Meccanismi e variabili del comportamento umano
Il celebre psicanalista Alfred Adler, in un’opera del 1927 intitolata “La conoscenza dell’uomo nella psicologia individuale” (Newton Compton, Roma, 1994, con trad. di Francesco Parenti), scriveva: «Possiamo già renderci conto che i bambini trattati dalla natura come da una matrigna sono inclini ad assumere verso la vita e gli uomini un atteggiamento diverso da coloro ai quali sono state elargite fin da principio le gioie dell’esistenza. Si può porre come principio che tutti i bambini affetti da inferiorità organica si trovano facilmente impegnati in una lotta colla vita, che li devia verso un soffocamento del loro senso comunitario, cosicché assumono con facilità il comportamento di chi si occupa sempre più di se stesso e dell’impressione che desta nel mondo, che degli interessi degli altri». Questa osservazione, fondata su precisi riscontri empirici, è indubbiamente vera nei limiti in cui essa venga riferita a soggetti infantili affetti da evidenti abnormità fisico-organiche o da altrettanto manifeste disfunzioni cerebrali, mentre potrebbe essere vera ma non è sempre o necessariamente vera per bambini o adolescenti affetti da forme più o meno gravi di disagio psicologico anche se esteriormente normodotati, in quanto anch’essi in vario modo carenti sotto l’aspetto affettivo, relazionale e motivazionale. La tesi di Adler è che, in generale, anche se il riferimento adleriano va principalmente al mondo femminile, più una persona è deprivata in senso cerebrale o fisico o più semplicemente estetico, maggiore sarebbe in essa la spinta a moti di invidia, di rivalità, di competizione.
Il problema è che, come la stessa esperienza storico-empirica insegna, questo ragionamento, pur valido almeno come ipotesi scientifica in relazione all’universo di individui segnati da malformazioni, anomalie, disturbi originatisi su base genetico-ereditaria o dovuti a traumi di diversa natura tra cui quelli familiari e ambientali, sembrerebbe applicabile anche a molteplici casi di individui dotati, come suol dirsi, di sana e robusta costituzione, di non alterata struttura genetica, di apporti educativi ben equilibrati, di risposte affettive più che adeguate.
Questo per dire che l’invidia, la gelosia, la rivalità, la voglia di primeggiare, sono sentimenti più complessi delle spiegazioni “edipiche” e quindi sessuali di un pur grande indagatore dell’inconscio umano come Sigmund Freud o della teoria “compensativa” o “supercompensativa” formulata da Adler, secondo la quale chi, per i motivi più diversi, ha un complesso di inferiorità determinato da specifiche ragioni genetiche o comunque traumatiche e che lo porti a spendere la vita allo scopo di “valere” tra tanti altri individui che siano stati capaci di affermarsi su piani o ambiti dell’esistenza e della vita sociale ritenuti comunemente importanti, appunto per compensare (talvolta persino in forma di “supercompensazioni” a carattere patologico) i complessi di cui soffre, sarebbe indotto a sentimenti di invidia e competizione non già per motivi sessuali ma per una sorta di aggressività del tutto autonoma da ipotetiche pulsioni sessuali e diretta a fini di affermazione personale ora sotto forma di attacco ora anche sotto forma di difesa.
Per semplificare, qui si può dire che anche chi ha avuto tutto dalla vita e ogni genere di sana affettività e di proficuo ed equilibrato esercizio nelle relazioni interpersonali, e inoltre ogni altro appagamento di carattere sessuale, sociale, economico, professionale e culturale, può covare dentro di sé i sentimenti negativi di cui sopra si è detto. Quante persone fisicamente integre o esteticamente aitanti e appariscenti, pur molto ricercate e ammirate dal loro prossimo, si sentono spiritualmente svantaggiate rispetto a individui meno avvenenti ma caratterialmente ben più determinati che tendono a tenere peraltro a debita distanza? Quante persone particolarmente agiate, pur potendosi permettere ogni svago e lusso, avvertono un senso di fastidio e quindi di disprezzo verso persone, non importa se poche, che vivono serenamente la loro esistenza con quel poco che guadagnano o di cui dispongono? Quante persone supertitolate e superpagate, con o senza merito, nei vari campi della cultura, della scienza o della imprenditoria, pur gratificate da frequenti riconoscimenti accademici o istituzionali e da una vita paludata e tutto sommato comoda e divertente, si scoprono non di rado, attraverso intime e nascoste reazioni di stizza e di rabbia e attraverso atteggiamenti sussiegosi e sprezzanti, meno talentuose di colleghi o figure umane e professionali “marginali” o periferiche?
Ma, d’altra parte, non è affatto detto che dietro giudizi severi o dietro comportamenti moralmente intransigenti debbano nascondersi sempre o necessariamente ambigui e malefici meccanismi psichici, carenze affettive o carenza di autostima, o il tentativo di nascondere i propri egoismi, le proprie debolezze o incapacità. Sempre psicanaliticamente, si può sostenere che lo svilire qualcuno abbia una valenza difensiva in quanto si intaccano o si ridimensionano le qualità dell’oggetto invidiate, per cui il distruggere e il deturpare l’altro o le altrui presunte qualità non sarebbero altro che una palese manifestazione di invidia e una (auto)protezione contro la sofferenza scaturiente dal sapere di non poter possedere tali qualità. Certo, è possibile, ma questo assunto non può costituire una verità assoluta e incontrovertibile, bensí solo una verità ipotetica, relativa e comunque sempre bisognosa di essere corroborata da riscontri fattuali oggettivi.
Anche in questo caso è l’esperienza ad insegnare che, nonostante limiti, contraddizioni, anomalie e vulnerabilità di ogni genere, la mente dell’uomo, il suo cuore, il suo stesso inconscio, funzionano o agiscono non già secondo processi perfettamente uniformi, omogenei, prevedibili, ma secondo modalità note in senso generale e tuttavia almeno parzialmente sconosciute e non catalogabili aprioristicamente in o per mezzo di categorie rigide e definitive. Le variabili della vita sono troppe per poter essere tutte egualmente note, sperimentate e teorizzate. L’uomo è davvero “questo sconosciuto”, per riprendere il titolo di un famoso libro di Alexis Carrel, ben al di là di talune veritiere e sensazionali scoperte della psicanalisi contemporanea.
L’uomo resta sconosciuto pur nella sua progressiva e sempre più significativa conoscibilità umana e scientifica, ed esso continuerà sempre a sorprendere nel male e nel bene perché nel suo essere si riflette l’originaria decisione divina di non rendere scontate e completamente prevedibili ma almeno in parte sorprendenti e reversibili sia le sue potenzialità negative e distruttive che le sue potenzialità positive e creative.
In particolare, per l’uomo di fede, in virtù della rivelazione evangelica, è del tutto sostenibile che, se anche per natura un individuo presenti caratteristiche che ne favoriscano molto un comportamento rancoroso, risentito, ostile verso determinati suoi simili, risulti tuttavia possibile per grazia una conversione di tutte le sue inclinazioni negative in qualità morali e spirituali non solo ineccepibili ma perfino preziose ai fini di una vita comunitaria e di uno sviluppo sociale sostenuti non da forme scontate o convenzionali di solidarietà ma da uno spirito attivo e fattivo di vera e combattiva solidarietà.