L'amore, il peccato e la correzione fraterna
Tra l’amore e il peccato non sussiste necessariamente un rapporto di incompatibilità. Vi è certamente incompatibilità ove l’amore sia equivocato e coniugato persino con inclinazioni perverse e deleterie dell’animo umano. Ma se l’amore è quello che si ricava da una serena e ispirata lettura dei vangeli, il significato del rapporto tra peccato e amore risulta molto meno scontato, nel senso che da un peccato troppo radicato può anche originarsi un amore sorprendentemente intenso e disinteressato. Si può essere peccatori e, al tempo stesso, capaci di un grande amore che può spingere ad azioni caritatevoli molto alte: riconoscere sinceramente contriti e affranti la verità, la verità degli insegnamenti di Cristo, e quindi anche la gravità dei peccati commessi o del persistente assoggettamento alle suggestioni del male, è già una manifestazione di amore, di amore per la verità che risiede in Dio, di amore verso Dio di cui si avverte la mancanza e a cui si rivolge una pressante richiesta di perdono e di grazia.
Quanto più chiara, onesta e profonda è la percezione dei peccati commessi, tanto più vero e significativo è il bisogno di perdono e d’amore. Quanto più sincera è la consapevolezza del proprio conflitto interiore tra quel che si è e si fa e quel che sarebbe giusto essere e fare, nonché la volontà di rimediare ad un incoerente modo di vivere, tanto maggiori sono le possibilità di essere assistiti o guariti dalla misericordia divina.
I peccati, anche dopo esperienze o svolte spirituali particolarmente importanti, ci accompagnano per tutta la vita anche se in un’ottica esistenziale completamente rinnovata e, specie nelle anime più sensibili, possono indurre a frequenti momenti di smarrimento, di abbattimento e di depressione spirituale, ma, se non ci manca l’umiltà di continuare a mortificarci davanti a Dio e a chiedergli perdono anche attraverso concreti atti di carità verso se stessi (rinunciando, per esempio, il più costantemente possibile, ad alcune abitudini troppo egocentriche di vita) e verso gli altri (attraverso, per esempio, atti disinteressati di aiuto), se continua a sorreggerci la fiducia nel suo potere di fare di noi quel che da soli non riusciremmo mai ad essere, senza saperlo noi progrediremo verso il bene e la salvezza eterna.
Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato, disse Gesù della prostituta prostrata ai suoi piedi in segno di riconoscimento dei suoi peccati e del suo viscerale amore per il suo unico Consolatore (Lc 7, 47-50). La prostituta riconosce di essere uno zero assoluto e, senza tentare di giustificarsi, affida la sua vita al Signore con una dedizione che appare addirittura scandalosa a quei bensanti che seguono fedelmente le regole di una religiosità formalmente ineccepibile ma molto distaccata dai complessi e dolorosi travagli della vita reale. Qui il caso è quello di una prostituta salvata dalla e per la sua illimitata fede nella misericordia di Dio. Ma nel mondo e nella storia i possibili casi di grandi peccatori che, essendo capaci di riconoscere e ammettere e confessare i propri peccati, confidino nell’amore e nel perdono divini non ipocritamente ma con sforzi non velleitari di perfezionamento spirituale, sono non solo molteplici ma cosí diversificati da rendere più problematica di quanto non sia qualunque teologia della salvezza sin qui elaborata.
Per contro,altrettanto numerosi sono i casi di persone apparentemente ligie alle leggi divine e a prima vista lontane da vortici particolarmente aberranti di peccato: i casi, cioè, di «colui al quale si perdona poco», ritenendosi genericamente un peccatore come tutti ma in fin dei conti abbastanza in pace con Dio, e di colui che tuttavia, proprio ritenendo di dover esser perdonato da Dio solo per piccole manchevolezze, «ama poco» nonostante la sua tendenza esteriore ad adorare Dio.
