Il giusto secondo lo spirito
In materia di conoscenza o di cultura è possibile distinguere, sia pur semplificando, tra tre categorie di persone: quelle che non sanno di non sapere, quelle che sanno di non sapere e quelle che sanno o presumono di sapere. Chi non sa di non sapere è colui che non è abbastanza cosciente, in buona o cattiva fede, di avere dei limiti e quindi della precarietà o dell’inadeguatezza delle sue conoscenze; chi sa o presume di sapere è colui che, nell’ambito del suo mestiere o della sua professione e delle sue “competenze”, ritenga di essere sostanzialmente ineguagliabile o insuperabile, pur non dichiarandolo per falsa modestia, almeno rispetto a quanti non svolgono formalmente la sua stessa attività professionale o specialistica; e infine chi sa di non sapere è colui che ammette umilmente la sua ignoranza in campi conoscitivi di cui ha poca o nessuna esperienza pur essendo desideroso di capire e di apprendere oppure colui che, pur sapendo alcune o molte cose e conoscendole in profondità, comprende che sa ancora e saprà sempre troppo poco rispetto alla totalità non solo del sapere possibile ma anche dello stesso sapere già prodotto o acquisito nella storia della cultura.
La coscienza della propria “ignoranza” può essere più o meno ampia, profonda o, per usare il termine cusaniano, “dotta”, ed è anche in relazione ad essa che si può intendere correttamente il concetto evangelico di “piccoli” o di “semplici” ovvero di quelle persone che, quale che sia il loro grado di conoscenza e la loro condizione culturale, si sentono intimamente sempre “poveri” non solo rispetto a Dio ma anche rispetto a quanti potrebbero essere dotati più di lui, si sentono limitati e soprattutto bisognosi di una luce superiore a quella che può offrire non solo la propria intelligenza personale ma anche la conoscenza intellettiva e razionale in genere dell’uomo, di una luce derivante innanzitutto dall’interiore accettazione della rivelazione. Naturalmente, le categorie di cui sopra non vanno intese in senso statico ma in senso dialettico, ovvero nei termini della possibilità che si possa anche gradualmente e inavvertitamente passare dall’una all’altra di esse, per cui non c’è essere umano cui sia preclusa in modo definitivo la possibilità stessa di accedere al novero dei “piccoli” e dei “semplici” di cui parla Gesù. Il problema è quindi pratico ben più che teorico e, di conseguenza, i nostri giudizi sugli altri, posto che presuppongano un severo e puntuale esame del nostro io personale, potranno avere nel migliore dei casi un valore non certo assoluto ma relativo.
Piccolezza e semplicità, però, da un punto di vista religioso e cristiano sono anche un “dono” che possono ottenere esclusivamente coloro che avvertono davvero e non in modo velleitario o ipocrita la propria sostanziale insufficienza, pur se talvolta pienamente o lucidamente consapevoli di aver ricevuto la grazia divina di una sapienza particolarmente illuminata e profonda e destinata a rimanere “nascosta” ai “dotti” e ai “sapienti” del mondo.
Non solo insignificanti figure di un’apparente o presunta spiritualità, ma persino teologi oltremodo preparati e attenti possono correre il rischio di aderire o appartenere alla mentalità di quest’ultimi. Molti di noi neppure sospettano quanto sia facile appartenere alla folta e variegata schiera degli “stolti”, secondo l’accezione biblico-evangelica, e restare distanti dal dono della sapienza intesa ad un tempo come virtù naturale e come dono dello Spirito Santo.
Non è semplice pensare secondo il Logos divino che coincide con uno “spirito di verità” e uno “spirito d’amore”, né sono certi ruoli spirituali ufficiali e certe cariche ecclesiastiche riconosciute a poter garantire un rapporto di particolare familiarità con esso o a scongiurare il pericolo di quella ignoranza colpevole e non “dotta” che è la “durezza di cuore”. La stoltezza è un grave “vizio” che, al di là dei ruoli professionali scientifici o religiosi ricoperti e degli stessi livelli intellettivi di ciascuno, può colpire chiunque non si eserciti continuamente nella difficilissima arte chenotica dell’abbassamento personale che non ha nulla a che vedere con forme più o meno furbe e nascoste di falsa modestia o di umiltà simulata quanto piuttosto con una reale e sincera percezione dei propri limiti effettivi e della disponibilità altrettanto genuina ad imparare da soggetti per grazia di Dio obiettivamente più dotati anche se anonimi ora sotto un determinato e specifico profilo conoscitivo, ora sotto un profilo etico-comportamentale, ora infine sotto un più ampio profilo spirituale.
Non solo. Chi detiene uno speciale “dono” o “carisma” divino, non si pone il problema di dover apparire umile ma è o resta umile proprio in quanto lo eserciti con determinazione seppure possa essere ostacolato dalla malizia e dalla perfidia degli uomini e si trovi a dover subire e affrontare molteplici e difficoltose contrarietà. Qualunque cosa accada, e sia pure con la dovuta prudenza, egli sa che deve onorare il carisma ricevuto attraverso un’instancabile e appassionata testimonianza di fede nella verità, nell’amore e nella giustizia di Dio stesso.
