Federigo Enriques e Piero Martinetti: ragione senza fede

Scritto da Maria Doris Ricci.


Ha scritto Massimo Cacciari che «Piero Martinetti appartiene ai pochi, ma  grandi “solitari” del pensiero italiano della prima metà del Novecento, capaci di opporsi drasticamente alla “doppia egemonia” crociana e gentiliana. Un altro nome mi viene subito in mente, quello di Giuseppe Rensi. Pensatori entrambi di statura europea, “in presa diretta” con le correnti della “grande crisi” che investiva i fondamenti di ogni disciplina scientifica e filosofica, e di quegli stessi sistemi dell’idealismo classico tedesco, che, invece, Croce e Gentile intendevano “riformare”. Entrambi, pur sulla base di diversissime ragioni, oppositori a viso aperto del regime fascista, fin dalla sua nascita, e perciò privati della cattedra nel ’31» (La solitudine del filosofo. Il vangelo senza la Chiesa secondo l’eretico Martinetti, in “La Repubblica” del 24 aprile 2013).

Questo giudizio di Cacciari contiene una grave omissione e un’imprecisione. L’omissione è che, per quanto riguarda la lotta all’egemonia crociano-gentiliana e alla relativa separazione tra sapere filosofico e sapere scientifico, insieme a Martinetti e Rensi deve essere citato necessariamente un altro pensatore di “statura europea”, che ebbe un grande successo internazionale non solo e forse non tanto come insigne matematico ma anche e soprattutto come filosofo della scienza, fondatore della celebre rivista “Scientia” che tanta importanza avrebbe avuto sia in ambito strettamente scientifico che in ambito filosofico nonché della Società Filosofica Italiana che, in contrasto con le posizioni di Croce e Gentile, avrebbe affrontato subito e molto validamente problemi di politica scolastica e culturale. Questo pensatore fu il livornese Federigo Enriques. Quanto all’imprecisione, essa consiste nel fatto che Rensi non fu privato della cattedra di filosofia morale nel ’31 come Martinetti e altri undici intellettuali e docenti universitari italiani, perché egli in realtà, dopo aver sottoscritto nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, avrebbe pagato questa scelta con la sospensione, nel 1927, dalla cattedra di filosofia morale all'Università di Genova, mentre, per la sua coerenza morale con i propri ideali di libertà che lo mettevano in rotta di collisione con il fascismo, sarebbe stato definitivamente allontanato dalla stessa cattedra nel 1934.

Opportune precisazioni a parte, dunque, non c’è dubbio che proprio Enriques e Martinetti furono indubbiamente, e rispettivamente sul versante filosofico-scientifico e filosofico-morale, i due più importanti esponenti di un impegno culturale volto ad affermare, ancora fortemente egemoni Croce e Gentile, i diritti di una ragione critica non unilaterale, non riduttiva, non ideologica, ma quanto più aperta possibile e capace di integrare problematicamente tutti i dati e gli aspetti del sapere e della realtà sia pure in funzione di prospettive conoscitive e morali, e anche religiose nel caso del filosofo piemontese, non indefinite o indeterminate ma sempre più universalmente circoscritte e specificate.

Enriques, che dovette lasciare la cattedra universitaria all’indomani delle leggi razziali del ’38, e Martinetti, benché sconfitti nel breve periodo, hanno lasciato una traccia indelebile della loro opera non solo nel successivo dibattito intellettuale ma anche nella vita civile del nostro Paese.

Enriques fu un grande “politico della scienza” e fu uno straordinario organizzatore di cultura e di cultura scientifica, anche se non partecipò mai alla vita politica attiva e il suo impegno politico, se cosí lo si vuol chiamare, fu talvolta di natura esclusivamente teorica, come nel caso di quel suo bel saggio del 1909 su “La teoria dello Stato e il sistema rappresentativo”, in cui pure veniva delineandosi brillantemente un’indagine sulle potenzialità e finalità etico-politiche ma anche sulle ambiguità e sulle possibili distorsioni inerenti le diverse forme della democrazia contemporanea.

In senso specifico, però, egli non assunse mai posizioni politiche ben definite o esplicite, come risulta bene dal fatto che egli non volle firmare né il “Manifesto degli intellettuali fascisti” promosso da Gentile, né quello degli intellettuali antifascisti promosso da Croce, «in nome di una neutralità estranea a ogni particolarismo sia nazionale che partitico e orientata da un cosmopolitismo intellettuale che vedeva nella scienza una vocazione pacifica e transnazionale» (Gaspare Polizzi). Tuttavia, in Enriques era chiaro il valore politico della scienza, nel senso che anche la scienza, in quanto potente strumento di trasformazione delle condizioni materiali e morali degli uomini oltre che “coscienza” del valore non puramente utilitario ma etico della ricerca scientifica della verità, conteneva un nucleo già apprezzabile se non uno dei nuclei più apprezzabili di politicità.

La scienza, con le sue esigenze logiche e metodologiche di continuo accertamento dei fatti e di totale indipendenza conoscitiva da criteri economici e politici, doveva aiutare i popoli della terra e i singoli individui a liberarsi gradualmente sul piano intellettuale e morale dai pregiudizi e dagli errori del passato e ad affrancarsi sul piano sociale da numerose e ancora persistenti iniquità. Quella di Enriques cosí era una fede nella ragione, nella capacità razionale degli uomini di andare al cuore delle cose oltre ogni pur sempre possibile mitologia metafisica o religiosa e oltre ogni distorsione ideologica.

Anche quella del religiosissimo filosofo laico Piero Martinetti fu una vera e propria fede nella ragione in quanto motore quest’ultima di una progressiva liberazione spirituale dal falso e dal male, una fede talmente illimitata che in lui fede e ragione finirono per coincidere, nel senso che da un ordinato e progressivo svolgimento critico-problematico della razionalità potesse derivare e rigenerarsi costantemente la fede in un ordine razionale sempre più ricco di significato conoscitivo e di valore morale.

