Charlie e i cattolici

Scritto da Francesco di Maria.

I cattolici sono liberi di non sposare lo slogan “je suis Charlie”, se ritengono in coscienza che tale scelta comporti necessariamente la condivisione di un uso offensivo e dissacrante del principio laico di libertà in virtù del quale si consideri lecito esercitare ironia o  sarcasmo in modo indiscriminato persino nei confronti del sacro e di ogni forma di religiosità. Ma in coscienza un cattolico, come per esempio lo scrivente, può altrettanto legittimamente proporre un diverso e più articolato approccio al problema della libertà di opinione, di espressione e di stampa, e alla fine della libertà tout court, innanzitutto perché la satira dei giornalisti assassinati di Hebdo non ha prodotto solo vilipendio, dileggio, bestemmia, blasfemia o volgarità ma talvolta anche effettiva demistificazione, utile antidogmatismo, richiamo sia pur caustico a valori di tolleranza e apertura mentale e a princípi di convivenza civile e democratica.

I cattolici non possono che sentirsi giustamente urtati da talune rappresentazioni sarcastiche ma obiettivamente arbitrarie della loro fede e della loro Chiesa, ma essi sanno che al male bisogna rispondere con il bene, ivi compresa la possibilità di ricorrere a loro volta a forme e strumenti di critica culturale capaci di mettere in ridicolo la supponente saccenteria o la pretenziosa intelligenza creativa degli intellettuali francesi senza per questo recare offesa alla loro dignità personale.

Ma, anche volendo prescindere dal fatto che invece verso il mondo islamico i vignettisti francesi erano stati abbastanza veritieri nella rappresentazione sia pure oltremodo mordace della sua presunta religiosità, i cattolici sanno benissimo che la menzogna, l’offesa gratuita, la falsa testimonianza, la superbia ipocrita e la diffamazione, l’empietà e il comportamento sacrilego, non devono essere estirpati, tranne che in virtù del possibile e legittimo ricorso a specifiche leggi vigenti di una determinata autorità statuale, con la forza, con la violenza, con l’omicidio, ma con le armi pacifiche anche se pungenti e destabilizzanti della intelligenza, della mitezza e della fermezza, dell’appassionata ed ostinata testimonianza della propria fede in Cristo.

Infatti, come insegna Gesù: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”» (Mt 13, 24-30)».

Gesù ci raccomanda di non reagire violentemente, distruttivamente, brutalmente o disumanamente all’arroganza, alla prepotenza, alle minacce e persino alla persecuzione di quanti vogliono il male dei suoi seguaci, anche se il suo monito non deve affatto intendersi come una resa incondizionata alla altrui malvagità e come passiva e rassegnata accettazione della fanatica e beluina volontà altrui di sopraffazione e di dominio. Il cristiano, pur essendo chiamato ad impegnarsi con l’intelligenza della mente e del cuore per il bene, la verità, l’amore, la giustizia, il perdono e la pace, non deve pretendere di sradicare con qualunque mezzo la corruzione e il marciume del mondo, perché egli è chiamato ad elevarsi spiritualmente attraverso un continuo superamento della propria istintività e di quella bestialità omicida che è sempre in agguato in ogni essere umano. Satana, che sarà sempre all’opera fino alla fine del mondo, vorrebbe in tutti i modi coinvolgerlo in atteggiamenti e in atti vendicativi di particolare cattiveria, per dimostrare che i precetti divini non sono umanamente praticabili e che la stessa opera salvifica di Cristo è stata inutile o meramente illusoria.

Questo non significa naturalmente che, là dove il problema sia quello di difendere la vita di persone innocenti e inermi o la dignità di masse umane oppresse, il cristiano che abbia delle precise responsabilità di governo o sia preposto a garantire la sicurezza sociale dei cittadini non debba provvedere a porre in essere contro gli aggressori, i violenti, gli assassini, provvedimenti adeguati e ben commisurati ai pericoli o alle minacce che si devono fronteggiare. Dio e il suo Cristo riconoscono piena legittimità a Cesare ovvero allo Stato quando esso eserciti i suoi poteri coattivi non per nuocere al popolo ma per proteggerlo e preservarne la libertà di pensiero, di coscienza e di culto oltre che il diritto ad un’esistenza dignitosa sotto ogni altro aspetto morale e spirituale e al soddisfacimento di elementari necessità materiali di vita.

Ciò detto, sino a quando si abbia a che fare con forme più o meno accentuate di ateismo laico incruento (com’era nel caso dei poveri redattori del settimanale “Charlie Hebdo”) o di religiosità retriva ed esasperata (si legga anche, se si vuole, fondamentalista) ma non ancora intollerante e violenta (come avviene persino nel caso di alcuni settori o movimenti cristiani e cattolici), il cristiano, pur essendo tenuto ad esercitare costantemente e attentamente la sua capacità di vigilanza e di testimonianza secondo le specifiche attitudini e competenze di cui dispone, non può e non deve peccare di preconcetta avversione e di animosità verso tutti coloro che mettano in discussione spesso in malafede o addirittura disprezzino e deridano la sua religione, la sua fede, anche perché è proprio o principalmente tra “i lontani da Dio” che egli è chiamato a compiere la sua opera evangelizzatrice e a testimoniare il suo spirito di carità.

