L'inferno esiste e non è vuoto*
Un'immagine dello stato attuale di confusione e smarrimento dottrinale nella Chiesa cattolica è riscontrabile relativamente ai novissimi, sia nella predicazione ordinaria sia nella percezione comune dei fedeli, ormai ridotti a due: morte e paradiso. Scompare l'immagine del Dio giudice considerata inappropriata, infantile e veterotestamentaria davanti a un Dio “buono” e “misericordioso”; scompare a maggior ragione l'immagine dell'inferno che, se c'è, ospiterebbe solo demoni (sempre che ci si creda) e qualche personaggio storico particolarmente malvagio.
Per cui il convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata di p. S. Lanzetta, L'inferno e dintorni. È possibile una dannazione eterna?, Cantagalli 2010, a cui ha fatto seguito la pubblicazione degli Atti, curati dallo stesso Lanzetta per i tipi Cantagalli (pp. 366, E. 22) oltre che opportuno appare di grande attualità.
Un convegno animato tra l'altro da teologi e studiosi di grande spessore (Lanzetta, Tabet, Manelli, Gherardini, Hauke, Bux, Apollonio, Andereggen, Cavalcoli, Siano, Calkins) e organizzato secondo lo schema classico che parte dalle fonti della Rivelazione cioè Scrittura e Tradizione, illuminate queste dal Magistero, dai Padri e dalla Liturgia per poi giungere alla riflessione teologica nella quale si è evidenziato un progressivo stravolgimento giunto fino a negare l'esistenza dell'inferno o a svuotarla di significato. Con gravissime conseguenze su tutto l'impianto dottrinale cattolico, dalla morale alla soteriologia.
Che l'inferno esista è una verità di fede, enunciata lungo tutta la Scrittura, che fa da pendant al premio del paradiso e della vita eterna. L'Antico Testamento si limita a preannunciare nei Salmi, nei profeti ed in modo sempre più preciso nei libri sapienziali un giudizio escatologico col quale i giusti ed empi verranno separati. Ma sarà proprio l'insegnamento di Gesù, illuminato anche dalla teologia paolina, a delineare con forza e a precisare le condizioni della pena infernale. Dunque è proprio Gesù, colui che come Dio incarnato è amore e misericordia, a parlare con più insistenza della realtà del castigo infernale.
La morte, conseguenza del peccato, è vinta da Cristo e si trasforma in un ingresso nella beatitudine e nella luce eterna per chi come il martire “muore per il Signore” e per chi mettendosi alla sua sequela è “vissuto per Lui” (Rm. 14.7 e Fil. 1,20). Ma il dono della salvezza può essere rifiutato per cui, chi torna al peccato o non accoglie Cristo, alla morte non può che restarne, per sempre, separato. Padre Manelli rileva che “la morte fisica costituisce il punto determinante per la sorte definitiva immutabile per ciascuno”. Cioè, per salvarsi, occorre morire in stato di grazia e lo stesso Gesù ci invita più volte alla vigilanza, a non farsi cogliere impreparati dalla morte e dal conseguente giudizio di Dio che riguarderà ogni azione umana: pensieri, parole, opere e omissioni. Quando Cristo tornerà alla fine dei tempi a coloro che condannerà rivolgerà la terribile frase “Allontanatevi da me, voi che commettete l'iniquità (Mt 7,23)”.
La conquista della vita eterna, del Regno è accompagnato nella predicazione di Gesù da una alternativa escatologica rappresentata dall'esserne esclusi: nel discorso della montagna, rileva sempre p. Manelli, ciò accade a causa di una condotta morale contraria al Vangelo o per una scarsa adesione alla Buona Novella. Ma quanto sia impegnativo l'essere cristiani e il conseguimento della salvezza lo si rileva dall'analisi delle sei antitesi nelle quali Gesù istruisce i suoi discepoli: non adirarsi contro il fratello, il divieto dello sguardo adultero, del ripudio, del giuramento, l'invito a porgere l'altra guancia e l'amore per i nemici. Soprattutto nelle prime due antitesi la minaccia di Gesù è la Geenna. Gesù arriva ad affermare che “chi dice: pazzo [al fratello], sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Mt 5, 21-22). Così come si ritiene preferibile l'amputazione di un arto o di un occhio prima che questo sia strumento di cedimento alla concupiscenza e causa di dannazione.