Centrale nella sua filosofia sarebbe stata la riflessione sull’esperienza religiosa e sul cristianesimo; la religione in lui, come detto, assolve la stessa funzione liberatoria che in Enriques era svolta dalla scienza, essendo essa una forma essenziale della ragione stessa, una forma essenziale che viene assumendo il processo di liberazione della ragione e dello spirito umano nel loro tendere inesauribilmente verso quella suprema unità del nostro sapere con l’eterno logos il quale ultimo funge da presupposto metafisico e supremo punto di arrivo di ogni possibile attività umana, di ogni possibile sintesi di soggetto e oggetto, di sapere e natura. Tale perfetta e suprema unità tra il conosciuto e il non ancora conosciuto, tra il bene già fatto e il restante bene ancora da fare, è ciò che per l’appunto l’esperienza religiosa, nella sua inesauribile interrogazione, viene non già staticamente e definitivamente realizzando ma continuamente e dinamicamente postulando.

In questo modo, però, la tradizionale fede religiosa veniva ad essere totalmente laicizzata sino a configurarsi come semplice momento interno e costitutivo di una razionalità trascendente e aperta a sintesi unitarie sempre più ampie e complete di esperienza e di sapere, di conoscenza e di moralità: ne derivava che il cristianesimo non potesse più avere alcun fondamento storico o “positivo” ma fosse pura religione spirituale preposta a garantire un ininterrotto processo di liberazione da ogni condizionamento terreno e da ogni criterio o norma storico-contingente suscettibili di imporsi o contrapporsi all’interiorità della nostra coscienza personale.

Martinetti cosí procedeva ad una contrapposizione, in vero piuttosto schematica e semplificatoria, tra Chiesa spirituale e profetica e Chiesa istituzionale e mondana, tra una spiritualità interiore e una spiritualità esteriore dell’esperienza religiosa, operando altresí una vera e propria “razionalizzazione” di ogni contenuto del messaggio evangelico e della fede cristiana, per cui, attraverso una sorta di presunta “demitizzazione” dei racconti evangelici, finiva per approdare ad una concezione non più realistica ma esclusivamente spirituale dell’incarnazione del Logos divino e di tutti i temi evangelici dell’immortalità, della risurrezione, del comandamento verticale ed orizzontale ad un tempo dell’amore di origine “trinitaria”. Con Martinetti cioè la fede cristiana perdeva quel senso di paradossalità che è invece caratteristica ineliminabile della parola stessa di Cristo, diventando kantianamente fede da intendersi «nei limiti della sola ragione». Come dire: l’etica cristiana ridotta ad “etica” e a “cultura” sia pure di portata universale.

Da una parte Enriques, come ha scritto Polizzi, «avvicinando coerentemente matematica, filosofia, storia, pedagogia e organizzazione della cultura, ha offerto all’Italia del primo Novecento un modello ‘alto’ di intellettuale, unendo idealità e concretezza, la competenza del savant e l’apertura ragionata alla dimensione pubblica, sempre abbinata a una forte vocazione pedagogica» e, in pari tempo, ha trasmesso alla cultura del nostro tempo la consapevolezza che l’etica della ricerca scientifica e razionale non è un’etica chiusa in se stessa e ininfluente sugli altri aspetti della vita civile ma un’etica che, ove non sia intesa in modo parziale e distorto, concorre a modellare l’habitus mentale e morale dell’uomo che, vivendo oggi nella “società di massa”, è particolarmente esposto al pericolo di pensare e vivere acriticamente e conformisticamente le fondamentali dimensioni del suo essere e del suo agire. Dall’altra Martinetti ha proposto una razionalità e un’etica razionale realiste ma non rinunciatarie, radicate nella concretezza determinata dell’esperienza e della storia individuali e collettive ma non identificabili con forme chiuse e parziali di pensiero e di vita, soggette anche alla sconfitta nell’eterno conflitto con le forze irrazionali del mondo ma mai disposte a desistere dalla lotta e dalla volontà di lavorare all’avvento di un mondo migliore.

Io sono stata fortunatamente, nel corso degli anni ’70, un’allieva liceale del professor Francesco Luciani, che ho ritrovato per caso in questo bellissimo sito mariano con il nome devozionale di “Francesco di Maria” e di cui avevo già letto diversi anni fa un volume filosofico di rara bellezza speculativa oltre che di rigorosissima ricostruzione esegetica delle personalità filosofiche di cui in esso si occupa (Maestri di morale, Brenner, 1999). Tra queste personalità ci sono anche quelle di Enriques e Martinetti, alle quali il professor Luciani ha dedicato due lunghi, articolati e originalissimi saggi che esprimono quanto di meglio esiste nell’odierna e pur vasta letteratura critica enriquesiana e martinettiana.

Occupandomi oggi, tra l’altro, anche di filosofia italiana del novecento, mi sembrava doveroso dedicare anche a lui con affetto e riconoscenza quest’articolo, dopo avergli chiesto molto insistentemente (a causa della sua cortese ma comprensibile riluttanza) di ospitarlo per l’appunto nei suoi “fogli mariani”, ben sapendo che il suo odierno cattolicesimo militante non gli impedisce di apprezzare modelli di razionalità cosí poco scontati e ancor oggi in buona parte “inattuali”, per lo stesso mondo cattolico, come quelli lasciati da Enriques e Martinetti, anche se ambedue privi di quella che Francesco di Maria ritiene essere a giusta ragione una necessaria dimensione di pura fede nella natura divina di Cristo e nella sua opera realisticamente e non solo simbolicamente salvifica.