Non il celibato sacerdotale ma la continenza sacerdotale è dono di Dio
Concordo generalmente con quanto vengono scrivendo e testimoniando i fratelli di “Corrispondenza Romana” sulle colonne della loro rivista on line. Ogni tanto, però, il dissenso dalle loro posizioni prende il posto della consonanza, come è giusto che accada anche tra fratelli e sorelle in Cristo, e questo accade anche oggi, a proposito di un articolo firmato da Mauro Faverzani che anticipa alcune dichiarazioni del cardinale Raymond Leo Burke tassativamente contrarie ad un’apertura della Chiesa sulla vexata quaestio del celibato sacerdotale (Cardinale Burke: il celibato è un dono di Dio, in “Corrispondenza Romana” del 25 settembre 2019). Il cardinale non ritiene che questo tema sia suscettibile di sviluppi teologico-magisteriali significativi ed esclude quindi che i sacerdoti cattolici di domani possano essere anche coniugati o che almeno gli uomini già sposati possano essere ordinati, sia pure a determinate condizioni, presbiteri e ministri di Cristo.
Posso senz’altro convenire che coloro che hanno accettato di essere ordinati presbiteri con una libera rinuncia al matrimonio non potrebbero e non dovrebbero ritrattare la loro scelta nel caso in cui dovesse cambiare la disciplina ecclesiastica, giacché non si può continuare ad appartenere integralmente a Cristo Signore venendo meno alla propria coerenza spirituale. Ma, per il resto, ovvero per quanto riguarda i cosiddetti viri probati, uomini sposati teologicamente preparati e spiritualmente integri, comincia ad essere davvero incomprensibile l’ostinata chiusura di gran parte delle gerarchie ecclesiastiche alla eventualità di un’ordinazione sacerdotale, eventualità corrispondente, come molti sanno, ad un’antica prassi del primo, lungo millennio della storia della Chiesa.
Ma, anche al di là di riferimenti storici pure pregnanti e indiscutibili, sono gli stessi testi neotestamentari che legittimano il punto di vista opposto a quello di Burke e compagni. Gesù non parla di celibato, non ne parla se la parola celibe si intende nel suo senso più proprio, che è quello per cui un uomo rinuncia al matrimonio: celibe, infatti, è semplicemente colui che non prende moglie. Ma Gesù non parla dei celibi bensì degli eunuchi, di quelli che decidono per meglio servire il regno dei cieli, non ancora sposati o già sposati che siano, di non fare uso della propria sessualità per accrescere il proprio stato di castità, per evitare complicazioni sentimentali e inevitabili contrattempi familiari, per essere spiritualmente e praticamente più diretti e più liberi nel servizio verso Dio e il prossimo: «Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19, 12).
Non si tratta di cercare il pelo nell’uovo. Gesù, se avesse inteso dire che i suoi discepoli in senso stretto non dovessero sposarsi, non avrebbe avuto difficoltà ad usare parole ancora più chiare e precise di quelle espresse nel brano citato, ma egli in realtà si esprime diversamente perché non pensa affatto che un uomo già sposato non possa farsi eunuco per il regno dei cieli. Non solo, ma dovrebbe essere per tutti ben significativo il fatto che egli, in primis, affida la Chiesa non già a colui che egli amava ovvero a Giovanni, ma, guarda caso, proprio ad un uomo sposato con figlia come Pietro. Non è un dato che possa passare inosservato: meditiamo, riflettiamo, ragioniamo. D’altra parte, c’è qualche teologo cattolico che, per rintuzzare le argomentazioni che si sta qui adducendo, cita quel passo paolino che recita: «Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!» (1 Corinzi 7, 32-33).
E’ un ragionamento che Paolo fa legittimamente e con una certa dose di realismo apostolico ad uso dei non sposati, per incoraggiarli a rimanere quanto più disponibili possibile alla volontà del Signore, senza per questo sottintendere che gli uomini sposati siano necessariamente inidonei ad assolvere una funzione apostolica. Tant’è vero che, ben conscio di come evangelicamente una condizione celibataria non fosse per nulla indispensabile alla sequela apostolica di Cristo e di come invece ad una condizione di verginità fosse chiamato anche l’uomo sposato, in un diverso contesto scrive: «bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo» (1 Tim 3, 1-6).
Dunque, a Paolo come principalmente a Gesù non interessa tanto il celibato in sé quanto la continenza che notoriamente può essere del tutto assente da una vita celibataria mentre può essere presente nella vita matrimoniale, come del resto la storia della Chiesa tante volte si è incaricata e continua ad incaricarsi di dimostrare. Sbaglia Burke nell’identificare il celibato con “la perfetta continenza per il Regno dei Cieli” (parole sue), perché è molto difficile negare, sia sul piano logico-teologico che su quello fattuale, che gli uomini sposati possano essere più continenti e più santi di tanti uomini celibi. Vorremmo forse mettere in dubbio che il primo a saperlo fosse nostro Signore? Semmai, oggi più che mai, ci sarebbe da chiedersi cosa possa celarsi dietro certe scelte celibatarie specialmente quando esse siano funzionali ad una ordinazione presbiterale. Ma, come suole dire Gesù, “chi può capire, capisca”. Non il celibato sacerdotale, come sostiene Burke, ma la continenza sacerdotale è un inestimabile dono di Dio. Mi pare che si tratti di concetti profondamente diversi.