C'è una frase di Gesù in Mt 13-14 che riassume in che modo il cristiano debba affrontare la vita di fede:”Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano”. Queste parole di Gesù non possono essere ridotte a una semplice minaccia, perché esse descrivono una realtà escatologica reale. Gesù non vuole atterrirci con una minaccia vana, anzi ci sprona alla lotta (Luca usa il verbo greco άγωνίζεςθε, preso dal gergo sportivo, cioè, sforzatevi), a vigilare su noi stessi, ci chiede un cuore, una mente e uno sguardo puro, una volontà ferma, tanta umiltà e coraggio di riprenderci dalle nostre cadute (attraverso i sacramenti) perché la sua misericordia è grande e sorpassa (ma non cancella) la sua giustizia in virtù del fatto che il premio promesso è davvero grande.
E' un ammonimento che dobbiamo tenere presente: la porta larga conduce i più alla perdizione perché verrà il giorno in cui Gesù come giusto giudice separerà le pecore dai capri e dirà alle une “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo (Mt 25,34) mentre ai capri: ”Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli ...e se ne andranno questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna”.
Terrorismo religioso questo? No, amorevole pedagogia divina volta alla nostra salvezza.
Il Magistero ha precisato nei secoli la dottrina dell'inferno. Non si trova molto nei primi quattro secoli, segno di una adesione scontata su tale dottrina nella giovane Chiesa. Emergono vari Simboli nei quali ci si concentra sulla realtà del giudizio universale, sulla discesa di Cristo agli inferi e sul suo ritorno a “giudicare vivi e morti. D'altronde, sottolinea Gherardini il dogma “è spesso la risposta formale all'emergenza ereticale”. E fu così per le dottrine origeniane sull'apocatastasi. Nel "Symbolum Quicumque” di fine V secolo si afferma la fede nella risurrezione dei corpi con esiti antitetici, la realtà della condanna eterna, la pena del fuoco.
Innocenzo III con la lettera Maiores Ecclesia causas (1201) intravide la corrispondenza tra peccato e pena operando nella distinzione tra pena privativa e pena positiva la corrispondenza tra pena legata al peccato originale e quella legata al peccato “attuale”. Nel IV Concilio di Lione (1274) si afferma come verità di fede l'eterna e immediata condanna di chi muore in stato di peccato mortale. Al Concilio di Firenze, nel riconfermare queste definizioni di fede, si afferma l'esclusione dal regno di Dio per pagani, giudei, eretici, scismatici.
La Chiesa ha mantenuto ferme nel corso dei secoli queste verità di fede sull'inferno come si evince sia nel Credo del Popolo di Dio di Paolo VI (1968), sia nella Lumen Gentium (48/d), sia nell'ultimo Catechismo.
Rilevante l'intervento di Nicola Bux che ha evidenziato una tendenza nelle ultime riforme liturgiche a sbiadire e mettere in secondo piano la realtà dell'inferno. Tale tendenza si palesa anche nei riti battesimali e negli esorcismi. In controtendenza il ripristino del pro multis nella preghiera eucaristica, voluto dall'allora card. Ratzinger: non solo per fedeltà al testo greco ma anche perché se è vero che Gesù è morto per salvare tutti e Dio vuole che tutti si salvino è anche vero che Dio ci lascia liberi di rifiutare la salvezza e così avviene per alcuni. Illuminante poi una considerazione del Bux nel rapporto tra liturgia e sacramenti:”l'opera più subdola del diavolo consiste nello svuotamento-separazione tra il segno sacramentale e la sua efficacia, la grazia a favore di un simbolismo sacramentale appena evocativo, integrato e oscurato da altri segni ...un simbolismo che dichiara il superamento di fatto del 'simbolo' di Cristo per eccellenza, il Sacramento, soprattutto l'Eucaristia”.
