Lo sguardo apostolico
Sia pure in ambiti e a livelli diversi, apostoli, cioè inviati da Dio a proclamare il vangelo ad ogni creatura (Mc 16, 15), sono tutti, siamo tutti. Non c’è battezzato che non abbia per ciò stesso il compito di annunciare e testimoniare il vangelo con le parole e con tutta la propria vita. E non è detto che, nel disegno redentivo di Dio, il gruppo storico dei 12 apostoli, solo perché prescelto da Gesù, fosse destinato in linea di principio a ricevere da Dio un destino più glorioso e privilegiato di quello riservato a tutti gli altri suoi seguaci.
Tant’è vero che uno di loro, Giuda, muore suicida per aver tradito il Signore, e che un altro discepolo, ovvero Mattia, non nominato da Gesù e a ben vedere neppure dagli undici apostoli rimasti ma semplicemente estratto da essi a sorte, dopo la Pentecoste lo sostituisce. Per non dire di Paolo, l’apostolo delle genti, che si aggiunge dopo la morte di Cristo al gruppo apostolico per volontà stessa di Cristo pur essendo stato precedentemente un suo accanito persecutore, e infine degli “altri settantadue”, inviati in tutto il mondo a predicare (Lc 10, 1).
Il Signore nostro, che naturalmente disponeva anche di eccezionali capacità organizzative, previde e disegnò anzitempo il configurarsi della sua Chiesa nella storia: prima fonda la sua Chiesa in funzione itinerante inviando i dodici (come le tribù israelite) al popolo di Israele, poi, con l’invio degli “altri settantadue”, prefigura la missione universale di tutta la Chiesa.
Il che significa che la Chiesa “visibile”, “istituzionale” o “gerarchica”, non è stata legittimata a rivendicare alcun particolare privilegio spirituale rispetto a tutti coloro che, pur dovendo amarla come la loro stessa Chiesa, si adoperano principalmente nella Chiesa “invisibile”, “spirituale” o “carismatica” che presuppone la prima ma in essa non si esaurisce, cosí come la funzione magisteriale e regolamentativa della Chiesa-istituzione è tenuta ad attingere continuamente dalla ricchezza spirituale della più ampia ed articolata vita ecclesiale.
Nessuno dunque si salva per il posto che occupa nella Chiesa, ma ogni battezzato, a prescindere dalla funzione o ruolo esercitato in seno ad essa, si salva o può salvarsi solo per la sincerità e l’intensità della sua fede e per le opere compiute nel nome e per conto del Signore Gesù.
Per primo fu sant’Agostino a distinguere tra Chiesa come società visibile (Ecclesia carnalis) o gerarchico-istituzionale e Chiesa come società dei santi o Ecclesia spiritualis, pur subito precisando che tale distinzione non potesse in nessun caso trasformarsi in separazione. Egli, con tale distinzione, intese mettere a fuoco una differenza di livello, nel senso che la Chiesa non è solo quella visibile dei papi, dei vescovi, dei preti, dei teologi ufficiali e degli stessi concili ecumenici, dei riti ufficiali e delle assemblee ecclesiali periodicamente convocate e riunite, ma anche quella invisibile degli assenti, dei defunti, degli angeli, dei “profeti” inascoltati, della presenza continua e reale e non semplicemente postulata di Dio, di una moltitudine di eventi non da tutti riconosciuti ma realmente dovuti alla grazia e alla misericordia di Dio stesso.
Puo cosí accadere, osserva Agostino, che si possa essere dentro la Chiesa visibile e istituzionale ma essere fuori della Chiesa invisibile o spirituale o, al contrario, essere visibilmente fuori della Chiesa ma spiritualmente dentro di essa. In proposito, dice significativamente Agostino nell’omelia 45: «Quanti lupi sono dentro l’ovile (della Chiesa) e quante pecore sono fuori di esso!».
E’ impressionante ma è cosí, perché una Chiesa terrestre che smarrisca o riduca il contatto con la Chiesa celeste, ed è quello che accade molto spesso sia storicamente sia pure nel quadro delle nostre singole esistenze individuali, è o sarebbe in realtà non più la Chiesa di Dio e voluta da Dio ma una Chiesa di uomini e voluta da uomini o a scopi meramente consolatori ed edificanti oppure a scopi di potere o comunque di personale utilità.