Si può possedere un’intelligenza sopraffina ed essere grandi intellettuali, scienziati, artisti, senza possedere quell’apertura spirituale che consenta di accogliere consapevolmente e responsabilmente i carismi divini: si può essere “stolti” ed “empi” pur essendo dotati di straordinarie qualità di indagine, di analisi e di sintesi, mentre paradossalmente si può essere sapienti o più sapienti in senso spirituale nonostante un’ipotetica esiguità di conoscenze e di mezzi logici, concettuali e dialettici, a condizione però che ad un’oggettiva condizione di arretratezza culturale non risulti abbinato il tarlo della presunzione, dell’arroganza e della vanagloria. Spesso i sapienti del mondo non si avvedono di quanto i loro ragionamenti siano complicati, tortuosi, distorti, di quanto i loro discorsi siano insensati e pretenziosi, né appaiono coscienti di tutte le falsità e le iniquità che il loro pensiero viene producendo e pronunciando, anche se da questo non si deve dedurre che i più, quelli che non sanno o che sanno meno, siano necessariamente migliori sul piano spirituale e religioso, essendo essi esposti, non meno dei primi, a quelli che si suole definire come vizi capitali.
Dev’essere anzi ben chiaro che, al di là delle forme in cui può manifestarsi una tortuosità di pensiero e una povertà spirituale, anche gli incolti, gli ignoranti intesi nel senso più deteriore del termine, gli analfabeti e gli analfabeti di ritorno, i rozzi di spirito, possono correre gli stessi rischi e risultare affetti da quella caecitas mentis che è una forma di cecità di gran lunga peggiore della stessa cecità fisica, perché, mentre i ciechi in senso fisico non possono vedere ma desiderano vedere, i ciechi in senso mentale e spirituale non possono vedere semplicemente perché non desiderano vedere.
La partita resta aperta tra chi sa e chi non sa, tra chi sa di più e chi sa di meno, ammesso che esista un criterio univoco e oggettivo per stabilire se chi sa di più comprenda (nel senso etimologico di cum-prehendere, prendere nel suo insieme, cogliere qualcosa o la realtà nella sua pienezza o essenza) non già le cose celesti alle quali può non “credere”, ove non sia capace di accogliere il dono della fede, ma le stesse cose terrene o mondane di cui quotidianamente si occupa, in un modo più proficuo rispetto a chi sa di meno, all’incolto o all’inesperto.
Il giusto, sia pure in senso relativo, colui cioè che si sforza di applicare la sapienza divina alla propria vita e ai rapporti interpersonali, e di testimoniare onestamente, malgrado errori e cadute morali e spirituali da cui non è certo indenne, la sua fede nella verità e nella giustizia, lo si può trovare sia nella famiglia delle persone “colte” che in quella delle persone “incolte”, nel senso che sarà sempre pronto ad imparare senza sussiego il vero e il bene anche dagli incolti oppure sentirà il bisogno vitale di apprendere ciò che non conosce o non ha ancora sperimentato moralmente da uomini saggi e virtuosi. Il giusto, che non pretende mai di essere tale, è severo in quanto testimone intransigente del vero e di valori spirituali imperituri ma è anche comprensivo e amorevole verso i miti e gli umili di cuore; resiste ai superbi e ai prepotenti non tanto per odio o avversione personale quanto per un’inderogabile esigenza spirituale di fedeltà a Dio e alle sue leggi; si assume la responsabilità di apparire intrattabile e insopportabile pur di non venir meno ai suoi doveri e di non compromettersi con logiche meschine di questo mondo.
E’ ovvio che una figura del genere sia destinata a suscitare negli altri, almeno nell’immediato, più antipatia e avversione che apprezzamento e stima. Come recita il libro della Sapienza: “È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Siamo stati considerati da lui moneta falsa, e si tiene lontano dalle nostre vie come da cose impure. Proclama beata la sorte finale dei giusti e si vanta di avere Dio per padre. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine” (Sap 2, 14-17). Sono parole riferite profeticamente al giusto per antonomasia che è Cristo, ma esse sono applicabili a tutti coloro che, sia pure imperfettamente e con l’aiuto determinante dello Spirito Santo, cercano di seguirne le orme.
Il giusto, peraltro, non è un eroe; anzi spesso è un uomo debole e inerme, un uomo che ha paura di tutti e non ha paura di nessuno, perché confida in Dio sempre e comunque. Può sembrare un folle e uno stolto per il suo radicale anticonformismo non di maniera anche se è lucidissimo e ben presente a se stesso. E’ agevole, per la sua ostinazione a non voler venire a patti con nessuno, appiccicargli addosso etichette di imbecillità, stupidità, idiozia, demenza e via dicendo, benché appaia sempre in grado di replicare con puntualità e precisione a tutte le critiche ed obiezioni. In un solo caso preferisce tacere: quando la malafede di avversari e accusatori è reiterata e del tutto sorda alle sue risposte o motivazioni, a prescindere dalla qualità o dal valore veritativo che queste contengono.
Alla mentalità puramente o essenzialmente pragmatica di questo mondo il giusto, costantemente orientato verso un ordine sovrannaturale e santo di valori piuttosto che verso il prendersi affannosamente cura della realtà empirica ed immediata e di un connesso e specifico contesto sociale, appare necessariamente un individuo asociale e fondamentalmente avulso dalle normali occupazioni terrene, e non è infrequente il caso in cui molti individui “normali” di questo mondo lo giudichino pazzo semplicemente perché egli in realtà rileva e denuncia la profonda stoltezza del loro pensare e del loro vivere.
Perciò, la persona tendenzialmente saggia, e in particolare il cristiano, è sempre alle prese con un ineliminabile dilemma: se e come essere “sapiente secondo lo spirito”, dal momento che la sua più grande tentazione è quella di essere “sapiente secondo la carne”. Perché, come è noto, soltanto i giusti secondo lo spirito «splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13, 43).