Intervista di Luca Gritti ad Achille Damasco – Evoluzione e risonanza*
Achille Damasco, giovane fisico napoletano, ha proposto nella sua teoria rivoluzionaria un nuovo approccio al paradigma evolutivo darwiniano. La tesi, basata su principi della Fisica della materia, potrebbe sostituire e superare le comuni teorie evoluzionistiche
Prima di chiederti di esporre la tua teoria vorrei chiederti, innanzitutto, cosa non ti convince di quella di Darwin. Secondo il biologo britannico l’evoluzione della specie è un processo lento, graduale, determinato sostanzialmente da due fattori: la selezione naturale, attraverso la famosa lotta per la sopravvivenza, ed i mutamenti contingenti, casuali. Grazie a questi due processi, le specie viventi hanno una loro evoluzione, ma possono anche avvenire passaggi da una specie all’altra. Ecco, vorrei che prima della pars costruens, mi esponessi la tua pars destruens. Esistono davvero la selezione naturale e le mutazioni dovute alla semplice contingenza? È vero che dei mutamenti determinati dal caso, se si reiterano per alcune generazioni, portano a caratteri che diventano ereditari? Infine: sono possibili i passaggi di specie?
La selezione naturale e le mutazioni casuali in quanto tali esistono, non è su questo che si muove la nostra pars destruens. Affrontiamo quindi prima i problemi della selezione naturale. La sopravvivenza del più adatto tra più possibilità esistenti di caratteri (fisici o comportamentali) non la può negare nessuno, non perché ampiamente corroborata, ma perché non può che essere tale in quanto tautologica. Parafrasando lo scrittore Michael F. Flynn, la selezione è quel principio per cui se (in qualche modo) un carattere (in qualche modo) cambia e se tale cambiamento (in qualche modo) comporta un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza, allora si diffonderà in una popolazione vivente. Tale diffusione però è conseguenza dell’impulso stesso di sopravvivere, per cui con la selezione si postula l’effettiva sopravvivenza di chi è in grado di sopravvivere. Le mutazioni genetiche casuali, per definizione, mutano, il loro limite è di natura quantitativa: siccome ogni essere vivente è tale grazie al complesso di interazioni tra proteine, il cui numero però è al di sopra dell’umana comprensione, allora un cambiamento casuale viene tollerato da un essere vivente solo finché provoca variazioni entro certi limiti di tale complesso. Alla luce di ciò, non riteniamo possibile che mutamenti reiterati (benché ereditari) portino al passaggio verso una nuova specie.
Molti credono che la teoria di Darwin sia una legge intoccabile, una verità definitiva ed incontrovertibile. Se dovessi provare a metterla in discussione in una conversazione qualsiasi, mi guadagnerei al massimo sarcasmi ed ironie. Eppure, già all’inizio del Novecento era caduto un forte discredito sulla teoria darwiniana e moltissimi scienziati autorevoli ne avevano contestato i fondamenti: il genetista di fama internazionale William Bateson ed il grande biologo italiano Umberto D’Ancora tra i tanti. Insomma, durante la prima metà del Novecento la teoria di Darwin era considerata datata e anacronistica. Come contestatore di Darwin, sei in buona compagnia. Ora, senza indagare qui le motivazioni sociali, politiche ed economiche che portarono molte eminenze grigie a veicolare in modo mediaticamente efficacissimo una teoria che in sede scientifica era molto traballante, ti voglio chiedere: com’è possibile che gli scienziati abbiano, perlomeno alcuni di loro, continuato a propugnare una teoria che pure aveva dei limiti scientifici così evidenti? Esistono pavidità ed acquiescenza in seno a certi ambienti della comunità scientifica?
La crisi del darwinismo che lei ha citato riguardava la consapevolezza che la selezione naturale, in quanto mero filtro, è inutile a spiegare l’evoluzione se non è accoppiata da un fenomeno che spieghi la nascita di nuovi caratteri. All’epoca citata, dopo aver appurato che i cambiamenti lamarckiani basati sull’uso e il disuso di un organo non sono ereditabili (li cito perché Darwin li aveva inglobati nella sua teoria), dopo aver constatato che la “normale” variabilità presente in una qualunque specie ha dei limiti già noti a tutti gli agricoltori e allevatori, allora non si poteva andare avanti col darwinismo. La rinascita fu merito della scoperta delle mutazioni casuali (usando un linguaggio moderno successivo alla scoperta del DNA), i cui limiti sono già stati affrontati nella risposta precedente. Per quanto riguarda la situazione attuale, non credo che dovremmo ricorrere a spiegazioni basate su pavidità ed acquiescenza, perché reputo le problematicità più strutturali: da un lato, siccome una qualunque variazione della frequenza con cui compare un certo carattere viene già considerata “evoluzione”, esistono innumerevoli ricerche formalmente riconosciute come studi (corroborazioni) del neodarwinismo anche se non vi è comparsa di una nuova specie. Da un altro lato, per un qualunque scienziato impegnato a spiegare l’evoluzione, risulta naturale andare a caccia di tutti i possibili fattori capaci di modificare un carattere, perdendo di vista la grande ma sottaciuta evidenza che le specie in realtà sono sistemi estremamente stabili. Può sembrare controproducente partire dalla stabilità per spiegare l’evoluzione, ma proprio questo è stato il nostro approccio.
