Maria e il suo canto di liberazione storico-escatologica
Nel corso degli anni sessanta la teologia cattolica si mise a percorrere nuove vie rispetto a quella prevalentemente dottrinaria e contemplativa dei tempi passati. E’ allora infatti che, nell’ambito della coscienza cristiana e cattolica occidentale, emergono teologie inedite e ancorate, oltre che alla Parola di Dio, anche all’esperienza presente, al vissuto empirico di individui e popolazioni, alla prassi storico-politica di interi continenti. Si pensi alla teologia della liberazione in America Latina o alla Black Theology delle Comunità Nere negli Stati Uniti, teologie non estranee ad un qualche influsso del pensiero marxista che, «incentrato sulla prassi e volto alla trasformazione del mondo (undicesima Tesi su Feuerbach)», aveva indubbiamente «contribuito al recupero della dimensione storica del Cristianesimo», nel senso che avrebbe proficuamente sollecitato il mondo cristiano e cattolico a non guardare soltanto «al passato e ai suoi eventi salvifici» come bloccati ed isolati in un determinato momento storico rispetto alla complessiva processualità storica, ma anche a «convertirsi alla storia da costruire mediante un programma di azione e una presenza operativa nel mondo» (S. De Fiores, Una mariologia di liberazione e promozione dell’uomo, in “Madre di Dio”, n. 12, dicembre 2004). Di queste nuove tendenze teologiche non poteva non risentire la mariologia che interagisce sempre con la teologia, costituendo anzi una fondamentale articolazione di essa.
Accade cosí che Maria non sia più vista semplicemente in astratto come colei che accoglie e contempla fiduciosamente il Signore ma, nel concreto di una movimentata e drammatica dinamica psicologica ed esistenziale, come una donna la cui fede muove da precise aspettative storiche di liberazione umana e storico-sociale e culmina nella speranza religiosa di un riscatto integrale degli oppressi, degli umili, dei poveri. Si comincia ad amare Maria non solo perché prega ininterrottamente Dio ma anche perché, nel nome di Dio Salvatore, si schiera apertamente dalla parte di tutti i crocifissi della vita e della storia. Se prima Maria era stata principalmente oggetto di pura speculazione accademica, adesso di lei bisognava cominciare a parlare «per illuminare il modo di vivere dei cristiani e per catalizzare nella Chiesa gli orientamenti del Vangelo» (Ivi).
Sotto i nuovi impulsi teologici anche la mariologia, lungi dal limitarsi ad essere uno studio esclusivo di verità dogmatiche, tendeva ora ad immergersi nella grande e complessiva storia della salvezza per sottolineare come la fede in Dio non potesse non alimentarsi anche e soprattutto di impegno personale e di offerta di se stessi nella vita quotidiana: in modo tale che il cristianesimo potesse superare «il rischio di una religione oppio ed evasione dalla storia, per impegnarsi a realizzare fìn da questo mondo il regno di Dio che avrà compimento nell’età futura» (Ivi). Questa nuova sensibilità manifestata verso il mondo storico-umano e verso inedite istanze di liberazione e promozione umana da parte del duplice fronte teologico-mariologico, avrebbe indotto altresí la Chiesa ad un ennesimo ed urgente ripensamento del suo ruolo nella storia dell’umanità, nel senso che «di fronte all’attuale situazione storica di violenza istituzionalizzata, di miseria di tante frange sociali e di ingiuste disuguaglianze, la Chiesa prende coscienza che non è più possibile un atteggiamento neutrale o di alleanza con i poteri oppressivi e che invece occorre assumere un compito di liberazione, di promozione umana e di realizzazione dell’utopia cristiana» (Ivi).
