I sensi e lo spirito

Scritto da Angela Iazzolino on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Che il corpo sia di fondamentale importanza per la fede e la vita cristiane si evince facilmente dal fatto che Dio, pur potendo dimorare in tanti altri modi tra gli uomini, scelse di incarnarsi, di prendere carne come loro per poter condividere totalmente i loro bisogni e le loro aspettative. Poteva scegliere di incarnarsi anche senza nascere, come tutte le altre creature, da una donna, ma volle invece essere generato da una donna, anche se specialissima, per condividere con gli altri tutte le fasi biologiche e psicologiche della vita umana. Ma il corpo è sempre stato al centro della vita di Gesù, sia perché dall’inizio alla fine della sua esperienza terrena il suo stesso corpo, con la psiche che attraverso esso si esprimeva, non si può certo dire sia stato in vitro, miracolosamente immune da ogni accidente o contrarietà, sia anche e soprattutto perché egli fu costantemente in contatto con i corpi dei malati, di persone fisicamente sofferenti e psicologicamente provate e disturbate.

Gesù venne a guarire quei corpi, i nostri corpi, per far comprendere subito che chi era venuto a salvare le anime era venuto a salvare anche i corpi e che la vita spirituale di ognuno non potesse prescindere dalla corporeità-psichicità, dai sensi, da ogni genere di esperienza sensoriale, anche se poi occorreva non dissipare le proprie risorse fisiche e psichiche in attività disordinate e dissolute ma farne un uso saggio ed equilibrato in funzione dei valori immateriali, quindi spirituali, della vita, come la libertà, la dignità, la giustizia, l’amore in tutte le sue legittime forme. Gesù diede sempre molta importanza alle concrete gioie terrene, come le feste, le cene, i matrimoni, le guarigioni, i rapporti conviviali, i sentimenti e gli affetti, proprio per sottolineare che la salvezza eterna non richiedeva il sacrificio di tutto ciò che è umano se non nei limiti della donazione, dell’offerta personale, del servizio caritatevole, ai fini del bene materiale e spirituale del prossimo, e quindi ai fini ancora una volta di un potenziamento dell’umano stesso.

La stessa risurrezione non è una risurrezione puramente simbolica, una risurrezione di anime ormai irrimediabilmente incorporee ma una risurrezione di corpi, di corpi trasfigurati quanto si vuole, ma di corpi che conservano la loro identità terrena. Piuttosto, la risurrezione dei corpi può essere una risurrezione di gloria o di dannazione in ragione dell’uso che di essi sarà stato fatto durante la vita terrena e degli obiettivi spirituali verso cui essi saranno stati orientati. Ma il punto decisivo è capire che Gesù non è venuto a predicare una spiritualità come nemica del corpo in sé, come negazione della corporeità, della psichicità, della carnalità in quanto dimensioni costitutive dell’essere umano, bensí come continuo superamento di modalità errate o inadeguate e, alla fine improduttive e dannose, del nostro essere soggetti carnali. Gesù accoglie immediatamente, senza pensarci due volte, l’invito di chi voglia pranzare con lui o di chi desideri stargli accanto per onorarlo con cuore sincero e aperto ad un reale cambiamento di vita. Emblematico al riguardo è l’episodio evangelico di quella peccatrice che, seduta ai suoi piedi, bagna di lacrime i suoi piedi asciugandoli con i suoi capelli, e poi baciandoli e cospargendoli di profumo (Lc 7, 37-38).

Gesù non si ritrae da una situazione persino carica di erotismo, perché comprende che quel corpo femminile, quel modo di sentire e di agire al cospetto di tutti, quelle flessuose e quasi scandalose movenze, quel prostrarsi adorante dinanzi all’uomo Gesù, sono espressione di fede purissima e di altissima spiritualità, contrariamente al giudizio espresso dai farisei che giudicano immorale e sconveniente quella scena.

Dunque, non i sensi vanno demonizzati ma l’uso arbitrario, realmente immorale e sconveniente, che uomini e donne possono farne e spesso ne fanno nell'ambito della loro stessa quotidianità. Il sacerdote e poeta portoghese José Tolentino Mendonça ha di recente ribadito che nella tradizione biblica non esiste una separazione tra anima e corpo, tra materialità biologica e attività spirituale, separazione pure presente in molti secoli di religiosità cristiana a causa dell’influsso troppo a lungo protrattosi sul cristianesimo di quel fenomeno noto come ellenizzazione di ascendenza specificamente platonica della fede cristiana (Mistica dell’istante. Tempo e promessa, Milano, Vita e pensiero, 2015). Nella Bibbia, nello stesso vangelo, l’essere umano è sempre considerato nella sua integralità, nella unitaria relazionalità tra i diversi piani in cui esso consiste; non c’è nulla che possa indurre a pensare che il divino sia estraneo alle necessità e allo stesso linguaggio del corpo.