L'intervento di P. Lanzetta, in relazione al problema grazia/giustizia di Dio risponde alla obiezione centrale dell'uomo moderno:”Come potrebbe anche Lui che è il bene condannare, quando l'uomo è condannato dai suoi simili?”. Il rischio allora è di trasformare la speranza della salvezza proiettando in Dio il desiderio di veder cancellata dal mondo l'ingiustizia, ignorando però la giustizia di Dio e” trasformandola in un perdonismo che dà sì conforto all'uomo e alla storia, ma ne trascura la sua verità”. “Questo è un inganno e in definitiva, risponde p. Lanzetta, la disperazione: Dio è fatto a nostra misura e non siamo più noi che dobbiamo aderire a Lui conformandoci alla sua giustizia”. In realtà il Dio che salva è veramente il Dio che proprio perché buono e giusto che giudica la storia e gli uomini, ripara i torti, cancella e distrugge definitivamente il male confinando nell'inferno chi lo ha praticato e chi non ha voluto separarsene.
La questione dell'inferno non aveva mai rappresentato un problema nel cattolicesimo: oggi invece lo è diventato. L'uomo moderno è incapace di concepire un Dio buono che punisce e per di più con castigo eterno. Una concezione soggettivistica della religione e della salvezza penetrata nel cattolicesimo, concepisce al massimo come peccati degni di condanna efferati omicidi compiuti da sinistri personaggi della storia o da serial killer, o può scandalizzarsi ancora per qualche grande truffa con grave ricaduta sociale o ambientale ma ha totalmente smarrito il senso morale del peccato, l'idea e la condizione dell'essere in stato di grazia con Dio; così come gli strumenti (i sacramenti) per ricevere la grazia vengono svilititi o consumati con faciloneria sacrilega dimenticando che ogni rapporto inadeguato con il sacro, come ci ricorda Eliade, può divenire “pericoloso”.
La stessa enfasi che certi teologi pongono sull'auto-giudizio che l'anima compirebbe davanti a Dio, pur in sé fondato, rivela tale soggettivizzazione come evidenzia p. Lanzetta richiamandosi a Leo Scheffczyk: sarà obiettiva l'anima nel giudizio? E soprattutto per l'anima che muore in stato di peccato mortale sarà possibile capire la dimensione di tale gravità senza il confronto con Dio? “In verità – afferma p. Lanzetta – il peccato non è percepito come tale da chi ha come misura solo se stesso”. In più, “se la condanna è semplicemente un autocondanna, l'uomo che normalmente si giustifica, proietterebbe in Dio il suo desiderio di assolvimento e Dio non sarebbe altro che un riflesso di questo desiderio”. Con il rischio anche in questo caso di fare dell'uomo l'unico protagonista che proietta se stesso negli stati escatologici e costringe Dio ad “essere vittima dei propri capricci” paralizzandone la sua giustizia.
Ma è possibile che Dio chiuda gli occhi davanti al male?
Diviene necessario, per sciogliere l'equivoco, chiarire il concetto di giustizia e giustificazione. P. Lanzetta lo fa esaminando la teologia della giustificazione paolina: la giustificazione di Dio non è più una giustizia derivante dalla Legge ma da Dio in Cristo nel quale l'uomo viene assunto. Nella Croce si manifesta la giustizia di Dio, quale atto salvifico, dono di grazia attraverso il sangue di Cristo, strumento di espiazione nel Cristo trattato come peccato a nostro beneficio, attraverso il quale si restaura la giustizia, si ottiene l'atto di grazia salvifico che giustifica l'uomo. Nella Croce grazia e giustizia sono congiunte ma ogni interpretazione antinimostica e lassista deve escludersi perché il perdono che Dio concede all'uomo è frutto “di un severo atto di giustizia, “è redenzione nella purezza e santità, rifiuto reciproco del male”. Perché un effetto fondamentale che la giustificazione implica è il morire con Cristo al peccato dell'uomo vecchio per partecipare alla vita risorta in Cristo attraverso cui si giunge alla salvezza. Qui è evidente che la giustificazione attraverso cui le colpe sono rimesse produce dei frutti di santità che conducono alla salvezza l'uomo che risponde positivamente alla grazia.
Se si vuole una prova dell'evidente ribaltamento culturale avvenuto in questi ultimi decenni rispetto ai venti secoli precedenti all'interno della Chiesa cattolica è sufficiente gettare uno sguardo sulla riflessione teologica sull'inferno del periodo postconciliare. Mentre nei secoli precedenti era la Chiesa a cercare di permeare il mondo della propria fede, adesso è la Chiesa stessa (almeno in alcuni suoi esponenti peraltro molto rappresentativi) che finisce per farsi permeare dal mondo: nel linguaggio, nelle aspirazioni, nelle idee, nella prassi.