Chi scrive si è sentito Charlie non per aderire ad una mentalità e ad una cultura a lui e alla sua fede piuttosto antitetiche, ma semplicemente per rivendicare cristianamente la legittimità per ogni individuo di esprimersi liberamente e pacificamente secondo le leggi previste dalla sua comunità statuale e sociale di appartenenza anche ove venga affermando idee terribilmente offensive non solo verso le altrui convinzioni religiose ma verso il Cristo Salvatore, che come molti sanno poteva distruggere con un soffio delle labbra i suoi irridenti e sacrileghi carnefici ma volle morire anche per loro. Chi scrive si sente Charlie anche nel senso che, mutatis mutandis, tenta di assolvere, nel nome e per conto della sua fede, una funzione critica e demistificante, diversa ma non meno urticante di quella esercitata dai giornalisti parigini, nei confronti dei tanti “atei giulivi” esistenti al mondo non meno che verso qualsivoglia forma di falsa religiosità come lo è, giusto per rimanere alle grandi cosiddette religioni monoteistiche e sia pure per motivi diversi, l’ebraismo o l’islamismo coranico, ambedue manifestamente religioni anticristiane.

Benché ci si attardi ancora a parlare in un modo sempre più insopportabilmente equivoco di “dialogo interreligioso”, non c’è infatti dubbio circa il dovere spirituale del mondo cattolico di denunciare pubblicamente, senza preoccupazioni di natura utilitaristica o opportunistica, quel che intere generazioni di storici insigni hanno messo in chiaro nel corso dei secoli in particolare sulla “religiosità e sulla civiltà musulmane”, vale a dire la matrice storico-dottrinaria violenta e sanguinaria del credo maomettano e coranico-islamico oltre che la totale inattendibilità religiosa di un personaggio storicamente importante ma spiritualmente e civilmente devastante come Maometto.

Su questo punto specifico un cristiano non può tacere in nome del “politicamente corretto” o di non meglio precisate preoccupazioni per la condizione e la sorte dei cristiani che vivono o vivevano, prima di essere massacrati o scacciati, nelle terre islamiche. Può darsi che lo stesso papa Francesco, vivendo la problematica dei cristiani e dei cattolici residenti in Stati islamici in qualità di capo della Chiesa e quindi con un’apprensione e un senso di responsabilità comprensibilmente superiori a quelli di qualunque altro cristiano, sia portato a fare ai musulmani delle concessioni inconsce, o per meglio dire non volute tanto sotto l’aspetto dottrinario quanto sotto quello psicologico e spirituale, ma forse buon cattolico è anche chi in questo momento storico cosí drammatico cerca di stargli amorevolmente vicino senza rinunciare a trasmettergli o partecipargli la sua diversa posizione al riguardo anche perché consapevole di come, a furia di voler dialogare ecclesialmente in questi ultimi decenni con tutti e con gli stessi musulmani, non solo non siano migliorate le condizioni di vita dei cristiani sparsi nel mondo ma visibilmente peggiorate.

Il papa, infatti, da una parte ha negato legittimità a qualsiasi forma di violenza e più segnatamente a quella che si ritiene di poter esercitare “in nome di Dio”, con un’allusione molto netta al cosiddetto “fondamentalismo o estremismo islamico”, ma dall’altra ha forse ceduto alla debolezza umana di giustificare l’irritato e violento risentimento del mondo musulmano in rapporto alle offese che Charlie Hebdo avrebbe arrecato, secondo lui, al profeta Maometto, adducendo motivazioni che francamente fanno a pugni con gli insegnamenti canonici ultrasecolari della Chiesa: “Se uno insulta mia madre, io gli dò un pugno”, ha detto il papa in una intervista giornalistica rilasciata in aereo mentre volava verso Manila, aggiungendo poi in modo fin troppo emotivo: “è naturale, è naturale!”.

Sarà "naturale" ma di certo non è cristiano! Papa Francesco sa bene che un cristiano, se uno gli insulta la madre, lo denuncia a chi di dovere o al più (ed è già troppo) lo ripaga con la stessa moneta, ma poi e poi mai potrebbe sferrargli un pugno o ammazzarlo senza infrangere il comando supremo di Gesù: quello dell’amore oltre ogni offesa. D’altra parte, è impensabile che papa Francesco, che tante cose buone sta dicendo e facendo per la nostra amatissima Chiesa, possa considerare Maometto un vero profeta e l’islam una religione piuttosto che una semplice e grossolana eresia, per cui è molto probabile che lui per primo sarebbe disposto a riconoscere che il cristiano che dica a voce alta e senza toni deliberatamente provocatori che i musulmani credono in realtà in un Dio fasullo non sia da biasimare ma semmai, costi quel che costi, da apprezzare per il coraggio di testimoniare coerentemente la sua fede in un mondo sin troppo sensibile alla doppiezza e al pavido conformismo.

Quelli di Charlie ci hanno rimesso la vita per tener fede al proprio ideale di laicità e i cristiani per quale motivo non dovrebbero emulare Charlie per tener fede alla loro profonda appartenenza a Cristo?