Il cristianesimo originario forse annacquato ma non cancellato
Il cristianesimo è una religione che ormai, soprattutto nelle società occidentali ed eccezion fatta per un numero molto esiguo di credenti, non riesce più a governare la morale di quanti pure continuano a professarsi cristiani. Il che significa che esso comincia ad essere storicamente e culturalmente irrilevante se non necessariamente destinato a scomparire, pur nell’unanime ammirazione del mondo per essere sempre lì quale faro di luce e di speranza per tutti i popoli nonostante una storia ultrasecolare che ha segnato via via la morte di ogni altra grande istituzione politica, civile e culturale della civiltà umana. C’è chi, come per esempio Karl Kautsky, ha ritenuto che il cristianesimo quale è venuto affermandosi nel quadro della storia della Chiesa cattolica sia molto diverso e sul piano etico-politico molto più povero del cristianesimo delle origini, predicato da Cristo e dai suoi apostoli, benché il teorico marxista ne abbia individuato le origini non nei miracoli e negli eventi sovrannaturali narrati dai vangeli ma nelle condizioni sociali e nelle attese popolari di liberazione che esistevano nelle diverse fasi storiche dell’impero romano e in particolare nella Palestina dei tempi di Gesù (K. Kautsky, L'origine del cristianesimo, Roma, Samona e Savelli, La nuova sinistra, 1970).
Solo che in tal modo, a causa di una lettura sostanzialmente storico-materialistica del racconto evangelico e della connessa ipotesi di una calcolata manomissione dei testi evangelici secondo la quale sarebbero stati da essi espunti tutti gli aspetti politicamente più inquietanti e più antitetici ai rigidi e spesso autoritari e repressivi assetti di potere assunti progressivamente dalla Chiesa nel corso della sua storia, si è finito per mettere in discussione non solo la storicità dei vangeli, in una linea che va da Bruno Bauer a Engels e allo stesso Marx e si estende appunto ai Kautsky e a successivi fronti laicisti del pensiero contemporaneo, ma la stessa specificità religiosa del cristianesimo che non può essere oggettivamente né svuotato della sua inconfondibile spiritualità religiosa, aperta al trascendente e al sovrannaturale, né ridotto a semplice anche se imponente ideologia tra altre ideologie storiche o a messaggio rivoluzionario di tipo politico-sociale, pur restando probabilmente vero che sussista una certa discontinuità, una differenza di sensibilità, una qualche eterogeneità valoriale tra il cristianesimo delle origini e quello storico successivo sino ad arrivare alla sua forma odierna, al di là del fatto che nelle pieghe più nascoste e meno ufficiali della genesi e della costituzione dei testi-documenti evangelici potrebbero celarsi interventi o operazioni indebiti volti a “normalizzarne” e a “spoliticizzarne” taluni dati o passaggi originari e costitutivi forse più “eversivi” della forma in cui a tutt’oggi possono essere letti.
Si può dunque ammettere, come ipotesi di studio, che il messaggio evangelico di Gesù, nonostante l’eccellente opera di interpretazione-selezione compiuta dai Padri della Chiesa (la cosiddetta Tradizione) al fine di stabilire quali testi provenienti dal passato dovessero essere considerati autentici oppure inautentici, possa essere stato talvolta tradito o annacquato dalle alte gerarchie ecclesiastiche nelle varie epoche della storia della Chiesa, e che anche oggi esso venga interpretato, predicato e comunicato ai fedeli e al mondo in termini molto più prudenti e rinunciatari, molto più rassicuranti e conformi-stici, nonostante talune impennate pastorali di taglio apparentemente anticonformistico, di quel che sarebbe necessario fare alla luce del primo, originale e autentico vangelo di Cristo Gesù, ma tale ammissione non implica in alcun modo che il vangelo possa essere mai stato un contenitore ideologico di rabbia umana e sociale, di violenza incipiente sempre pronta ad esplodere in modo devastante e distruttivo contro ogni genere di violenza, di oppressione e di prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Non ci sono proprio elementi nei documenti storici di cui disponiamo che autorizzino minimamente a ritenere attendibile una siffatta ipotesi.
