Ma Padre Ronchi, cosa diavolo sta dicendo?*

Scritto da Francesco Lamendola on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Padre Ermes Ronchi, friulano di Racchiuso d’Attimis, classe 1947, è un sacerdote servita che, dal 2009, ha sostituito Raniero Cantalamessa nella conduzione della rubrica televisiva "Le ragioni della speranza"; inoltre, dal 2016, su incarico di papa Francesco, tiene le meditazioni degli esercizi spirituali presso la Curia romana. Prima di entrare nel merito del suo stile di predicatore e commentatore del Vangelo, crediamo sia opportuno partire da un preciso dato biografico: a diciotto anni, quando ancora era studente di liceo, ma già sentiva la vocazione alla vita consacrata, Ermes Ronchi fece l’incontro decisivo della sua vita: quello con il teologo servita Giovanni Vannucci (nato a Pistoia nel 1913 ed ivi deceduto nel 1984), amico e collaboratore di padre David Maria Turoldo (1916-1992), altro servita friulano allora molto impegnato, a Firenze, nell’ambito sociale, ad esempio con le cosiddette "Messe della carità", oltre che come scrittore, poeta e perfino come regista (di questo aspetto ci siamo già occupati nell’articolo: «Un film al giorno: “Gli ultimi” di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 23/02/2008).

Ora, bisogna sapere che padre Vannuccci, degno erede di Paolo Sarpi, aveva una idea tutta sua della teologia cattolica: al giovane Ermes Ronchi, infatti, trasmise l’idea, da questi accolta come fondamentale, che il mondo sacro e il mondo reale sono la stessa cosa (vedi l’intervista rilasciata da Ronchi sul sito della "Fraternità di Romena"): il che è una tautologia, se per “reale” si intende “sostanziale”, ma un’autentica eresia se s’intende “quello vero” nel senso di “terreno”. E incliniamo fortemente a pensare che si tratti proprio di questo secondo significato, il che spiegherebbe tutta l’impostazione “immanentistica” della predicazione di padre Ronchi. E adesso veniamo al fatto. Incaricato da papa Bergoglio, come si è visto, di tenere gli esercizi spirituali per la Curia romana, alla presenza dello stesso Pontefice, presso la Casa del Divin Maestro di Ariccia, nel corso delle meditazioni quaresimali, durante la seconda giornata di esercizi spirituali, padre Ronchi ha preso lo spunto da un passo del Vangelo di Marco (4, 40), nel quale, dopo la tempesta sul lago di Tiberiade, Gesù domanda ai discepoli perché abbiano ancora paura e siano ancora così scarsi di fede. Rifacendosi anche a quanto da lui stesso già scritto in uno dei suoi numerosi libri («Perché avete paura? La speranza delle Scritture», con Marina Marcolini, Edizioni San Paolo, 2012), padre Ronchi si lancia in un discorso in cui ha definito la paura, per il cristiano, come una mancanza di fiducia in Dio, il che è esatto, pur essendo un pensiero tutt’altro che originale.

Chi non ricorda il famoso discorso tenuto da papa Giovanni Paolo II ai giovani, nel 1985, in occasione della XVIII Giornata mondiale per la pace, in cui, fra l’altro, il pontefice diceva: «Non abbiate paura della vostra giovinezza e di quei profondi desideri che provate di felicità, di verità, di bellezza e di durevole amore!»; e proseguiva con una serie di esortazioni contro la paura: «Non abbiate paura della Verità! Non abbiate paura di annunciare il Vangelo! Non abbiate paura di essere santi! Non abbiate paura di rispondere alla vostra vocazione! Non abbiate paura del futuro! Non abbiate paura della sofferenza e della morte»? Indi, sempre nel corso della seconda giornata di esercizi spirituali, padre Ronchi ha affermato che Dio non salva gli uomini dalla croce, ma nella croce (altrettanto giusto), anche se avremmo preferito che citasse qualche Padre della Chiesa o qualche buon autore cattolico, e non il solito Dietrich Bonhoeffer, che, oltre ad essere un teologo protestante, è stato anche un esponente di spicco di quella “teologia negativa” che esorta i cristiani a fare come se Dio non esistesse, e dunque è stato oggettivamente, se non proprio un cattivo maestro, un maestro perlomeno ambiguo e potenzialmente “pericoloso”, anche se la sua morte in un campo di concentramento nazista lo ha circonfuso di luce postuma (cfr. il nostro articolo: «Il “caso” Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/06/2008).