Evangelicamente parlando, il corpo in sé non è mai stato causa di peccato. Certo, ormai il mondo occidentale si è adagiato su una concezione feticistica, consumistica, esibizionistica, idolatrica del corpo, e contro le abitudini a vivere secondo questa concezione e secondo modelli comportamentali che ne derivano la fede cristiana ammonisce a rivedere profondamente i propri stili di vita e a riconvertire la propria esistenza, non una volta ma sempre, a Cristo Signore. Ma il corpo è evangelicamente sacro, è sacro come Dio stesso. Ecco perché Gesù parla con insistenza del suo corpo e del suo sangue assimilandoli a due beni altrettanto concreti e preziosi come il pane e il vino, che rinviano sul piano spirituale al vero pane celeste e al vero vino di salvezza.

Il corpo può rimanere puramente materiale e corruttibile se permane in uno stato di peccato, ma esso è suscettibile, in virtù della grazia di Dio e del costante soccorso dello Spirito Santo, di trasformarsi in sôma pneumatikón, come dice san Paolo, cioé in un corpo le cui necessità e funzioni psico-fisiche si siano talmente affinate e liberate da dipendenze storico-naturali come il potere, la ricchezza, il successo, la visibilità sociale o mediatica, la vendetta e lo spirito violento di rivalsa, e ogni altra forma di predominio dell’ego individuale sull’ego solidale e dell’io individualista sull’io comunitario, da favorirne il graduale e sempre più perfetto mutamento in un corpo spirituale. I sensi abbandonati a se stessi, lasciati alle loro pulsioni naturali, alla loro istintività distruttiva, costituiscono una seria minaccia per il corpo e per lo spirito, ma i sensi di cui ci si prende cura per coltivarli, affinarli, educarli e, se si vuole, per catechizzarli nel senso più nobile e dinamico, sono destinati ad essere mezzi preziosi della nostra spiritualità, articolazioni indispensabili della nostra personale realtà spirituale.

Molto istruttivo è peraltro il pensiero teologico di chi ha scritto il seguente brano: «In virtù della creazione in Cristo (dato antropologico) e dell'incarnazione di Cristo (dato teologico), i sensi del corpo costituiscono non soltanto il luogo di accesso all'esperienza del mondo, ma pure il luogo di accesso all'esperienza di Dio. Di tale esperienza, proprio la liturgia rappresenta il momento sorgivo e culminante, come afferma il concilio Vaticano II (SC 10), sulla scia della grande tradizione patristica: in essa, attraverso la varietà dei segni sensibili (per signa sensibilia: SC 7), si manifesta e si attualizza il dono della salvezza di Cristo. L'apertura della fede a un'estetica dell'ascoltare e del vedere, del gustare e dell'entrare in contatto, non rappresenta dunque né un privilegio dei mistici, eletti 'toccati' dalla grazia divina, né una consolazione dei semplici, bisognosi di toccare e vedere per credere: essa è costitutiva dell'esperienza liturgica, chiamata 'in qualche modo' (precisamente nel modo proprio della liturgia) a mostrare/vedere la gloria del Dio invisibile, a dire/ascoltare la Parola rivelata, a entrare con tutti i sensi nel cuore del mistero trinitario.

Tutto questo è possibile in virtù della singolare capacità dei sensi di far entrare in una relazione immediata e concreta con l'altro da sé: dire sensi significa dire 'corpo', dunque presenza viva e scambio reciproco; dire sensi significa dire 'azione' che coinvolge e 'manifestazione' che sollecita una risposta di riconoscimento; dire sensi significa dire 'sensibilità', vale a dire attenzione ed emozione; dire sensi significa dire 'sinestesia', ovvero possibilità di entrare in contatto con l'Altro da noi con tutto noi stessi, rispettandone al contempo la trascendenza e l'imprendibilità; dire sensi significa dire 'alleanza', perché non c'è sensazione che non sia una comunione; il fatto di vedere alcune cose e non percepirne altre; il fatto di non ascoltare tutto ciò che entra nel nostro campo uditivo, ci conferma della verità per cui vedere è rispondere, ascoltare è corrispondere, e non si dà percezione liturgica senza iniziazione a un dato modo di percepire.

Anche il limite, che è costitutivo della sensazione (la visione è prospettiva e parziale; il nostro olfatto è inferiore a quello degli altri animali) e che si accentua nelle esperienze della malattia, della disabilità, dell'incedere dell'età, non costituisce per se stesso un ostacolo alla percezione liturgica: al contrario, proprio l'esperienza dello scarto tra la percezione limitata della realtà e la realtà che in essa si rivela può manifestare l'eccedenza (cioè il sovrappiù) del dono trascendente e della sua recezione. La ricerca dì una liturgia più 'contattiva' e più sensibile alle ragioni del corpo e del cuore è espressione di una nuova fase della riforma liturgica, più attenta alla dimensione verticale e mistica della partecipazione attiva (partecipare come essere coinvolti nel mistero), e più consapevole dell'importanza della forma rituale in ordine a tale partecipazione» (P. Tomatis, Il linguaggio dei “sensi”: opportunità e limiti, in “Dimensione e speranza” dell’8 luglio 2012).