Tuttavia, benché storicamente non sia mai possibile tornare indietro per ripetere pedissequamente nel bene o nel male determinate esperienze del passato, se proprio si volesse ripensare e rivivere criticamente e costruttivamente la fede cristiano-cattolica dell’oggi alla luce della fede e della pratica cristiane delle origini, si dovrebbe riflettere innanzitutto sul coraggio intellettuale e morale di molti cristiani di allora nel testimoniare spesso apertamente e a rischio della vita la propria fede in Cristo e nei suoi insegnamenti, così come erano stati trasmessi dalla prima predicazione apostolica, in una società pagana la cui religiosità, per così dire, aveva risvolti “civici” e “politici” o di utilità civile e politico-statuale quasi completa-mente assenti o al più marginali nella religiosità cristiana.
Può anche darsi, come sostiene lo storico americano del cristianesimo primitivo Robert Louis Wilken nel suo libro I Cristiani visti dai Romani (Brescia, Paideia, 2007), che la religione e la cultura cristiane debbano qualcosa, per come sono giunte a noi, anche a intellettuali pagani che avevano posto ai cristiani domande, obiezioni, istanze di non trascurabile importanza (ivi, p. 261, ma degno di considerazione è anche E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un'epoca di angoscia, Firenze 1970 e, soprattutto, per quanto riguarda il drammatico epilogo dello scontro tra pagani e cristiani, Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino, Einaudi 1968, un volume collettaneo curato da Arnaldo Momigliano), e che, reciprocamente, gli intellettuali cristiani, nel difendere la propria fede e nel rivendicarne l’assoluta novità e originalità rispetto a qualsiasi altra forma di religiosità esistita o esistente, abbiano aperto nuove prospettive o nuovi orizzonti spirituali alla cultura greco-romana e alle tradizioni intellettuali e religiose del mondo antico (ivi).
Ma, in definitiva, il merito storico e culturale della vittoria, perché alla fine di vittoria si trattò, conquistata dal mondo cristiano-cattolico rispetto alla cultura pagana alla fine di una drammatica battaglia che, anche sul piano teologico e culturale, sarebbe divampata e si sarebbe consumata tra il primo e il quarto secolo dopo Cristo, non può che essere riconosciuto a quegli intrepidi e fedeli seguaci di Cristo che, preservando la purezza della sua predicazione e della predicazione apostolica anche e innanzitutto dai molteplici e reiterati tentativi settari di adulterarne il significato e lo spirito, sarebbero stati capaci di dimostrare evidentemente la superiorità intellettuale e spirituale della verità rivelata su tutte le altre verità del mondo, ivi comprese quelle presunte di altre forme di religiosità, aggregando altresì attorno ad essa, in modo sempre più stabile, masse via via crescenti di popolo.
Ora, se il problema per il nostro tempo è quello di stabilire in che modo sia possibile mantenere i contatti con il cristiane-simo delle origini o ricucire con esso un rapporto che tende talvolta ad usurarsi o a strapparsi, bisogna distinguere: una cosa è l’istanza di un ideale ritorno alla fede delle origini, e quindi alla prima fede apostolica e alla religiosità delle prime comunità cristiane, sul piano teologico, esegetico, catechetico, e in questo senso probabilmente se ne sa o meglio se ne può sapere anche di più rispetto a quel che potette essere acquisito dai nostri progenitori correligionari, che apprendevano l’essenziale della Parola di Dio e del messaggio evangelico per via esclusivamente orale e in modo talvolta disorganico o non sistematico, senza disporre di tutte le fonti di informazione, istruzione e formazione di cui è invece possibile usufruire oggi; altra cosa, e anzi profondamente diversa, è tale istanza intesa però nel senso del modo di percepire, di sentire, di mettere in pratica la fede, ovvero tutto ciò che si riferisce più all’ortoprassi che all’ortodossia della fede stessa, e da questo punto di vista, il più decisivo ai fini della esemplarità della vita spirituale e religiosa, persino i cristiani più consapevoli, responsabili e integri della civiltà contemporanea rischiano continuamente di sfigurare al confronto con molte delle generazioni di cristiani che vissero nei primi secoli dell’era cristiana.
Fu per la particolare purezza e intensità della loro fede e delle loro convinzioni religiose, per la incondizionata fedeltà al loro Dio e ai suoi santi precetti, per il grande amore verso la loro Chiesa, per la straordinaria volontà e capacità di condivisione sia nell’ambito delle cose e delle necessità materiali che in quello delle cose e delle necessità spirituali, per l’uso sincero e corretto e quasi mai strumentale, malizioso o mistificatorio che venivano facendo della Parola di Dio e delle Scritture, fu per tutto questo che quelle generazioni riuscirono a sgretolare un impero apparentemente invincibile, quantunque attanagliato da crisi periodiche sempre più profonde e corrosive, a resistere alle invasioni barbariche e a gettare persino le fondamenta di un nuovo mondo e di una nuova civiltà. Il “piccolo resto” biblico-evangelico sarebbe diventato comunità, assemblea di popolo, popolo di Dio realmente e coralmente partecipe di quell’inedito e non più impersonale senso del sacro che il Cristo aveva introdotto nella storia degli uomini per mezzo del principio spirituale e sacramentale della duplice comunione con Dio e il prossimo.
