Chi era Gesù per Giacomo Biffi?*
Prendendo a prestito dalle «polizie di tutto il mondo, il concetto di “identikit”», il cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), nel suo libro Gesù di Nazaret centro del cosmo e della storia (Elledici) cerca di costruire la fisionomia di Gesù Cristo a partire dai racconti dei suoi contemporanei, dalla testimonianze di chi l’ha conosciuto, dai dati storici che sono in nostro possesso e lo riguardano.
Ne esce un quadro affascinante che ci mostra Gesù nel suo essere uomo, come noi, pur nel mistero impenetrabile che lo avvolge.
Il cardinale Biffi «prende le mosse da quanto c’era di più appariscente nella figura di Cristo»: il modo di vestire. Andava vestito molto bene, Gesù, «un “look” ben diverso da quello di Giovanni il battezzatore», come i notabili del suo tempo, con una tunica di fattura non ordinaria. Quando rimprovera i farisei e gli scribi, si riferisce piuttosto «alla vanità di allungare quelle nappe indebitamente». Gesù, non solo è vestito bene, ma ha un incedere signorile e autorevole, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Maestro, anche da parte di sconosciuti: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono» (Gv 13, 13).
Nelle sue frequentazioni sociali, Gesù non ha preclusioni: pastori, contadini, braccianti… «se ha una preferenza, è certo per gli umili e gli sventurati […] sa e afferma che non sono i “primi della classe” a essere avvantaggiati».
Sopporta bene il ritmo spossante dell’attività di predicatore: «non avevano neanche il tempo di mangiare», scrive l’evangelista Marco più volte; ed era un grande camminatore.
Gli indizi ci dicono che doveva essere bello, molto bello e aveva occhi quasi magnetici, capaci di guardare in alto, verso il Padre e di penetrare in profondità il cuore delle persone che incontrava.
Dalla descrizione dell’aspetto esteriore, Biffi passa a delineare la psicologia di Gesù: era uno con le idee chiare, aveva una volontà ferro ed era pienamente identificato con la sua missione (fino quasi a non sentire la stanchezza); non trascurava le piccole cose, i dettagli della quotidianità, di cui intesseva poi le sue parabole. Aveva un animo sensibile e al tempo stesso agiva del tutto libero dal giudizio degli altri, anche degli amici («Lungi da me satana!», dirà a Pietro).
Era uno che si commuoveva, che piangeva e rideva ed era in sintonia piena con il suo tempo: «lo stile dei suoi discorsi era quello dei testi letterari semitici».
Il cardinale Biffi ne individua l’originalità nel suo essere politicamente scorretto, quando oppone il primato dell’interiorità al ritualismo esasperato dei Farisei; quando afferma - contro tutta la sensibilità israelitica - che le ricchezze più che una benedizione sono un rischio e che la condizione dei poveri in una visione spirituale va considerata un privilegio; quando condanna il divorzio - pacificamente ammesso e praticato in Grecia, in Roma e in tutte le società antiche; quando avanza la proposta del celibato per il Regno dei cieli.
Gesù vive una “totale relatività al Padre”, in un mondo che ci vuole autonomi e liberi da qualsiasi dipendenza; dedica un tempo quasi esagerato alla preghiera, in un’epoca che ci porta a cambiare freneticamente attività dalla mattina alla sera. Non che ci sia nulla di male nel riuscire a fare più cose e tutte insieme, se tutto avviene nel rispetto della nostra natura, di quell’immagine di Lui che è dentro ciascuno di noi.
Nella seconda parte del libro, una volta costruito l’identikit, che «è necessariamente una ricostruzione approssimativa», il cardinale tenta un approccio al mistero di Cristo sotto tre diverse angolazioni: Cristo, Figlio del Dio vivente; Cristo Salvatore; Cristo Capo.
Il patrimonio di scritti e di omelie che Giacomo Biffi, cardinale lascia alle generazioni future, è sicuramente molto più vasto ma questo libretto sembra fatto apposta per una riflessione su chi siamo, a immagine di Chi siamo fatti, in questi tempi travagliati dalla guerra, dalla persecuzione per motivi religiosi, dalla impossibilità di dare la giusta accoglienza a profughi e immigrati, dalla difficoltà di trovare un accordo di pace che rispetti la dignità di tutti.
Si legge in una delle pagine conclusive del libro: «Ogni uomo è “icona di Cristo”. Ogni uomo - quali che siano i suoi comportamenti, le sue convinzioni, i suoi stati d’animo - resta sempre una primordiale immagine di Cristo, ed è sempre pertanto “amabile” agli occhi illuminati dalla fede. Per questa ragione nel cristianesimo non c’è il precetto di amare il credente, ma quello di amare il “prossimo”, anche se è spiritualmente lontano e diverso. Basta che sia un uomo, ed è per noi “icona di Cristo”. Naturalmente è insopportabile che una immagine di Cristo rimanga sfigurata e offuscata dall’errore, dalla incredulità, dalla malvagità: chi dunque ama il Signore Gesù, non può non cercare che tutti si facciano più vicini a lui e più somiglianti. Ogni vero cristiano non può non essere apostolo ed evangelizzatore di Cristo in mezzo agli uomini» (p. 143-144).
*Pubblicato in “Zenit” del 16 luglio 2015