Maria: la fede come dono e come conquista

Scritto da Maria Lucia De Maddis on .

 

La fede per Maria fu un grandissimo dono di Dio e un privilegio che egli volle concederle perché pensata da sempre come la creatura che avrebbe dovuto generare la divinità stessa nel mondo e nella quotidianità degli uomini. Ma non si deve pensare che Maria poté amministrare questo dono e questo privilegio con la disinvolta sicurezza di chi presume che non gli possa capitare niente di male e che le sue sofferenze saranno molto semplificate. Al contrario la sua vita fu particolarmente carica di preoccupazioni e di drammi venendo in gran parte a coincidere con la vita movimentata e drammatica del Figlio il quale pure era stato frutto della sua fede in Dio. Alla gioia immensa che Dio le accordò entrando nella sua vita corrispose non una serena imperturbabilità del suo cuore ma piuttosto la continua sollecitazione della coscienza a capire il senso degli avvenimenti che venivano verificandosi accanto a lei e in lei medesima. La sua fede cosí finí per trasformarsi in una vera e propria apertura alla continua conoscenza della volontà di Dio, in una continua conquista di verità e di amore.

Quale dovette essere lo stato d’animo di Maria quando proprio l’intervento di Dio, che ella comprensibilmente e festosamente volle magnificare con bellissime parole di lode e di riconoscenza, ne mise inizialmente in crisi la relazione con il suo promesso sposo Giuseppe, o quando si dovette scoprire lei stessa evangelizzata da semplici e sconosciuti pastori e successivamente nel tempio da inedite profezie? E, soprattutto, come si sarà sentita, pur conoscendo bene l’affetto del figlio verso di lei, quando dovette subirne pubblicamente il rifiuto o il rimprovero almeno apparente per essersi intromessa nelle cose di Dio (si pensi qui alle nozze di Cana), oppure quando davanti al figlio morente dovette accettare di diventare madre di altre persone da lei non direttamente generate?

L’illimitato favore divino non le risparmiò né l’incomprensione altrui né la propria e, come avviene ad ogni vero credente, anche per Maria fu più facile concepire Dio che convivere con lui per il resto della vita, anche se mai si lamentò di quella convivenza e men che meno desiderò di disfarsene. Fu cosí che poco per volta poté diventare un’esperta di Dio, una testimone autorevole, un’insuperabile evangelizzatrice che aveva avuto sempre l’umiltà di apprendere Dio anche dagli altri e in modo particolare dalle persone più semplici ed emarginate. Nessuno più di Maria fu aperto e può essere aperto ad un ascolto non aleatorio della parola di Dio, nessuno più di lei è capace di capire che la parola di Dio non viene comunicata ai fedeli solo attraverso canali per cosí dire istituzionali e attraverso persone ufficialmente preposte a comunicarla. Quand’era bambina probabilmente aveva imparato cose importanti anche da qualche buon religioso o da qualche sommo sacerdote. Ma non meno importante e di sicuro più coinvolgente era stato ciò che avrebbe potuto imparare successivamente, ad opera di poveri pastori analfabeti o di ingenui e candidi profeti come Simeone ed Anna.

Lei riuscì ad ascoltare la parola di Dio anche attraverso la testimonianza e l’annuncio di persone semplici o sconosciute perché fu realmente umile, vale a dire facendosi piccola dinanzi a certi annunci imprevisti e apparentemente inattendibili ed apprezzando senza ipocrisia i modesti portatori di certe notizie straordinarie. Proprio lei, che aveva sentito nitidamente la voce dell’angelo o di Dio stesso, non si montò mai la testa, non pretese in nessun momento di avere il monopolio della conoscenza di Dio o di ridurlo semplicemente all’esperienza pur decisiva che ne aveva e ne avrebbe sempre avuto personalmente. Ella accetta di essere madre dell’apostolo Giovanni non solo per obbedire al Figlio ma anche perché consapevole di dover ancora affinare la sua fede e la sua adesione alla divina volontà anche attraverso l’esperienza che Giovanni, in situazioni diverse da quelle in cui ella si era venuta a trovare, aveva potuto fare del suo stesso Dio.

D’altra parte il Dio generato da Maria è un Dio piccolo, un Dio che non si concede alla vista di chi non ha tempo da perdere per lui e per gli altri piccoli come lui, di chi è refrattario all’idea di dover andare a trovare Dio in una mangiatoia, ovvero in ambiti spirituali che si presume siano inferiori a quelli in cui si è soliti celebrare la grandezza di Dio sulla base di acquisizioni teologiche largamente consolidate.

I credenti non possono non imparare da Maria che la vita di Dio non è semplicemente in ciò che già si conosce o si ritiene di conoscere di lui, ma in un continuo e inesauribile processo di approfondimento della sua vera identità, in una conquista incessante di aspetti, di venature, di tonalità del suo Logos infinitamente poliedrico. Non possono non imparare da lei cosa sia la fede nel Signore e non renderla momento imprescindibile della loro fede in Dio. Maria è invecchiata come tutti ed è invecchiata continuando a lodare il suo Dio ma anche continuando a chiedergli con la coerenza stessa dei suoi pensieri e della sua condotta di manifestarsi sempre più chiaramente e gloriosamente al suo sguardo di donna bisognosa di vivere sempre e per sempre con lui. E’ noto che Dio avrebbe accolto questa sua preghiera ben oltre le aspettative stesse di Maria, innalzandola per l’eternità al rango di regina dell’universo e di tutti gli ipotetici universi creati da Dio, degli esseri celesti come degli esseri umani.

La fede dunque è un dono ma non è scontato che questo dono che viene già elargito nel momento della promessa battesimale, per quanto spesso sia compiuta in modo inconsapevole, debba produrre frutti necessariamente buoni. Se la fede è presunta acquisizione definitiva di Dio, o sistematico esercizio intellettualistico che ben poco conceda ad un fare esperienza sempre nuova e scompaginante di Dio, o mera propensione moralistica a catalogare rigidamente e inappellabilmente fatti e comportamenti, o anche disprezzo presuntuoso e deliberato di una adeguata istruzione religiosa, o infine espressione di un perfezionismo spirituale tanto ostentato quanto sterile o ininfluente sul piano delle relazioni sociali, se insomma la fede non è quella certezza che ci impone di metterci sempre in discussione pur nella fedeltà ai princípi della fede stessa, che ci sprona a migliorarci e ad affinare senza tregua la nostra fede in Dio, quale che sia la nostra condizione culturale e sociale, è difficile che le nostre preghiere possano giungere a Dio con la dovuta efficacia.