Massimo Borghesi sul pontificato di Francesco
Il filosofo cattolico Massimo Borghesi dà un’interpretazione “rivoluzionaria” del pontificato di Francesco, nel senso che questi, secondo lui, manderebbe in frantumi tutti gli schemi ideologici con un rinnovato spirito profetico e starebbe portando novità significative anche dal punto di vista magisteriale, pastorale e politico-diplomatico, pur in un profondo rispetto ermeneutico del messaggio evangelico. Proprio per questo Francesco risulterebbe problematico e scomodo per gli intellettuali in genere e soprattutto per molti cattolici che, a seconda dei casi, lo vorrebbero più decisamente “tradizionalista” oppure più nitidamente “progressista”.
Ben più vicino al popolo che alle élites ecclesiali o laiche, sino al punto di venir accusato, oltre che di “doppiezza gesuitica”, anche di “populismo”, peronismo o di essere addirittura un filomarxista, seguace della teologia della liberazione, in realtà, osserva Borghesi, egli non è niente di tutto questo, essendo vero piuttosto che la sua “teologia del popolo” «sorge, nel contesto dell’Argentina degli anni ’70, come risposta “cattolica” alla teologia della rivoluzione. Non si tratta di una posizione ideologica ma del radicarsi della fede nella mistica popolare, in una tradizione cristiana vivente, storica, che la Chiesa istituzionale non può disconoscere, pena rimanere astratta e formalistica. Il sensus fidei del popolo credente è un “luogo teologico”, così come i poveri sono i prediletti, coloro che Dio ama in modo speciale. La “teologia del popolo” è una risposta all’ideologismo, di destra e di sinistra, all’elitarismo di stampo illuminista, allo gnosticismo che riduce la fede a “dottrina”. Da qui sorgono conseguenze importanti. La prima è una concezione “carnale”, “fisica” del cristianesimo. Un popolo sorge da una relazione vivente, reale, non da una proposta astratta. Il cristianesimo, per sua natura, si comunica nella concretezza di del vedere-udire-toccare-abbracciare. Una conseguenza di ciò è la semplicità di un linguaggio, quello evangelico carico di esempi e di richiami, che non si limita ad istruire ma vuole anche coinvolgere il cuore. Vuole porre in una relazione reale Dio con coloro che ascoltano. Dio sensibile al cuore: questo è il cristianesimo per Bergoglio» [Intervista a M. Borghesi, Dio sensibile al cuore: questo è il cristianesimo per Bergoglio (prima parte), in “Zenit” del 12 marzo 2016].
In realtà, Francesco, in linea con Benedetto XVI (da cui lo dividono tuttavia lo stile e i toni della predicazione), punta tutto su Cristo, o meglio sul cristianesimo non tanto come dottrina o idea etica universale, quanto come incontro con un avvenimento straordinario, con una persona, per l’appunto con la persona di Cristo, perché in definitiva la fede nasce non già da un convincimento intellettuale, dall’adesione ad una dottrina, ma dall’incontro trasformante con Gesù. La fede, per Francesco, è soprattutto in questo incontro, nella concreta e quotidiana testimonianza di questo incontro, non nell’ortodossia cattolica, nell’organizzazione ecclesiastica o nella stessa militanza religiosa.
E, in questo senso, la fede non può non essere “popolare”. Qui è anche l’origine prima di un papa Francesco riformatore, che pone al centro del suo programma di riforma sia il superamento di un’ottica eurocentrica sia il superamento «della forma “monarchica”, assolutistica del Papato» (ivi), che era tema centrale già al tempo del Concilio Vaticano II e che costituisce tuttavia, nelle intenzioni del papa argentino, non “un’alternativa terzomondista all’Occidente” ma “una correzione”, “un punto di vista privilegiato” rispetto al precedente orientamento della Chiesa: si tratta, cioè, per lui di accorciare, rispetto al passato, le distanze tra “centro” e “periferia”.
Borghesi analizza ma poi di fatto difende anche, a spada tratta, il pontificato di Francesco, non dubitando che siano sostanzialmente ingiustificate le critiche che ad esso vengono mosse da parte di tanti cattolici. Infatti, a certe accuse di demagogia, di populismo, di propensione a stare sempre al centro della scena e a cercare il plauso delle folle, egli replica affermando che, «in realtà, dietro a queste critiche, si indovinano poltrone e ambizioni. Per questo molti attendono alla finestra che il ciclone passi e tutto torni come prima» (op. cit., seconda parte, 13 marzo 2016).
Può darsi ci sia qualcosa di vero in quest’affermazione, ma essa non può valere in modo assoluto, perché, almeno per una parte di cattolici che hanno a cuore semplicemente la Chiesa di Cristo, quelle critiche sono espressione di legittime perplessità e di comprensibili turbamenti spirituali derivanti da talune prese di posizione troppo unilaterali e non sempre coerenti di Francesco, da un suo eloquio pubblico certo efficace e suggestivo ma non del tutto controllato, in particolare per quanto si riferisce alla focalizzazione della fondamentale interconnessione dottrinaria esistente tra verità, giustizia e misericordia di Dio.
In questo senso, le critiche cattoliche che Borghesi tende a sua volta a criticare, in quanto non sarebbero consapevoli del vero valore di questo pontificato, possono ben essere, al contrario, il riflesso di una coscienza cattolica né ipocrita, né conformista, ma giustamente e fraternamente critica e preoccupata in totale buona fede di offrire un apporto vigile e responsabile alla vita stessa della Chiesa, che non è solo del papa e delle gerarchie, come tutti sanno, ma dell’intero popolo di Dio.
Ormai si fa a gara tra i teologi cattolici nel parlare di misericordia. Anche oggi non è mancato chi ha pensato di scrivere: «La giustizia di Dio, quando si mette in azione è misericordia, una misericordia non meritata, gratuita, una misericordia che non è accompagnata dalla pena ma è rigenerazione, ricreazione, trasfigurazione della creatura peccatrice» (E. Bianchi, La giustizia divina è misericordia, in “Zenit” del 16 marzo 2016). Francamente, quando, presumendo di dire una cosa del tutto veritiera, si insiste nell’esprimere concetti come questo che, pur non essendo completamente bergogliano, sembra trovare diritto di cittadinanza nella Chiesa di Francesco per la particolare enfasi posta da quest’ultimo sul tema della misericordia divina, forse non ci si rende conto che non si rende un buon servizio alla fede in Cristo, dal momento che Cristo, unico vero Dio, non è solo un Dio misericordioso ma è anche, nella stessa misura, come inequivocabilmente risulta da una lettura e uno studio non preconcetto dei vangeli e di tutto il Nuovo Testamento, un Dio giusto in conformità al suo essere ontologicamente un Dio di verità, e infine un Dio che ha la prerogativa, piaccia o non piaccia, di giudicare, di premiare o di condannare.
I tentativi di ricondurre riduttivamente e arbitrariamente la giustizia divina alla divina misericordia non sono leciti perché non hanno alcun fondamento biblico-evangelico, anche se, non c’è dubbio, la misericordia di Dio, per vie che l’uomo non può comprendere perfettamente in senso razionale, è realmente infinita.
Detto questo, se sono veri cattolici, i cattolici critici non si stancheranno mai di pregare affinché anche l’attuale pontefice non si stanchi mai, a sua volta, con l’aiuto dello Spirito Santo, di perfezionare continuamente la sua opera e di renderla quanto più possibile funzionale al piano salvifico di nostro Signore Gesù.