In primis, evidentemente, ne prende coscienza la Chiesa latino-americana, ma la stessa Chiesa centrale, a partire da questo momento, non può più rimanere impassibile o distaccata rispetto ai nuovi ed appassionati modi in cui comincia ad essere declinata la fede in Cristo. In particolare, la Chiesa sarebbe stata costretta a fissare nella sua agenda apostolica e pastorale almeno tre punti essenziali: 1. che non ci si può convertire a Dio se non ci si converte al prossimo, all’uomo oppresso, alla classe sfruttata, al paese dominato. Biblicamente, infatti, conoscere Dio è operare la giustizia (cfr. Ger 22, 13-16) e Cristo viene incontrato nel prossimo (cfr. Mt 25, 31-45); 2. che la nostra conversione implica dunque il nostro concreto impegno, sia pure nei limiti delle nostre possibilità, a favore degli oppressi e degli sfruttati di ogni specie e contro ogni iniquità ed ogni privilegio; 3. che è assolutamente doveroso lottare in particolare contro il male della povertà, un male di enormi proporzioni e un male che non è affatto una fatalità ma qualcosa da denunciare ed avversare tenacemente, poiché la stessa beatitudine della povertà «non intende sacralizzare la rassegnazione all’ingiustizia o rimandare all’aldilà, ma beatificare i poveri perché il Regno di Dio iniziato metterà fine alla povertà» (Ivi).
Ecco: adesso anche «il cristiano che guarda a Maria non può essere complice delle ingiustizie del mondo, né ridursi a renderle omaggi e preghiere, ma deve parteggiare per il Dio dei poveri e impegnarsi in un amore ‘politico’ verso di essi, onde contribuire alla liberazione del mondo da ogni ingiustizia. La figura di Maria, cui è stata sempre riconosciuta un’eccedenza di realtà cristiana [= immacolata - piena di grazia – assunta], personifica pure l’utopia del Regno, cioè del progetto salvifico di Dio, tendente alla costruzione di una comunità umana animata dallo Spirito, principio di amore, di comunione, di fraternità, di giustizia e libertà (cfr. Rm 14, 17; Gal 5, 1-13). Maria è la Vergine dal cuore nuovo, la creatura aperta allo Spirito perché possa nascere il capo della nuova umanità e si instauri nel mondo il Regno divino che non avrà fine (cfr. Lc 1, 33). E’ la Madre di Gesù presente nella prima Comunità ecclesiale (cfr. At 1, 14), dove germina nello Spirito l’abbozzo meraviglioso di una vita nell’unione cordiale, nella preghiera, nella condivisione dei beni. Come Maria il cristiano si rinnova nella disponibilità allo Spirito per operare creativamente in ordine ad un’animazione cristiana della realtà sociale» [Ivi].
Di conseguenza, la vera spiritualità cristiana della liberazione non può più essere qualcosa di vago e generico, qualcosa che possa riguardare tutti astrattamente e indistintamente, ma trova il suo naturale punto di partenza, come osserva Guterriez, nella condizione di poveri ed oppressi e coloro che vogliono esserne partecipi devono pertanto far proprio e condividere il punto di vista di poveri ed oppressi lottando per la loro liberazione e la loro emancipazione umana, morale, economica e politica, perché il Signore è nei poveri e negli oppressi, è attraverso la preghiera e il riscatto dei poveri e degli oppressi che «salva la storia» (Ivi).
