La morte e Maria
La morte è la conseguenza del peccato e, pur considerata nell’ottica della fede e dell’offerta volontaria di sé a Dio, essa rimane comunque un momento tragico e doloroso. Lo fu anche per Gesù e per Maria, anche se il primo conobbe subito la resurrezione e la seconda passò dolcemente e quasi inavvertitamente da questa vita all’altra. Per tutti noi, però, la morte è sul piano psicologico il fatto più traumatico e temibile della nostra vita terrena e solo la fede può aiutarci ad affrontarla con dignità confidando nella promessa di una vita eterna fattaci da Cristo.
Noi non possiamo sapere esattamente cosa sia l’altra vita perché non ne abbiamo esperienza, anche se, sulla base della rivelazione evangelica, possiamo supporre che essa sia totalmente nuova e diversa da quella presente pur conservando in essa la coscienza della nostra identità personale. In questo senso, la fede ci consente di capire che la nostra vita, che comincia su questa terra, poi non si ferma più, e che, come suol dirsi, il nostro “futuro è già cominciato”. Noi qui siamo in esilio sotto il pungolo del peccato ma sotto la grazia salvifica di Dio siamo anche in cammino con Cristo verso la nostra patria celeste.
Il nostro esodo esistenziale non è privo di una meta e questa meta è la terra promessa ovvero il regno di Dio di cui facciamo già parte ma in cui dimoreremo felici solo dopo aver attraversato il baratro espiatorio della morte. Ma, intanto, dobbiamo affrontare la morte, che mortifica il nostro orgoglio di creature che, nonostante ogni progresso scientifico e tecnologico, non potranno mai evitare questa sconfitta che spazza via tutto: dagli affetti alle attività e al possesso di qualunque genere. Tuttavia, se tutte le geniali abilità umane non potranno conquistare l’immortalità eternamente agognata, esse potranno essere recuperate e trasvalutate in una vita immortale che non dipende da esse ma solo da Dio.
Per godere di tale vita immortale, bisogna però fare di tutto per raggiungere durante e al termine della nostra vita la piena e definitiva comunione con Dio. Ecco: in questo senso noi, particolarmente nel momento terminale della nostra vita, dovremmo desiderare e diventare possibilmente, con sincerità non fittizia, tutto quello che Maria è stata nel corso di tutta la sua vita terrena. Attraverso questo sforzo di emulare Maria, la sua umiltà non di facciata, la sua fede mai meccanica ma sempre ardente e ardimentosa, il suo amore mai interessato o equivoco ma limpido e splendente come un cielo terso e inondato di luce, potremo essere certi che la morte non è una condanna ma una liberazione e una liberazione definitiva da tutte le angustie dello stato presente.
Forse, come è stato giustamente osservato, la “teologia della liberazione” dovrebbe approfondire quest’aspetto della realtà umana e riflettere adeguatamente su quel che diceva sant’Agostino, e cioè che, per riassumere con le parole di uno studioso, «nel settimo giorno saremo noi stessi, acquisteremo cioé non solo piena coscienza del nostro essere immortale, ma saremo proprio quella personalità definitiva che abbiamo cercato di essere».
Tranne Gesù e, a ruota, Maria, che sono riusciti ad essere già su questa terra quello che volevano e dovevano essere, quello che ab aeterno erano stati chiamati ad essere, tutti gli altri esseri umani, ivi compresi i grandi santi, sono rimasti e restano almeno parzialmente delusi sia per quello che in modo imperfetto sono riusciti o riescono a realizzare sia soprattutto per quello che invece avrebbero voluto o vorrebbero realizzare senza tuttavia riuscirci. Tra i più grandi e santi uomini del mondo, non ce n’è stato e non ci sarà mai uno che alla fine della sua vita potrà dire serenamente come Gesù: “Tutto è compiuto”.
Nessuno, tranne appunto Maria, che non lo disse e non lo pensò per umiltà, ma che avrebbe potuto ben dirlo con gli occhi sorridenti rivolti verso il Padre compiaciuto e “orgoglioso” di lei: era stata sempre infaticabilmente al servizio del suo Dio, aveva compiuto in modo esemplare la missione di dare fisicamente e spiritualmente il Figlio suo divino al mondo in attesa di essere salvato, aveva assecondato completamente Gesù accettando sino in fondo il suo duplice impegnativo destino di Donna e di Madre di Dio e dell’umanità, aveva offerto tutta se stessa a Dio e agli uomini con una devozione e una puntualità impensabili persino per il migliore o la migliore di noi.
Noi siamo spesso creature insoddisfatte che avvertono il disagio spirituale di non riuscire a concludere positivamente la maggior parte delle missioni che la Provvidenza ci affida, ammesso e non concesso che riusciamo a percepire tutti i compiti da essa assegnatici. Nei casi migliori si riesce a prendere umilmente atto dei propri limiti senza recriminare e senza abbatterci oltre misura, consci che tuttavia il Signore ha posto e pone i suoi figli nella condizione di servirlo ugualmente e di ben figurare ai suoi occhi nonostante la loro incapacità e i loro limiti. Ma ci si porta dietro sino alla morte il senso di un’imperfezione da colmare, di un amore da integrare ancora, di una libertà ancora provvisoria, di una felicità pur sempre parziale. A chi più e meglio che a Maria, che vide la morte sul volto del figlio suo e del suo Dio, si potrebbe affidare soprattutto in punto di morte questo nostro anelito di amore totale e di perfezione assoluta?
Lei ci aiuterà proprio nel momento estremo della nostra esistenza, quali che siano le nostre condizioni cliniche e il nostro stesso stato d’animo, ad abbandonarci nelle mani misericordiose di Dio con la stessa amorevolissima fiducia con cui ella certamente sarà stata capace di consegnarsi a lui morendo.
Sempre solidale e premurosa con noi nella vita, vorrà e saprà esserlo ancora di più nella morte, perché nella morte saremo completamente e radicalmente soli e più radicalmente soli di come eravamo nel momento della nostra nascita, perché nella morte non ci sarà più nessun essere umano che, nonostante ogni sforzo, possa prendersi realmente cura di noi. Solo Maria sarà lí a consolarci, a raccogliere le nostre ultime richieste di perdono e di amore, a riporre nel cuore di Cristo Salvatore e Giudice le nostre ultime speranze di vita immortale. Ella ci porterà da un’altra parte, in una nuova dimensione, in un grande regno in cui scopriremo forse di essere stati attesi da sempre e di essere amati più di quanto noi potessimo sospettare.