Non ci fu bisogno, in quel tempo così lontano dal nostro, di grandi figure di monaci, di profeti, di teologi, di pastori di anime, che tuttavia ci furono e fecero encomiabilmente la loro parte, per essere vigili nella preghiera e nella pratica del bene, per avere presente e chiaro il senso del peccato, per cogliere il significato effettivo di certe pratiche penitenziali, per discernere rettamente tra bene e male o tra giusto e ingiusto, per saper riconoscere le realtà aberranti del mondo e per distinguerle dalle cose sante insegnate da Cristo e dai suoi più degni testimoni.
Non ce ne fu bisogno perché allora le cose principali della fede e della dottrina cristiana erano oggetto, pur nella semplicità dei modi, di larga condivisione ecclesiale, di fresca e spontanea intuizione popolare prima che di raffinate analisi teologiche, di ascolto e meditazione collettivi piuttosto che di riservate dispute o incontri teologici: non pochi dogmi di fede, scaturiti dalle accese e spesso drammatiche controversie dei primi secoli di storia cristiana, non sarebbero stati mai acquisiti stabilmente dalla Chiesa, specialmente nei primi secoli della storia cristiana, senza il sostegno determinante e spesso tumultuoso di vere e proprie moltitudini di fedeli, e non sono mancati casi in cui certe conquiste teologiche sarebbero state conseguite addirittura in contrasto con le posizioni di uomini di Chiesa e teologi: si pensi, per esempio, ai ricorrenti dibattiti sul ruolo teologico da riconoscere alla madre di Gesù e a quel culto mariano voluto storicamente, sia pure sotto il decisivo influsso dello Spirito Santo, molto più da masse di fedeli che non dai rappresentanti della Chiesa istituzionale e gerarchica, oppure a tanti processi di canonizzazione richiesti, ottenuti e portati favorevolmente a compimento a furor di popolo.
Nella storia della Chiesa, in effetti, ha sempre giocato e continua a giocare, sia pure in forme oggi meno appariscenti e clamorose di ieri, un ruolo importantissimo il cosiddetto sensus fidei, nella sua duplice articolazione teologica di sensus fidei fidelis (ovvero quello dei singoli battezzati) e di sensus fidei fidelium (quello cioè della Chiesa nella sua globalità comunitaria ed ecclesiale). Il sensus fidei, sempre animato e sollecitato dallo Spirito Santo e radicato non immediatamente nella riflessione dogmatica e teologica ma più originariamente e profondamente in un’esperienza più immediata e diretta del sacro e in un’intelligenza intuitiva di verità di fede non ancora acquisite o consolidate (intuitiva e quindi non ancora mediata per l’appunto sul piano logico-concettuale e teologico-sistematico), è un mezzo o un tramite di fondamentale importanza per lo stesso magistero della Chiesa e per la teologia, e non è un caso che questa importanza per la vita stessa della Chiesa sia stata sottolineata tra il 2011 e il 2014 da una Commissione teologica internazionale, presieduta dal card. Gerhard L. Müller prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che tra l’altro scriveva: «L’importanza del sensus fidei nella vita della Chiesa è stata fortemente sottolineata dal concilio Vaticano II. Respingendo la distorta rappresentazione di una gerarchia attiva e di un laicato passivo, e in particolare la nozione di una rigorosa separazione fra Chiesa docente (Ecclesia docens) e Chiesa discente (Ecclesia discens), il Concilio ha insegnato che tutti i battezzati partecipano secondo il modo che è loro proprio alle tre funzioni di Cristo profeta, sacerdote e re. Ha in particolare insegnato che Cristo esercita la funzione profetica non soltanto per mezzo della gerarchia, ma anche attraverso il laicato».
Ecco, oggi bisognerebbe ricordarsene più spesso, nel senso che sia i chierici sia i laici dovrebbero esserne più consapevoli, magari recependo in modo più attivo e corale di quanto non avvenga e con maggiore passione esistenziale e spirituale le continue e urgenti sollecitazioni dello Spirito Santo. Per una maggiore gloria di Dio e per una più sicura salvezza degli uomini.