In realtà, non appare più concepibile e tollerabile che i cristiani possano dividersi in oppressi ed oppressori, donde la necessità e l’auspicio che tutta la Chiesa possa entrare coerentemente nell’«”ottica di Maria”: i poveri stanno scoprendo questa immagine di Maria che ci dà il Vangelo, colei che viene per mettere nella storia un fermento di liberazione che la smuove dalle fondamenta, e che imprime alla storia il ritmo del "rovesciare i potenti e sollevare gli umili"» (Ivi). E, in questo senso, non c’è dubbio che si può parlare di una riscoperta del Magnificat mariano, il cui valore escatologico è strettamente connesso a specifiche ed universali istanze di natura storica, terrena. Il Magnificat è certamente un grande cantico di ordine spirituale ma, contrariamente ad una antica e persistente mentalità religiosa, non può essere interpretato in senso puramente “spiritualista”, in un modo quindi che non metta minimamente in discussione tutti i processi oppressivi e repressivi in atto nella storia e nella vita di uomini e donne. Molto opportunamente adesso se ne vede anche, come è stato rilevato, «la valenza sociale, la forza e il messaggio propulsivo per il cambiamento della storia, per la sua trasformazione in senso evangelico, andando cosí contro corrente, contro lo ‘status quo’ del potere» e appare del tutto corretto e lecito considerare ora il Magnificat, rileva Raniero Cantalamessa, come «un nuovo modo di guardare Dio e un nuovo modo di guardare il mondo e la storia», benché ovviamente tutto il vangelo di Cristo sia stracolmo di una spiritualità tanto sobria e misurata quanto esplosiva e radicalmente trasformatrice.
Heinz Schuermann ha scritto che il Magnificat di Maria di Nazaret è «il cantico di una Rivoluzione che viene da Dio» e Juergen Moltmann ha scritto che esso è «il canto di una grande rivoluzione di speranza». Come diceva don Mario Scudu nel 2005: «La storia di Cristo comincia con il cantico di Maria che parla di un Dio rivoluzionario, che attua il cambiamento radicale a suo modo, secondo la sua logica e secondo i suoi tempi stabiliti. Con una particolarità: l'uomo è chiamato alla collaborazione in questa opera rivoluzionaria. E Maria si pone come la prima collaboratrice o cooperatrice di Dio nell'opera di salvezza attuata interamente dal Figlio suo Gesù». Ma merita di essere citato l’intero passo conclusivo dell’incisivo discorso che alcuni anni or sono questo sacerdote tenne a Novara: «per questo possiamo dire che il Magnificat costituisce per la Chiesa intera e per i singoli cristiani e cristiane una vera 'riserva escatologica', a cui attingere quando la lettura della nostra storia e di quella del mondo vuole portarci lontani, verso la non-speranza e verso lo scoraggiamento esistenziale ed operativo. Il Magnificat quindi non è un cantico astratto ma fortemente operativo, che richiama all'azione tutti gli uomini e tutto l'uomo, come scrivono i Serviti : "Il Magnificat è quindi parola che impegna tutto l'uomo: dall'udito scende nel cuore, dal cuore risale, trasformata in canto, alle labbra; parola che sollecita l'impegno fattivo dei discepoli di Cristo, che illumina i loro passi sulla via della santità e della giustizia" (Capitolo dei Serviti, 1996, p. 115, 1995).
Per Sabino Palumbieri il Magnificat», prosegue don Scudu, «è anche "un canto di lode a Dio e di testimonianza agli uomini. Lo intona Maria, la giovanissima Madre che da Nazaret va ad Ain Karim per servire l'anziana madre Elisabetta, sua cugina". Questo episodio della Visitazione, ("dove si respira aria di purissimo umanesimo, non quello degli alambicchi teorici ma quello dei gesti concreti di ogni giorno") ed il cantico che ne scaturisce, rende il Magnificat il manifesto del nuovo umanesimo, la prospettiva di un mondo nuovo, ribaltamento del mondo vecchio, di una storia giovane, della storia vera, della fine della preistoria. E' il manifesto giovane, intonato dalla giovane Maria di Nazaret per i giovani di tutti i tempi, urgente per quelli dei tempi 'sbarrati alla speranza". Il Magnificat ci propone una nuovo umanesimo o la rivoluzione alla luce della Parola di Dio, perchè è un canto pasquale. Esso basa la sua concezione di Dio, dell'uomo, del compimento della storia proprio alla luce della Pasqua, della vittoria di Cristo, il Figlio di Maria, sul male e sulla morte. Per concludere, possiamo affermare che recitando con attenzione il Magnificat non possiamo restare indifferenti davanti alla sorte di tanti 'umili' cantati da Maria che attraversano la nostra storia quotidiana».