C’è però un problema ed è quello relativo alle modalità psicologiche, morali e religiose in cui sia possibile educare, migliorare, affinare soggettivamente la coscienza del peccato. Tra i cristiani, volendo qui schematizzare per comodità di esposizione, ci sono coscienze passive o dormienti, quelle che per abitudine o per educazione e tradizione familiari non sono estranee alla dimensione religiosa ma vivono Dio in modo astratto, meccanico e quasi scaramantico (la messa, i sacramenti, le preghiere giornaliere, un po’ di elemosina, qualche sorriso di circostanza o di simpatia, forme occasionali di cordialità, senza mai rinunciare a richiami e ambizioni mondane, a precisi e non sempre leciti interessi personali, a frequentazioni ambigue e a comportamenti strumentali di infimo valore morale); ci sono poi coscienze attive dal punto di vista intellettuale ma sostanzialmente inette dal punto di vista morale e sono quelle che sanno esercitarsi utilmente nella ricerca del vero e del giusto ma che raramente riescono a mettere a profitto e a tradurre in atti reali le positive conquiste della loro intelligenza perché molto più impegnati di testa che di cuore; ci sono infine coscienze non solo attive e profondamente riflessive ma capaci di mettere correttamente e continuamente in discussione se stesse, il proprio modo di pensare e di agire, senza sconfinamenti in una ossessività paralizzante ma anche senza l’astuta e facile scorciatoia della “razionalizzazione”.
Contrariamente alle prime due “categorie” di coscienza, quest’ultima “categoria” è, per cosí dire, quella più funzionale all’acquisizione di un concetto imprescindibile (perché assolutamente radicato nel vangelo di Cristo) della fede. Questo concetto è che non è affatto vero che per carità cristiana non si debba mai ammonire i peccatori. Questo è ciò che anche nella Chiesa oggi si vuol dare talvolta ad intendere in buona o cattiva fede alle masse, alla luce di una lettura parziale, unilaterale o capziosa di alcuni episodi evangelici, ma in realtà, fermo restando il fondamentale monito evangelico a voler sempre cominciare dalla critica e dalla conversione di se stessi quanto più possibile rigorose e coerenti, il cristiano che è tale ogni giorno per convinzione e non per convenzione ha anche il preciso dovere di richiamare, sia pure con la dovuta delicatezza, il fratello o la sorella che sbagliano, cosí come di denunciare il male presente in una comunità persino coram populo, in spirito di carità ma con la dovuta energia, se ve ne sia l’opportunità e se non siano praticabili forme più discrete e ugualmente efficaci di testimonianza.
Purtroppo, la nostra generazione, talvolta assecondata da un magistero ecclesiale non del tutto insensibile a talune mollezze teologiche di questo tempo, ha la tendenza a ritenere che l’individuo debba seguire solo la sua volontà e debba pensare come peccato solo quel che egli sente come tale, per cui ogni forzatura esterna che vada al di là di un semplice consiglio o suggerimento e si configuri come rimprovero, ammonimento o critica aperta e leale, sia da considerare indebita oltre che inopportuna.
Il singolo, si dice sbagliando non sempre in buona fede, è l’unico giudice di se stesso e nessuno ha il diritto di intervenire nella vita altrui soprattutto se il suo intervento non sia richiesto. Entro certi limiti ciò può essere condivisibile. Ma, a prescindere dal fatto che anche chi ritiene indebito l’atto dell’ammonire in realtà viene esprimendo un giudizio al pari di chi si trovi su una diversa posizione (quindi, in ogni caso, non è mai possibile evitare di “giudicare” e il problema semmai, pur sempre in senso evangelico, è quello di giudicare rettamente e non ipocritamente), il non voler ammonire può essere spiegato in tre modi: o come presunta incapacità di distinguere tra bene e male, o come inconscio riflesso di una gelosa e interessata difesa della propria indisciplinata egoità o di una vita privata piuttosto riprovevole, oppure come espressione di inerzia o indifferenza morale consistente nel non volersi assumere delle responsabilità, nel non voler dire nulla che possa turbare il proprio quieto vivere e creare dei problemi nei rapporti interpersonali.