Ed ecco, nella terza parte del suo ragionamento, la sparata improvvisa, gratuita, sconcertante: la Chiesa, egli ha affermato, per troppo tempo ha trasmesso una concezione di Dio basata sulla paura; ha fatto, come si direbbe oggi, del terrorismo psicologico: ma adesso basta. Adesso è arrivato il tempo dei Vannucci, dei Turoldo, dei Ronchi: la Chiesa è rinsavita, ha smesso di agitare il Babau davanti ai fedeli terrorizzati, si è fatta adulta, fiduciosa, comprensiva, dolce, materna. Ha deciso di mostrare il suo volto buono, il suo volto “moderno” - o modernista? Ricordiamo, per chi se lo fosse scordato, che il modernismo non è una corrente come un’altra in seno al cattolicesimo, ma è una vera e propria eresia, anzi, la “sintesi di tutte le eresie”, e che il santo papa Pio X, che così l’aveva definita, ha minacciato la scomunica a tutti i suoi seguaci, con l’enciclica Pascendi dominici gregis (e, prima ancora, col decreto Lamentabili sane exitu), fin dal 1907: provvedimento che, almeno formalmente, non è mai stato abrogato, né, a quanto ci risulta, attenuato, dai suoi successori: tutti, nessuno escluso.

Insomma, un ritorno – con la buon’anima di Umberto Eco - al clima di denigrazione e di autentica demonizzazione della Chiesa medievale, se non addirittura di tutta la Chiesa pre-conciliare, fino al pontificato di Pio XII; ci piacerebbe sapere quando, secondo padre Ronchi, il Magistero della Chiesa cattolica ha perso il “vizietto” di voler intimorire i suoi fedeli, come altrettanti bambini timidi e inesperti, e quando è divenuta adulta e non ha più sentito il bisogno di servirsi di armi così rozze e meschine: con Leone XIII? O con Pio XI? O, magari, solamente con Giovanni XXIII?

Ma ecco, affinché il lettore possa formarsi una sua opinione al riguardo, il passaggio saliente di questa parte del discorso di padre Ronchi, presenti il papa in persona, l’immancabile e ineffabile cardinale Gianfranco Ravasi, così aperto, dialogante e conciliante verso tutti, e particolarmente con Giudei e massoni, tranne che con i cattolici cosiddetti, spregiativamente, “tradizionalisti”: «Per un lungo tempo la Chiesa ha trasmesso una fede impastata di paura. Che ruotava attorno al paradigma colpa/castigo, anziché su quello di fioritura e pienezza. La paura è nata in Adamo perché non ha saputo neppur immaginare la misericordia e il suo frutto che è la gioia […]. La paura invece produce un cristianesimo triste, un Dio senza gioia. Liberare dalla paura significa operare attivamente per sollevare questo sudario della paura posato sul cuore di tante persone: la paura dell’altro, la paura dello straniero. Passare dall’ostilità, che può essere anche istintiva, all’ospitalità, dalla xenofobia alla filoxenia […] e liberare i credenti dalla paura di Dio, come hanno fatto lungo tutta la storia sacra i suoi angeli: essere angeli che liberano dalla paura».

Ma padre Ronchi, cosa diavolo sta dicendo? Ma si rende conto del guazzabuglio teologico, della confusione inverosimile, delle vere e proprie enormità che lei è riuscito a mettere in fila, con incredibile sicumera e presunzione intellettuale, in queste poche frasi, rivolte a un uditorio tanto qualificato: i massimi vertici della Chiesa cattolica? E gliele hanno lasciate dire? E nessuno l’ha fermata, nessuno l’ha ripresa, nessuno l’ha corretta? Eppure, ci avevano sempre insegnato che riprendere e correggere un fratello che sbaglia è un atto di carità cristiana: molto più che udire e vedere l’errore, e tuttavia restarsene zitti, magari per una forma malintesa di delicatezza, oppure per una tendenza poco lodevole al compromesso, al “quieto vivere”. Ma quando è troppo, è troppo.

Tanto per cominciare, il pistolotto sui migranti/invasori se lo poteva proprio risparmiare: non c’entrava nulla con il tema della meditazione dal Vangelo di Marco, tanto più che riguarda un problema non morale, o non solo morale, ma politico: un problema che non esisteva all’epoca dei Vangeli e che l’Europa non ha mai dovuto fronteggiare, nelle proporzioni in cui oggi si presenta, da più di un millennio. Poteva avere almeno la decenza di non strumentalizzare il Vangelo per portare avanti questo buonismo all’ingrosso, che consiste nell’ipotecare il futuro dei nostri figli, spalancando le porte a milioni di musulmani, ben decisi a non convertirsi e neppure a integrarsi, ma, semmai, a convertire e integrare noi, per amore o per forza, al Corano e alla legge islamica: una forma di autodistruzione che Gesù non ha mai predicato, e meno ancora prescritto.

Ma, a parte questo, ci piacerebbe proprio sapere quando mai la Chiesa cattolica, nei secoli passati, in cui lei la descrive tutta intenta a predicare – addirittura! - un Vangelo impastato di paura (ma lei si sente, quando parla, padre? Si rende conto della portata delle sue affermazioni? Ne soppesa gli effetti e le possibili conseguenze, dentro e fuori il popolo dei credenti?), è stata egoista e priva di carità verso gli stranieri; quando mai è stata animata da odio (xenofobia) nei loro confronti; quando mai ha nutrito, o insegnato, la paura nei confronti dell’altro. Come se non bastasse questa imperdonabile imprudenza, questa maniera avventata e incosciente di lanciare accuse a tutto campo, tanto generiche quanto discutibili, lei dimostra anche di essere fermo a pregiudizi settecenteschi, lei che si mostra così desideroso di apparire al passo con i tempi, aperto e libero da vecchie strutture di pensiero.