Ora veniamo al tua lavoro: cosa prevede, se puoi esporla sinteticamente, la Teoria delle Risonanze Evolutive?
La TRE prevede innanzitutto che l’effetto combinato della selezione naturale e delle mutazioni genetiche casuali sia solo un cambiamento di tipo oscillante, in cui ciò che oscilla è il tipo di carattere più diffuso in una popolazione (con una frequenza che possiamo considerare “propria”, cioè dovuta a caratteristiche intrinseche della specie). Il secondo principio afferma che, preso un certo parametro ambientale (cioè esterno alla specie), se questo passa da un particolare valor medio ad un altro, allora durante il passaggio intermedio oscilla, con una frequenza tanto maggiore quanto più è forte la differenza tra i due valori. Il principio che dà il nome alla teoria si basa sul considerare prima un ulteriore sottoinsieme dei possibili cambiamenti esterni alla specie, cioè quelli capaci di un tipo di cambiamento dei caratteri detti “epigenetici” (perché provocano un modo diverso con cui un certo gene si esprime, senza però modificare il DNA). Se quindi un cambiamento oscillante di questo tipo ha una frequenza che è uguale a quella “propria” della specie, si ha un fenomeno di risonanza (detta “evolutiva”) che biologicamente consiste nella trasformazione di una specie in un’altra. Applicando poi altre proprietà delle risonanze e tenendo conto delle interdipendenze tra i caratteri, si giunge a vari corollari atti a spiegare altri fenomeni evolutivi, in modo coerente con i tre principi enunciati.
Ora mi piacerebbe riflettere con te sul tema, a mio avviso misconosciuto e sottovalutato, ma di importanza vitale, delle implicazioni filosofiche che ha avuto la teoria darwiniana. Penso ci sia un passo tratto da Delitto e Castigo molto significativo: Luzin, personaggio superficialmente attratto dalle idee europee, espone la teoria di Darwin e la collega al liberismo economico sostenendo che se ciascuno fa il proprio interesse, badando esclusivamente alla propria sopravvivenza, alla fine ne beneficiano tutti. E Raskolnikov, protagonista del romanzo, prontamente gli risponde: “Traete le conseguenze di quello che avete appena predicato e ne verrà fuori che si può benissimo sgozzare la gente…”. Mi sembra che in poche righe si sia mostrato benissimo il legame tra darwinismo biologico e liberismo economico così come la terribile legittimazione dell’arbitrio, della libertà di “sgozzare la gente” che si dovrebbe supporre se si seguissero queste teorie dalle premesse alle conclusioni più estreme. Se vivo in un sistema economico che mi spinge a perseguire solo il mio utile, che male faccio uccidendo qualcuno; e se so che la natura è regolata secondo una lotta di sopravvivenza, cosa me ne faccio delle categorie morali? Vedi anche tu questa implicazione? E d’altro canto, se la tua teoria riuscisse a scalzare quella di Darwin, pensi che questo potrebbe provocare un cambiamento, oltre che nella consapevolezza della comunità scientifica, anche in quello della gente comune?
Penso che stia immaginando qualcosa che quasi sicuramente va troppo oltre la teoria in sé, vista come costrutto intellettuale atto a descrivere un’ampia classe di fenomeni naturali. Credo che non siano le teorie scientifiche a cambiare le mentalità delle persone, perché tutte le teorie per loro natura si rivolgono esclusivamente ai loro oggetti d’indagine. Credo che sia sempre un pre-esistente apparato di potere, incluso quello mediatico, a trovare di volta in volta qualcosa per la giustificazione razionale della propria esistenza. Può essere la filosofia, la religione, l’economia o la scienza, su questo aspetto tutto dipende solo dal secolo di riferimento. Inoltre, più la scienza progredisce, più si complica, per cui senza un opportuno apparato divulgativo che strizzi l’occhio ai valori dominanti di una certa epoca, non avviene l’impatto sulla mentalità delle persone. Per esempio, se si escludono vari tipi di spiritualisti che sfruttano concetti di meccanica quantistica per giustificare la propria filosofia, tale teoria non ha cambiato il nostro modo di pensare alla nostra collocazione nel mondo e nella società come è riuscito a fare il consumismo. Al contrario, domina ancora un’idea ottocentesca di materialismo fatto di palline colorate che si scontrano. Tornando all’evoluzione, ciò che veramente rischia di diffondersi nella società non è un’idea darwiniana o lamarckiana (o altra) dell’evoluzione, ma magica. Penso alla fiaba in cui una proto-scimmia scende da un albero, si mette in piedi, sfrutta le mani libere per cacciare, mangia la carne e quindi le sostanze in essa contenuta le sviluppano il cervello rendendola intelligente. Bisogna essere fortunati quando invece si trova una persona che crede che noi siamo comparsi sulla Terra per caso o per combinazione. Che valga il darwinismo o no, che tale modo di vedere noi stessi abbia un fruttuoso impatto pedagogico lo trovo impossibile.