Tale catastrofico evento per la fede, è ben lumeggiato nella seconda parte del convegno dei Francescani dell'Immacolata Inferno e dintorni. E' possibile una eterna dannazione?. I campioni di questo rinnovamento teologico presi in esame sono teologi del calibro di Hans Urs Von Balthasar, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, teologi che hanno impresso una clamorosa virata alla riflessione dottrinale della Chiesa. Ognuno di loro, su un livello diverso, è riuscito pienamente nel demolire questa verità di fede: Von Balthasar (studiato da Andereggen e Hawke) attraverso raffinate e complesse riflessioni teologiche che sembrano addirittura partire da dati teologici tradizionali, quasi su un livello “esoterico”, Rahner e Schillebeeckx, studiati dal domenicano padre Cavalcoli, offrono invece criteri teologici innovativi che superano la visione tradizionale (Rahner) o ne prescindono (Schillebeeckx).
La teologia di Schillebeeckx è la meno elaborata ed è ispirata a un criterio illuministico di giustizia. I dannati per il teologo olandese non esistono perché il reprobo verrà annientato dal giudizio di Dio in considerazione anche del fatto che risulterebbe inconcepibile avere dei beati eternamente felici che hanno accanto, nello stesso universo, dei dannati eternamente infelici. Il riferimento scritturale è Apocalisse 20,6 dove però la “seconda morte” è in realtà la definitività della condanna infernale. Ma come ben individua Cavalcoli il reprobo, il condannato all'annientamento eterno, non è colui che è vissuto nel peccato col quale si è separato dall'amicizia di Dio. Il peccato è inteso naturalisticamente (e in stretta dipendenza da una visione socio-politica della fede come dimostrò il suo sostegno alla teologia della liberazione, nonché il totale svincolamento da preoccupazioni di ortodossia e di fedeltà al magistero), e limitato a coloro che hanno praticato sistematicamente l' ingiustizia nei confronti del prossimo (il che si ridurrebbe a pochi casi che avrebbero scelto definitivamente il male), dunque circoscritto su un piano meramente etico-sociale. Infatti la Grazia è ridotta ad un dono di Cristo che non conduce a vivere una vita pienamente divina e soprannaturale, ma semplicemente la propria pienezza umana. Così come non coglie il significato espiativo del sacrificio di Cristo la cui condanna sulla Croce, per lui, è semplicemente un atto criminale, tanto da affermare che ci salviamo “nonostante la croce”.
Molto più complessa e tutt'altro che lineare è invece per Cavalcoli la teologia di Rahner, il vero ispiratore di molta parte della teologia conciliare e postconciliare, l'inventore della “svolta antropologica”.
Non nega l'esistenza dell'inferno, ma riduce la dannazione a una semplice possibilità che tuttavia la sua elaborazione teologica finisce per scartare, soprattutto, dice lui, alla luce della riflessione conciliare. In Rahner lo scavo dal solco teologico tradizionale è profondo, articolato e dirompente. Gli uomini per Rahner sono tutti buoni, anche gli atei sono cristiani anonimi, la grazia non è qualcosa di contingente che si aggiunge alla natura umana, ma è una “autocomunicazione divina” (ma la sostanza personale non è incomunicabile?!) originariamente presente in tutti, necessaria alla pienezza dell'esistenza poiché l'uomo è “autotrascendenza verso Dio” che a sua volta è “l'orizzonte della trascendenza”. L'impostazione di fondo hegeliana della teologia rahneriana e quindi come felicemente la definisce il Cavalcoli monistico-dialettica che “risolve tutto nel Logos divino immanente nella storia come riconciliatore universale” finisce per avvicinarlo all'apocatastasi origeniana.
Il suo ottimismo escatologico deriva dalla sua concezione sull'uomo, la grazia e il peccato.