Meglio lasciar perdere! La vita è già molto complicata e non è il caso di complicarsela ancora di più con iniziative che rischino di provocare solo fastidio nel nostro prossimo! Meglio tacere e vivere alla men peggio in quella che Benedetto XVI definiva come “anestesia spirituale” del tempo presente. Ma quale “correzione fraterna” in quest’epoca di imperante e autosufficiente individualismo nella quale si è soliti cercare asettici e non disturbanti percorsi formativi piuttosto che esperienze umane e spirituali ben più faticose e impegnative! Se però nella vita comunitaria prevale la paura di dar fastidio agli altri e all’altro sul dovere di aiutare gli altri e l’altro con il sorriso ma anche con il rimprovero, con fraterna tenerezza ma anche con una critica franca e diretta, cosa rimane di quell’esortazione evangelica «ad amarsi gli uni gli altri, come io ho amato voi»? Ammonire qui non significa certo odiare qualcuno, deriderlo o sminuirne la dignità; ammonire per i cristiani non può certo significare liberarsi dell’altro con un giudizio magari astioso, ma interessarsi a lui come a se stessi, legarsi a lui, aiutarlo, volergli veramente bene e più bene di quanti si guardano bene dall’irritarlo!
Può succedere e spesso succede che la critica sia sprezzante, sia orgogliosa e generata da motivazioni ben poco nobili, ma in tal caso la critica è sinonimo di presunzione, di arroganza, di disamore e, in ultima analisi, di peccato. La critica come testimonianza di verità e di fedeltà al Signore, e insieme di amore per il prossimo, è una cosa completamente diversa, cosí diversa da far spesso ricadere proprio su chi la fa l’antipatia e la maldicenza altrui, il severo giudizio di individui o intere comunità non disposti a cambiare abitudini o stili di vita persino se in gioco sia la possibilità di essere più graditi a Dio stesso.
Della critica chiara, precisa, obiettiva, circostanziata, tutti noi abbiamo bisogno, perché essa è un grande servizio di carità che consiste nell’aiutare e lasciarsi aiutare a leggere se stessi in spirito di verità, al fine di migliorare la propria vita e di camminare più rettamente nella via del Signore. E’ provvidenziale che una coscienza apparentemente in pace con se stessa venga aiutata a scoprirsi ben più conflittuale di quanto si potesse immaginare.
Giovanni Paolo II, nel suo viaggio ad Agrigento di molti anni or sono, ammoní con inusitato e profetico vigore, i mafiosi siciliani e non siciliani, e in altre occasioni non esitò a criticare aspramente quanti si macchiassero di evidente e pubblico peccato. Analogo atteggiamento tenne papa Benedetto nello stigmatizzare il carrierismo, l’uso privatistico della Chiesa, il dare scandalo ai piccoli e ai semplici. Perché mai, dunque, tutti gli altri cristiani dovrebbero comportarsi diversamente nell’ambito della loro quotidianità?
A volte è facile criticare, è vero, specialmente se le critiche sono piuttosto pregiudizi, maldicenze, calunnie, se non addirittura manifestazioni inconfessate di gelosia, di invidia o rivalità personali, ma criticare per il cristiano in tante occasioni è non solo doveroso ma anche molto faticoso e costoso, perché si rischia l’isolamento, l’emarginazione, l’invisibilità nella società come nella comunità religiosa di appartenenza. E’ sorprendente che dopo due millenni di storia cristiana, nelle nostre chiese si continui a commentare, ancora troppo frequentemente, il “porgere l’altra guancia”, il “non giudicare”, il dover “amare i nemici” ed altre espressioni similari, come inviti a forme passive, regressive, pavide e umanamente infruttuose di carità piuttosto che a forme consapevoli, responsabili, realistiche e proficue di amore anche in un ambito storico-mondano. Eppure, il senso delle parole di Gesù può emergere limpidamente sia da una precisa contestualizzazione delle frasi da lui pronunciate, sia da uno studio comparativo attento e non occasionale o saltuario dell’Antico e del Nuovo Testamento nonché da una esegesi particolarmente ispirata che non a tutti, e ci si riferisce anche a teologi affermati e a conclamati “maestri” di dottrina, è sempre concesso come dono.
Nel caso specifico della correzione fraterna, dell’opportunità o meno di rimproverare riservatamente o pubblicamente il prossimo, della liceità o illiceità della critica e via dicendo, generalmente dai pulpiti delle nostre chiese si sentono fare discorsi non solo generici e scontati, ma cosí parziali, unilaterali e riduttivi da essere percepiti, persino tra ascoltatori bene informati ma benevoli, come portato di una mentalità non solo paternalistica e quietistica ma soprattutto incapace di cogliere il messaggio di Gesù nell’insieme dei suoi aspetti e delle sue articolazioni, laddove però è da precisare che questo stesso rilievo va mosso a quei sacerdoti che, con eccessiva disinvoltura esegetica, a volte non si accorgono di presentare Cristo come una specie di zelota più colto e raffinato.