Ma dove ha studiato la storia, lei, caro padre, ce lo dica: forse su romanzi come «Il nome della rosa», o come «Il pendolo di Foucault» di Umberto Eco, o, meglio ancora, come «Il Codice da Vinci» di Dan Brown? Anzi, se ciò di cui stiamo parlando non fosse terribilmente serio, ci verrebbe quasi il dubbio che lei l’abbia studiata sull’Almanacco di Topolino. Le sue parole non sono le parole di un pastore d’anime, né di un sacerdote cattolico: lei ha letto troppo Gibbon, Diderot e Voltaire, e ne ha fatto indigestione; lei è rimasto fermo ai tempi dell’illuminismo, e, con la boria e la superficialità dei philosophes della Encyclopédie, trincia giudizi più grandi di lei e più grandi di noi tutti: giudizi avventati, superficiali, generici e ingenerosi, che, ormai, solo gente totalmente screditata e sprovveduta, ma, in compenso, furba e avida di celebrità, come il famigerato Dan Brown, si sogna ancora di riesumare dalle catacombe del XVIII secolo.

Non solo è fazioso, padre, ma è anche poco aggiornato: i suoi argomenti sono triti e banali, erano già vecchi ai tempi di Voltaire; e, se Voltaire suonava falso già nel 1700, il suo linguaggio, padre, suona anche ridicolo, perché non si addice a un uomo del Terzo millennio, che, come lei, ci tiene tanto a far mostra di essere “moderno” e culturalmente aggiornato. Ma veniamo alla sostanza teologica delle sue meditazioni quaresimali. Lei, padre, dopo aver ripudiato l’idea di un Dio “triste” e “senza gioia” (ma la Croce, nel frattempo, dove è andata a finire?), arriva allo sproposito di paragonare, se non di equiparare, gli uomini alle creature angeliche: affermando che queste ultime non conoscono la paura, ne trae la conclusione che neppure gli uomini devono aver paura. Ma gli uomini non sono angeli, nessuno glielo ha mai detto? Che razza di teologia si studia, oggi, nei seminari cattolici? Dopo aver studiato male la storia, lei, padre, mostra di conoscere maluccio anche le basi più elementari della teologia. E allora, visto che le piacciono gli autori moderni, e che san Tommaso d’Aquino, probabilmente, non le andrà troppo a genio, le consigliamo di leggersi l’opera di padre Tomas Tyn «Metafisica della sostanza», nella quale il geniale teologo domenicano, morto nel 1990, distingue opportunamente fra la Persona di Dio, la persona degli Angeli e la persona umana: sempre persona, ma di natura ben diversa. E la differenza maggiore, oltre che nel fatto della creaturalità, consiste, per l’uomo, nel fatto della caduta. Sì, lo sappiamo: a lei, padre, non va troppo a genio parlare di queste cose; per lei, sanno di tristezza. Non le piace parlare di colpa e di castigo; anzi, nemmeno di peccato. Ma senza il peccato, non c’è la Redenzione: e Gesù Cristo, allora, il Dio-uomo, che cosa è venuto a fare sulla Terra? Forse un piccolo giro turistico?

Se per annunciare il Vangelo è sufficiente parlare di “fioritura” e di “pienezza” (bello, questo linguaggio floreale: fa tanto New Age), allora essere cristiani diventa facile come bere un bicchier d’acqua. Sparisce il paradosso della fede, di cui parlava Kierkegaard; e la Croce, a cosa servirà mai, giunti a questo punto? E ci dica un’ultima cosa, padre: dove è andato a nascondersi il concetto del peccato, e quindi del bene e del male, nella sua teologia? Una persona ingenua si potrebbe domandare perché mai vi siano così tanti preti e sedicenti teologi i quali si ostinano a rimanere nella Chiesa cattolica, pur dicendo e scrivendo cose che, di cattolico, hanno tutt’al più una frettolosa verniciatura; ma che, nella sostanza, sono tutto fuorché cattoliche: semmai panteiste, razionaliste, pelagiane, luterane. Perché non escono e non se ne vanno per la loro strada? Perché non portano avanti le loro tesi, lealmente e onestamente, mostrandosi per quello che sono: uomini che non credono alla Rivelazione, così come la insegna, e l’ha sempre insegnata, il magistero ecclesiastico? Ma sarebbero, appunto, domande ingenue. Se costoro rimangono dentro la Chiesa, a dire quel che dicono e a scrivere quel che scrivono, una ragione, evidentemente, c’è…

* Pubblicato in "Il Corriere delle Regioni" del 9 marzo 2016