L'antropologia rahneriana è fondata su tre elementi: soprannaturalismo, storicismo e autoctisi (creazione di sé). La dimensione della soprannaturalità sta nella grazia intrinseca alla natura (quasi la natura contenesse ed esigesse automaticamente la grazia - qui similmente a De Lubac -, e quindi impossibile perderla: dunque l'uomo è un “graziato” per antonomasia). Nel pensiero di Rahner la natura può scomparire nella grazia e viceversa. Fondamentale anche il secondo aspetto legato al rapporto tra la natura umana e la storia perché rifiutando l'immutabilità della natura umana essa si determinerebbe di volta in volta nel farsi della storia.
Consequenzialmente nel terzo tratto relativo alle attività dell'uomo, cioè al pensare e al volere, l'uomo finisce per creare se stesso, plasmando in tal modo la propria natura, messa a disposizione della creatività umana da Dio. Così non esistono valori definibili, immutabili ed universali: l'uomo si auto-crea nella libertà.
La tesi poi che Dio e l'uomo condividano il medesimo orizzonte e la medesima origine della trascendenza fanno sconfinare Rahner in un malcelato panteismo nel quale natura umana e natura divina sono indistinguibili.
Anche la Grazia è stravolta nel pensiero rahneriano poiché:”non ha bisogno di essere pensata come un evento intermittente di Dio in un mondo in sé profano, ma è un esistenziale della creatura spirituale permanentemente dato...”. Contrariamente a quanto la Scrittura insegna sia riguardo la distinzione di Dio dal mondo, sia riguardo la grazia come dono divino distinto comunque da Dio. La grazia così intesa diventa Dio stesso, principio intrinseco dell'uomo” dissolvendo così la trascendenza divina e rituffandosi ancora nel panteismo.
Quando Rahner affronta il tema del peccato diventa difficile capire cosa pensi realmente, alternando posizioni tradizionali, espressioni di matrice luterana (l'uomo pecca sempre), altrove sfiorando la bestemmia (Dio responsabile del peccato perché avrebbe permesso che si introducesse nel mondo) per risolvere il tutto nell'idea (dialettica) che il peccato si annulla da sé in quanto il no a Dio è allo stesso tempo un sì a Dio (si pensi all'ateo per lui cristiano anonimo, sorretto dalla grazia e che nella negazione afferma comunque Dio). Ma questo procedimento dialettico lo conduce a portare l'opposizione a Dio all'interno di Dio stesso e non al di fuori, per cui si può addirittura concludere, spiega Cavalcoli, che in Rahner l'inferno è dentro Dio.
Il senso di queste sue riflessioni, corroborate - a suo dire - dall'evento Concilio, inducono Rahner ad affermare che si può legittimamente sperare per la salvezza dell'intera umanità, senza che necessariamente i singoli uomini debbano convertirsi perché l'evento Cristo è il fondamento della speranza della salvezza universale e che la grazia “si impone anche universalmente” sulla libera decisione dell'uomo. Certamente il riferimento conciliare è GS 22, impossibile però da interpretare (sebbene lo sia stato fatto e lo si faccia abbondantemente) nel senso secondo cui Cristo, incarnandosi, avrebbe collettivamente ed automaticamente redento l'umanità, poiché egli è venuto nella sua singola umanità e non nell'umanità intera: mentre ogni uomo, singolarmente, è chiamato a partecipare e ad inserirsi nel mistero di questa incarnazione
Da notare, in entrambi i teologi, il mancato riferimento all'esistenza dei demoni.