Ora, è vero che la nostra giustizia di cristiani dev’essere diversa da quella dei farisei, che hanno la tendenza ad ammonire con aria di superiorità e senza misericordia, incutendo paura per ottenere rispetto e obbedienza, ma questo non implica affatto, nella logica evangelica, che l’amore debba essere esercitato sempre con toni dolci e distensivi e con atteggiamenti dialogici e comprensivi. Basta considerare attentamente la vita di Gesù, i suoi scatti caratteriali, le sue invettive contro la vecchia e autoreferenziale classe sacerdotale, i suoi aspri rimproveri non di rado rivolti ai suoi stessi discepoli, la sua sdegnata reazione al soldato che lo schiaffeggia, le sue minacce per tutti coloro che non intendano deliberatamente convertirsi a Cristo. C’è un momento, nella vita di Cristo come di ogni essere umano, in cui bisogna capire che non è più opportuno difendersi, replicare ad accuse inique, resistere al male imperante da cui si è travolti, e quello è il momento della croce più angosciosa e dolorosa della nostra vita, ma questo spirito di rinuncia e di offerta di sé che comunque deve accompagnare sempre l’esperienza terrena del cristiano, appare tanto più significativo e prezioso ove quest’ultimo abbia altresí dimostrato di amare Dio e il prossimo senza mollezze o sentimentalismi spirituali bensí reagendo pacificamente ma energicamente ad ogni forma di male e di peccato e spronando anche con le maniere forti, se necessario, i singoli o l’intero popolo di Dio a conversioni reali e non fittizie.
Per amare davvero gli altri, scriveva Agostino, bisogna amare innanzitutto se stesso, e poiché per amare se stessi non di rado occorre sottoporsi a vere e proprie torture psicologiche o morali, non si vede perché nei confronti del prossimo bisognerebbe comportarsi diversamente. Ecco perché, egli scrive (Discorso 387), «chi disprezza la correzione è infelice. Si può rettamente aggiungere a questa massima: come chi disprezza la correzione è infelice, cosí chi ricusa di dare la correzione è crudele. Chi ferisce è misericordioso, chi risparmia è crudele. Vi pongo un esempio dinanzi agli occhi. Il padre anche quando ferisce ama. E non vuole che il figlio perisca. Non bada al suo sentimento paterno, pensa a ciò che è utile al figlio. Perché? Perché è padre, perché prepara l'erede, perché educa il suo successore. Ecco: colpendo, il padre si mostra buono, colpendo si mostra misericordioso. Se il figlio, che è inesperto e non viene corretto, vive in maniera da perire, e se il padre fa finta di niente, se il padre lascia correre, se il padre teme di urtare il figlio traviato con la severità della correzione, risparmiandolo non si mostra crudele? Il problema, allora, non è chi sono io per dire qualcosa all’altro, ma prendersi la responsabilità e la libertà dell’amore».
Bisognerà stare attenti in particolare a non trasformare la mitezza pastorale in arrendevolezza pastorale e il vangelo cristiano della giustizia e della misericordia in un cristianesimo à la page, morbido e “politicamente corretto” che richieda un essere cristiani a prezzo molto scontato. La misericordia evangelica, da esercitare sempre nei limiti della verità e della giustizia di Dio, non potrà tuttavia né erodere i dogmi e i comandamenti né sminuire o svalutare il posto centrale e fondamentale che la verità occupa nel racconto della rivelazione di Dio e della sua opera di salvezza. Questo potrebbe accadere solo contro Cristo e la sua Chiesa, anche se per ipotesi alcuni dei fautori di questo deprecabile evento dovessero essere membri più o meno autorevoli di quest’ultima.
Ove la misericordia, nella percezione dei fedeli, dovesse diventare qualcosa di contrapposto alla verità, alla giustizia e ai precetti divini, non solo si incorrerebbe in un non senso teologico ma si affretterebbe la morte del più grande dono elargito all’uomo da Dio: proprio di quell’amore cui tutti oggi si richiamano ma di cui molti, troppi oggi parlano più per soffocarlo che per tenerlo in vita a beneficio dell’umanità.