica molto più difficilmente potrà essere curato. Dunque: chi cura chi?
Sia ben chiaro: non che l’istruzione, la cultura, la formazione critica, non siano utili ad una emancipazione equilibrata della sfera più intima della personalità, ma è evidente che la loro utilità dipende ancora una volta dall’uso umano e morale che se ne fa. In altri termini, esse non sono già intrinsecamente umane e generatrici di moralità, ma possono diventare tali solo muovendo da un’intenzionalità umana, da una volontà morale, da un’istanza intima di razionalità non sofisticata e mistificante ma schietta, lucida e lineare, che sono sempre irriducibilmente altro dalle molteplici forme oggettivate di razionalità ed eticità quali si acquisiscono dai libri e dai corsi universitari e persino dai propri studi teorici.
Le mie idee possono essere oltremodo chiare e tra esse coordinate, ma non sono ancora tali idee che possono risolvermi i miei traumi, i miei conflitti interiori, le mie complesse problematiche esistenziali. Il mio vissuto è sempre più ampio e complesso della mia pur vasta ed articolata intellettualità, la quale dunque dev’essere continuamente moralizzata, dev’essere costantemente orientata in senso morale e regolamentata da una coscienza dotata di una sua insopprimibile dimensione prelogica e precategoriale con la quale la funzione razionale della stessa coscienza è sempre in qualche modo libera di confrontarsi in maniera più o meno scrupolosa .
Ora, tutto questo anche per dire che la possibilità di essere curati dai propri giovanili o senili dissesti emozionali (non c’è solo il bullismo giovanile ma tante altre forme di bullismo, tra cui anche quelle di certi intellettuali pur maturi e qualificati secondo le correnti categorie di questo mondo ma cosí insofferenti, prepotenti e arroganti da risultare intrattabilmente asociali e disgustosamente immorali o licenziosi), scaturisce non già da semplici “consulenze filosofiche e culturali” ma da esperienze umane di spontanea amorevolezza, di schietta e franca amicizia oppure di salutari sconfitte morali, di disinteressato e non ostentato affetto, di amore non egocentrico e possessivo ma rispettoso e tollerante: quando accade che, nel quadro di determinati rapporti interpersonali, ci si senta realmente ascoltati o capiti, pazientemente compresi ma anche giustamente e garbatamente rimproverati, realmente stimati e valorizzati oppure anche relativamente “messi da parte” con precise finalità educative, è allora che, anche a prescindere dalle diverse capacità individuali di cogliere il senso o i sensi veritativi delle cose, possono attivarsi processi realmente terapeutici, in grado di restituire a chicchessia fiducia in se stesso, di ricostruire e rimettere in movimento meccanismi emotivi e sentimentali che si erano inceppati, di rivitalizzare spiritualmente persino le attività più astratte e complesse di pensiero.
Non è che si guarisce psicologicamente imparando a capire le cose o la verità delle cose, ma si guarisce se il contesto in cui determinate verità vengono apprese è un contesto di amore, di umana e solidale compenetrazione con specifiche esigenze soggettive di visibilità morale, di sentita condivisione spirituale di universali e inequivocabili princípi di giustizia. In sostanza, non sarà sufficiente che il nostro pensiero cessi di essere “un pensiero non pensato” com’è quello del pensiero comune.
In tal senso, per esempio, potrà anche accadere che esso smetta di pensare acriticamente che senza continua crescita economica non sia più possibile vivere adeguatamente, o che l’intelligenza delle persone possa essere definita in modo unilaterale o univoco quasi che non si dessero forme diverse e ugualmente qualificate di intelligenza, ma, per quanto questo incremento di senso critico e problematico conferisca un maggiore spessore qualitativo alla vita di chi riesca a beneficiarne, non è che esso sia ancora sufficiente a garantire in chicchessia una reale capacità di conferire senso all’esistenza.
Se la vita interpersonale, la vita sociale ed economica, la vita politica, la stessa vita culturale, non vengono umanizzate con stili di vita personali, comportamenti o atteggiamenti istituzionali realmente e non falsamente umanizzanti, non ci sarà mai una “consulenza intellettuale” capace di porre persino le coscienze più avvedute e criticamente attrezzate di evitare certe tragiche derive esistenziali.
Vorrei dire a Galimberti: hai voglia di leggere libri, di incamerare conoscenze, di acquisire strumenti sia pure preziosi di analisi! Se non ti senti amato, per quanto il tuo ruolo culturale e sociale istituzionalmente riconosciuto possa essere prestigioso, se non ti senti rispettato, se non ti vedi utilizzato per le competenze che hai, se non ti senti esistenzialmente utile, se non riesci a concretizzare il tuo desiderio di appagamento morale, ti sembrerà di brancolare nel buio e sarai tentato di pensare che sarebbe stato meglio non essere nati. Finirai cosí per adottare una condotta di vita sempre più contorta e irregolare e forse per compiere anche atti manifestamente ma inspiegabilmente irrazionali. La tua vita, per molto gratificata che possa risultare dal punto di vista economico, potrà sembrarti priva di senso e degna di non essere vissuta, sino al punto di assumere mentalmente e praticamente un modello nichilista e fondamentalmente improduttivo di vita.
Anche se non sarai un uomo passivo ma un uomo attivo, capace di esercitare criticamente la tua razionalità e di avere un pensiero non regressivo ma aperto al futuro, non sarai ancora immune dal lasciarti andare a pratiche insensate e asociali di vita anche se nascoste dentro una montagna di conoscenze e di competenze illusoriamente custodite o vanitosamente ostentate e agitate come strumento di una frustrata volontà di potenza.
Se non credi e non vivi con Cristo, in Cristo e per Cristo, nessuna esperienza umana, neppure quella culturalmente più elevata e ineccepibile, ti potrà consentire di dare senso alla tua vita e alla vita tout court. Per credere e vivere di Cristo non sono richieste né tecniche di apprendimento né speciali consulenze intellettuali né applicazioni spirituali particolarmente faticose, ma solo tanta vera e non retorica umiltà insieme ad un po’ di riconoscenza e di diligenza, perché, come dice sant’Agostino nell’omelia 34: «Non ti è detto: sforzati di cercare la via per giungere alla verità e alla vita; non ti è stato detto questo. Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te e ti ha scosso dal sonno; e se è riuscita a scuoterti, alzati e cammina!».