Il più raffinato però nella negazione della dannazione è Von Balthasar. Qui la riflessione teologica, si inerpica in trabocchetti teologici inquietanti anche perché il teologo svizzero passa per conservatore e acerrimo nemico del progressista Rahner. Perché trabocchetti? Perché i termini e i concetti utilizzati da Von Balthasar sono quelli usati dalla teologia tradizionale, ma svuotati o rovesciati. Così come è inquietante la consapevolezza di compiere una missione divina di riforma della Chiesa che avrebbe dovuto scaturire dal suo connubio con la “mistica” Adrienne Von Speyr, la donna (una protestante convertita) con la quale ha sostanzialmente convissuto e del cui misticismo è strettamente impregnata tutta la sua teologia. A tal punto che in ossequio alle visioni della donna secondo cui S. Ignazio lo invitava a uscire dai Gesuiti proprio per affrontare questa nuova missione. La sua Cristologia e la sua teologia trinitaria sono illuminate dalla teoria della kenosi, svuotamento, inteso però non come riempimento del vuoto da parte di Dio, ma come svuotamento della divinità nel donarsi che Balthasar applica alla creazione, alla generazione del Verbo e nello Spirito Santo. Questa tipo di kenosi permette di dare una lettura della separazione del Cristo Verbo incarnato al momento della morte in croce che fa rabbrividire, perché il Cristo uomo, raccogliendo su di sé il peccato di tutti gli uomini veramente e definitivamente si separa dal Padre (pur rimanendo unito a Lui per mezzo dello Spirito, che raramente Balthasar osa definire Santo, perché è un'unità nella quale Dio farebbe esperire al Figlio anche la sua oscurità!!!). Cristo che porta su di sé i nostri peccati, che paga il nostro riscatto al Padre: sembra la dottrina dell'espiazione vicaria, ma non lo è: perché intanto nella sua discesa agli inferi Cristo non arriva al fondo dell'inferno, non libera tutti ma i giusti e i Patriarchi e soprattutto perché in Cristo non esiste una separazione tra l'uomo e il Dio nel momento della morte in Croce. Dunque come rileva Andereggen Cristo sarebbe veramente l'uomo più stupido della terra perché mentre i cattivi si salvano Lui pagherebbe eternamente. Idee contorte che scaturiscono da una falsa mistica (contaminata con il pensiero protestante), da una manipolazione delle processioni intratrinitarie, che fanno dipendere il Figlio dallo Spirito Santo, da una struttura teologica che dipende dalla filosofia dialettica che finisce nella coincidentia oppositorum nella quale in Dio è presenta l'oscurità e la luce, il bene e il male, l'eresia è ortodossa e viceversa. Ovviamente le sue affermazioni secondo cui l'inferno è vuoto e che “bisogna sperare per tutti” trovarono vaste e concrete opposizioni sul piano teologico. A tal riguardo Von Balthasar si difese “lasciando la parola ai santi” messi uno dietro l'altro con il consueto procedimento dialettico. Spendendo in qualche modo a suo favore Origene, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore (questo però contraddetto da altri teologi), affermando che nella Scrittura si possano trovare passi a sostegno della sua tesi, ma anche al contrario. In realtà non gli restano che le visioni della Von Speyr e la sua visione del paradiso nella quale affermò che gli era stato mostrato con “particolare amore e rispetto” Origene, mentre Tommaso e e Agostino (la radice dell'errore sulla questione in oggetto) le furono sbrigativamente presentati. Aldilà di questa “testimonianza” la stessa indagine mistica si risolve in una debacle per il teologo svizzero. Giustamente la speranza per la salvezza di tutti è limitata all'uomo nel suo stato di homo viator, ma non post mortem, perché dall'inferno da dove non c'è speranza di uscire. Non c'è speranza neanche per “l'incontro atemporale con Cristo” né può bastare per la salvezza quel granellino di bene che il peccatore poté avere magari da bambino.
Dunque sofismi teologici infondati a tutti i livelli: sul piano della Rivelazione, sul piano del magistero, sul piano dell'esperienza dei santi e dei mistici, sul piano della logica. Anzi smentite proprio dalle esperienze di tutti i mistici e santi, in modo particolare da suor Faustina Kowalska che nella visione dell'inferno (un inferno pieno di anime) e dettagliatamente descritta nel suo Diario ha evidenziato come “la la maggior parte delle anime che ci sono, non credevano che ci fosse l'inferno”. Allora è davvero appropriata la conclusione del volume con Padre Manelli che commentando le apparizioni di Fatima (un evento che si pone in straordinaria concordanza con la lettura mariana dei tempi ultimi fatta da quel grande santo che fu Luigi Maria Grignon de Montfort), rileva come la Madonna attraverso la devozione al suo Cuore Immacolato intende porsi come rimedio contro la realtà dell'inferno e del male, a conferma che è Lei, la donna vestita di sole che trionferà sul drago infernale e che salverà dall'inferno tutti coloro che le si affidano.
*Pubblicato in "Corriere del Sud" del 9 giugno 2011