La fede come festa
La festa è una dimensione essenziale dell’esistenza. Ma come, si dirà, nell’imperante e iperpermissiva società del divertimento, in cui si organizzano e si succedono freneticamente feste di ogni genere, noi continuiamo a parlare di festa come se non ci fossero cose molto più serie a cui pensare e come se non fosse invece il caso di proporre qualcosa di più serio ed essenziale per la vita di ognuno di noi e della società? Il fatto è che la festa, qualunque cosa succeda in questo mondo e quali che siano i comportamenti degli individui e dei popoli, da un punto di vista evangelico non è mai marginale nella vita delle persone né è posta a conclusione della loro esperienza terrena, ma è posta sempre al centro dell’esistenza personale perché non c’è momento in cui non ci si possa o debba incontrare con Dio e celebrare gioiosamente il suo smisurato amore per noi.
Se è vero che la nostra vita è una continua ricerca di valore, di senso, di amore, essa è altresì una continua ricerca della festa, perché incontrare Dio è una festa, è un immergersi in una gioia senza fine che non può non essere celebrata ininterrottamente nel corso dell’esistenza stessa, sia pure tra le piccole e grandi contrarietà che vi sono connaturate. Prendiamo l’emblematica parabola del Padre misericordioso (Lc 15), che è la storia di due figli, ovvero di due modi di vivere e di stare al mondo.
Entrambi i figli hanno una grande sete di libertà e di vita e quindi per l’appunto di festa. Il figlio minore vuole gustare la vita rompendo ogni relazione d’amore con il Padre, il figlio maggiore invece decide di starsene con il Padre ma senza gustare nulla, né l’amore del Padre che egli dà per scontato né i cibi prelibati e le danze che quello stesso amore viene implicando per festeggiare il ritorno del figlio ingrato.
Anche noi, oggi, siamo soggetti a questa duplice tentazione: da una parte la ricerca di sensi tutti terreni della festa, smarrendone o avendone smarrito “il senso”, dall’altra il possesso del senso ma anche l’incapacità di viverlo concretamente nei sensi. Da una parte la ricerca di tutto ciò che può colpire, accendere, sedurre i sensi (della vista e dell’udito, dell’odorato e del gusto, della stessa predisposizione naturale a ogni possibile godimento, ivi compreso quello sessuale), e la rivolta contro tutto ciò che conferisce realmente senso alla nostra ricerca di felicità; dall’altra l’orgoglioso possesso di princípi, valori, norme, che conferiscono solidità alla fede e consentono di cogliere le giuste finalità della vita, in un mondo caotico e dispersivo, superficiale e permissivo, licenzioso e corrotto, ma anche la totale incapacità di comprendere le altrui difficoltà, di perdonare gli erranti, di provare gioia per tutti coloro che sappiano ritrovare la giusta via e di festeggiare per l’appunto il loro ritorno sulla via della verità e dell’amore.
Anche le nostre comunità parrocchiali, in un certo senso, riflettono bene questa storia: a volte esse sono cosí aperte al mondo, alle sue novità, alle sue istanze di liberazione civile e sessuale, alle sue festose celebrazioni mondane, da interiorizzarle e trasferirle al loro interno senza neppure avvedersene sino a trasformare tutte le proprie attività ecclesiali, liturgiche e spirituali in una religiosità più che altro esteriore e adoperata per completare il proprio arredo di buone abitudini psicologiche e civili, per cui la fede non viene vissuta festosamente se non in occasione di determinate festività religiose, di particolari festeggiamenti parrocchiali o comunitari, di processioni rituali o di avvenimenti di tipo per cosí dire istituzionale ripresi possibilmente in televisione o, ancora meglio, in mondovisione. Quando si è presi troppo dal mondo, si finisce inevitabilmente, anche come credenti o comunità religiose, per cercare la festa non nella fede ma oltre la fede, non nella preghiera ma in un attivismo religioso tutto mondano che dà spesso l’illusione di essere buoni credenti, non nella carità silenziosa e dimessa ma in attività caritative più esibite o propagandate che realmente vissute ed esercitate.
Altre volte, le nostre comunità sono invece molto serie, composte e, se non propriamente chiuse al mondo e alle sue vicende, molto assorbite dall’ascolto della Parola di Dio e dalla sincera preoccupazione di metterla in pratica: talvolta, però, cosí assorbite da non essere sempre pronti ad accogliere adeguatamente chi è diverso, irregolare o trasgressivo e tuttavia non pregiudizialmente contrario o ostile ad un’esperienza di fede. Si tratta qui di comunità molto sicure della propria fede, talmente orgogliosamente sicure che mal tollererebbero il caso di un grande peccatore fulminato sulla via di Damasco che un giorno qualcuno volesse onorare con apprezzamenti e lodi inusitati e persino superiori a quelli tributati ai membri ordinari più integri e fedeli della stessa comunità.