A ciò va aggiunto naturalmente il caso evangelicamente emblematico del fariseo e del pubblicano, ovvero dell’uomo religioso praticante “autosufficiente” e del peccatore pentito che sentendosi realmente indegno e piccolo di fronte al Signore entra nel tempio in punta di piedi e senza rivendicare consciamente o inconsciamente meriti particolari: il primo, oggi, è ancora parte integrante di una religiosità istituzionale priva o carente di reale spiritualità, di una Chiesa frequentata e celebrata ma non vissuta e attuata, mentre il secondo continua ancora a simboleggiare la figura del credente che, consapevole dei suoi limiti e realmente contrito, rivolge al Dio vivente o vivo una umile e silenziosa supplica di perdono e di aiuto.
La Chiesa è di carne, ma è chiamata a vivere secondo lo Spirito, lo Spirito che peraltro non annulla la carne ma la nobilita e la esalta trasfigurandola progressivamente proprio perché lo Spirito di Dio si è incarnato per salvare e non per condannare la carne stessa; la Chiesa è chiamata a vivere nel mondo ma non ad operare per il mondo o secondo il mondo pur occupandosi formalmente e ufficialmente di cose spirituali.
Sta a tutti coloro che come battezzati e a vario titolo ne fanno parte, essendo tuttavia essi stessi Chiesa, fare in modo che la Chiesa storica, senza confondersi con uno dei tanti poteri terreni, non rinunci mai non solo alla sua ordinaria e preziosa funzione magisteriale e sacramentale ma anche e soprattutto alla sua originaria e divina vocazione profetica che, come tale, non può alla lunga legittimare certo diffuso conformismo religioso ma deve inevitabilmente procurare inquietudine e crisi nella coscienza di credenti e non credenti.
Pertanto, non solo i dodici seguaci storici di Gesù e per estensione non solo l’ordine sacerdotale di ogni tempo, ivi compreso il collegio apostolico e cardinalizio, ma tutti i suoi seguaci di ogni epoca storica sono stati chiamati in definitiva ad assumere uno sguardo apostolico: lo stesso sguardo di Gesù su uomini e donne che, pur religiosamente istruiti e capaci di una fede dottrinaria e rituale in Dio, siano intimamente bisognosi di sentire il divino presente nella loro stessa umanità, pronto a corrispondere ai loro bisogni vitali, a bisogni spesso nascosti, a bisogni non solo materiali e psicologici ma a bisogni coincidenti con l’aspirazione interiore e non necessariamente espressa a parole a vivere e a rinascere in un mondo di perfetta e divina giustizia.
Lo “sguardo apostolico” è uno sguardo particolare e tale da non potersi confondere con altri tipi di sguardo. Si danno infatti molti modi di guardare agli altri: gli uomini d’affari negli altri vedono dei consumatori, i politici dei possibili sostenitori, i commercianti dei clienti, gli operatori dei massmedia degli utenti, gli artisti dei fans. Questi sono tutti sguardi superficiali che riducono gli altri al profitto o all’utile che ne possono trarre per sé. Invece l’apostolo è colui che guarda agli altri cercando di percepire o decifrare, con discrezione e non ostentata sensibilità, e in modo del tutto disinteressato e caritatevole, i veri problemi di ogni individuo, le reali esigenze di ogni persona, il vissuto inconfondibile di ciascuno, di ogni “prossimo” non astratto e generico ma concreto e specifico, anche se è un “prossimo” credente, battezzato, cresimato, assiduamente partecipe del sacramento eucaristico e persino ministerialmente impegnato nell’esercizio di determinate funzioni religiose.
L’apostolo è colui che guarda gli altri non per averne un ritorno personale di qualunque genere, ad eccezione di quell’unico ritorno spirituale che consiste nell’essere fedeli a Dio attraverso un atteggiamento di servizio all’altro e non di accaparramento dell’altro, ma solo per offrire se stesso in cambio di niente.
Purtroppo, non solo i falsi apostoli ma anche i veri apostoli, di ogni ordine e grado, sono soggetti alla tentazione sempre incombente di fare un sottile uso strumentale degli altri: e ciò accade tutte le volte che l’apostolo, sia pure nel nome della carità evangelica, ripone nell’altro determinate sue aspettative personali o guarda all’altro come fonte di possibile gratificazione psicologica o, peggio, come opportunità di soddisfare un desiderio vanaglorioso e perverso anche se non dichiarato di dominio psicologico sugli altri.
Tuttavia, il vero apostolo, uomo o donna, presbitero o laico che sia, è capace di resistere a questa temibile tentazione o di riaversi prontamente da eventuali e occasionali cedimenti ad essa, con una intensa attività di preghiera e un virtuoso esercizio di costante purificazione della propria vita interiore. Insomma, l’apostolo è colui che, pur se difettoso e limitato, sa donare Dio, che è appunto il privilegio di chi si sente amato da Dio e ama gli altri in Gesù, cioè colui che tendenzialmente, come Gesù, ha lo stesso sguardo di Dio.