Ora vorrei sollecitarti a parlare della figura dello scienziato. Credo che oggi questa figura abbia un peso, d’influenza ma anche banalmente mediatico, molto forte. Gli scienziati diventano dei guru, dei maitre a penser, vengono adorati ed emulati, certi loro atteggiamenti esistenziali vengono presi ad esempio da seguire: penso alla dieta vegetariana di Umberto Veronesi o all’ateismo proverbiale e militante di Margherita Hack, per citarne alcuni. Ora, cosa pensi di questa estensione della sfera d’influenza dello scienziato, di una certa sua mitizzazione mediatica?
Penso che sia dannosa per la scienza, perché il suo rigore che tanto ci affascina e il potere applicativo di cui godiamo sempre più i suoi frutti siano conseguenza del suo limitarsi a ciò che è quantitativo e osservabile. Purtroppo, le cose più importanti e belle della vita non sono né quantitative né spiegabili con ciò che (eventualmente) ci possono dire i cinque sensi. Inoltre, la scienza ha bisogno dei suoi tempi, sia per quanto riguarda la fase speculativa (o meglio creativa) del suo lavoro, sia per quella sperimentale. Aspettarsi pareri su cose come l’etica oppure che arrivi subito, se non ogni giorno, una nuova scoperta significativa o una nuova applicazione, è una negazione delle realtà che ho segnalato. Infine, la mitizzazione dello scienziato non la trovo molto educativa, perché come tutte le mitizzazioni creano quell’idea fatalista per cui “fai ciò che sei” (se sono un genio, farò qualcosa di grande, altrimenti no), mentre noi esseri umani, liberi e autocoscienti, dovremmo insegnare l’opposto, “sei ciò che fai” (se studio, medito, mi impegno e imparo dagli errori, produrrò un risultato importante). Spero di essermi spiegato su quest’ultimo punto.
Molti dicono che la scienza, in un mondo di relativismo, è l’ultima verità “forte”. Ma è davvero così? Scrive Nietzsche in Al di là del Bene e del Male: “Oggi cinque o sei cervelli cominciano a rendersi conto che anche la fisica è soltanto un’interpretazione e una sistemazione del mondo (secondo noi! se ci è lecito dirlo) e non una spiegazione del mondo; ma nella misura in cui essa si fonda sulla fede nei sensi, essa ha un valore superiore e a lungo andare ne dovrà avere ancora di più, dovrà valere, cioè, come spiegazione. Essa ha a suo vantaggio gli occhi e le dita, essa ha l’apparenza e la tangibilità; ciò esercita un effetto magico su un secolo il cui gusto dominante è plebeo, un effetto di persuasione, di convinzione (…)”. Ma alcune conclusioni a cui approda la scienza sono realmente “verità”. Voglio dire: se Copernico dice che la terra gira intorno al sole, e non viceversa, non si può più tornare indietro al modello tolemaico, quella scoperta è una verità. Ma altre teorie scientifiche, come quella darwiniana, sono confutabili e confutate. La scienza dà verità definitive o provvisorie, fatti o interpretazioni? In questo senso, pensi che la TRE sia una teoria ancora emendabile, o che approdi a degli esiti definitivi?
Posso rispondere usando un’altra citazione di Nietzsche che apprezzo molto: i fatti sono stupidi. In questo caso, seppur esagerando nel linguaggio, il filosofo nichilista per antonomasia ci ricorda che un fatto in sé e per sé è solo un dato, in scienza in particolare tipicamente è solo un numero. Nel suo esempio, il baricentro del sistema rotante Sole-Terra è largamente spostato verso il Sole, è un fatto indiscutibile, ma preso da solo, non spiega niente. Occorre una teoria della gravitazione (prima di Newton, poi di Einstein, domani chissà) per dare una spiegazione scientifica del sistema in esame. Il guaio delle spiegazioni scientifiche è che, per essere scientifiche, devono poter essere vere solo fino a prova contraria (inclusa la TRE). In sintesi, con fatti stupidi da un lato e spiegazioni provvisorie dall’altro, le verità forti non possono provenire dalla scienza. Che ne siamo consapevoli oppure no, per poter vivere, siamo costretti a dover postulare (cioè da trattare come vero per principio) tantissime cose, che siano un complesso di proprietà da attribuire a fattori evolutivi oppure anche solo il semplice fatto che il Sole domani sorgerà.
* Pubblicata in “L’’intellettuale dissidente” del 24 giugno 2017