Forse le comunità parrocchiali e diocesane non sono proprio cosí monolitiche o univocamente caratterizzate come quelle qui rappresentate, forse nelle comunità reali è più facile trovare esponenti di entrambe le tipologie in esame. Ma lo scopo della semplificazione era ed è quello di sottolineare come in effetti non sempre la festa di cui si nutre il cristiano sia rigorosamente in linea con quella contemplata da una fede realmente umile ed evangelicamente coerente. Non è sufficiente affermare che le messe esprimono la gioia della Risurrezione, che l’Eucaristia è la festa dell’amore di Dio per noi, che la domenica è il giorno più festoso perché celebrativo del Cristo risorto e di un giorno senza fine anche per noi. Tutto questo non è sufficiente se rimane sul piano delle idee o delle motivazioni catechistiche, se non entra nell’ordine delle nostre emozioni, delle nostre percezioni e delle nostre azioni: è necessario che la festa, per esser vissuta come tale, coinvolga i sensi convogliandoli verso il senso.
La festa consiste proprio nell’incontro dei sensi con il senso, la sua logica non è una logica astratta che apparterrebbe solo all’anima ma una logica che fa tutt’uno con la logica del corpo, della complessiva sensorialità corporea nella forma del desiderio e dell’anticipazione simbolica: la festa, infatti, non prescinde dai bisogni elementari del corpo (fisico e sociale), ma muove da essi per orientarli al desiderio di un “di più” di vita, di cui gli stessi bisogni sono simbolo. «La festa», ha scritto don Paolo Tomatis, «accende i sensi, perché la vita ritrovi senso; dà voce nei bisogni del corpo ai desideri dello spirito: coinvolge gli elementi della creazione e i linguaggi dell’arte, per fare della vita stessa un’opera d’arte» (La festa dei sensi: Eucaristia, festa e vita quotidiana, Relazione al XXV Congresso Eucaristico Nazionale, Osimo, 7 settembre 2011).
Per questo Gesù partecipava sempre alle feste, a quella delle nozze di Cana o nella casa di Betania, nella casa di Levi, di Zaccheo e di Simone il fariseo: sempre all’interno di uno spazio chiuso, come una casa o un cenacolo, perché festa significa intimità, condivisione personale di qualcosa che accomuna non in modo generico e indeterminato ma in modo fraterno e spiritualmente circoscritto, partecipazione fisica ed emotiva a un banchetto di cibi prelibati e vini raffinati che stimolino la parola e l’allegra conversazione tra gli invitati e che appaghino tanto la loro mente quanto il loro corpo e appunto i loro sensi.
La fede è sempre festiva, serena, fiduciosa, gioiosa, straordinaria, esultante, espansiva, partecipativa, anche se la gioia che esprime non è quella dell’esaltato, dell’allucinato o del fanatico ma quella di una persona combattiva ma equilibrata, determinata a testimoniare il vero ma non intollerante e ad operare per la giustizia ma senza violenza. La fede non è mai feriale, cioè scontata, ordinaria, banale, noiosa, perché essa veicola una costante aspettativa psico-fisica di novità, di inatteso, di appassionante. La fede non si riduce naturalmente a senso elettrizzato sulla base di bisogni e speranze che derivano dai processi corporeo-materiali di cui consta la vita degli esseri umani, ma una fede senza festa, senza legami con i sensi e con esigenze e stati d’animo che ne conseguano, senza intimo coinvolgimento emotivo, è necessariamente una fede senza molto amore e senza senso, pur essendo forse intellettualmente in possesso del senso ultimo della vita stessa.
Naturalmente tutto questo, cosí come si contrappone a forme di spiritualità e religiosità orgogliosamente chiuse a qualunque interferenza o contaminazione di una quotidianità realmente vissuta e sofferta, allo stesso modo non può avere nulla a che fare con una sorta di sensualismo religioso o di religiosità estetizzante in cui non ci sia più spazio per l’accettazione esistenziale della solitudine e del dolore e infine della morte in un mondo che sembra volerli relegare nell’ordine di cose semplicemente ingombranti orientandosi piuttosto a celebrare vitalisticamente le effimere gioie dell’apparire e del possedere.
Se solitudine, dolore e morte, non venissero sensibilmente sperimentati nei nostri sensi non già nel quadro di un qualunque credo filosofico o religioso ma in quanto necessari corollari della fede nella Risurrezione del Risorto e in quanto roccioso portato della speranza cristiana in una vita ultraterrena, non potremmo gioire anche se o quando soffriamo, né amare anche se o quando siamo trattati come scarti umani, né infine sorridere anche se o quando l’idea e la realtà della morte che si avvicina sembrino segnare il nostro conclusivo fallimento e la fine di ogni nostra ricerca di senso. La fede è festa, in ultima analisi, proprio perché è certezza raggiante di felicità eterna in mezzo alle iniquità, agli inganni e ai patimenti di questo mondo.