Note sull'umana imbecillità
Nessuno di noi può essere sicuro dell’imbecillità altrui, anche nel caso in cui si disponga di mezzi intellettuali e di una struttura morale non comuni e obiettivamente solidi. Non si può essere sicuri perché la persona realmente intelligente non è mai del tutto inconsapevole delle sciocchezze, delle contraddizioni, delle incongruenze, delle prevaricazioni da cui è costellata la propria esistenza, persino quando sussista la ragionevole certezza di essersi sempre sforzati e di sforzarsi di tendere al bene o al meglio, di porre rimedio a errori, colpe o peccati commessi nel corso della propria vita. Inoltre, si può essere imbecilli su piani diversi: sul piano intellettuale piuttosto che su quello comportamentale, sul piano politico piuttosto che su quello morale, sul piano spirituale e religioso piuttosto che su quello civile e relazionale, benchè in qualche modo le crepe particolari, parziali, settoriali del vissuto individuale non possano non incidere o influire sul vissuto stesso inteso nella sua interezza.
Tanto da un punto di vista laico quanto da un punto di vista religioso e più specificamente evangelico-cattolico, la posizione più ragionevole e saggia è certamente quella di chi, pur lasciandosi andare talvolta a giudizi critici o sprezzanti seppur giustificati nei confronti di chicchessia, non omette mai di tenere presenti i suoi limiti e le sue ambiguità anche al fine di rendere quanto più possibile equilibrati e veritieri commenti, pareri, valutazioni su persone e cose. Il laico e il credente possono essere accomunati dall’antica virtù greca della phronesis (prudenza, moderazione, saggezza), che concorre peraltro ad un retto discernimento del bene e del male, anche se il secondo, disponendo della virtù teologale della carità, pur nella severità di un giudizio di riprovazione, può esercitare uno spirito di compassione e di vicinanza spirituale verso l’errante, il reprobo o il malvagio.
Tuttavia, quantunque dall’imbecillità non sia immune alcun essere umano, non si può non distinguere, nel quadro del vasto e articolato campionario degli imbecilli, tra l’imbecille impenitente, che per tutta la vita continui a dar prova di stupidi o contorti modi di pensare e di agire, e l’imbecille risanato, rinsavito, o comunque capace di correggere almeno in parte le proprie anomalie esistenziali. Potrà forse sembrare strano, ma non è affatto probabile che il caso dell’imbecille capace di autocritica, quali che siano le sue convinzioni momentanee, sia più diffuso del caso dell’imbecille recidivo, allo stesso modo di come la condizione del peccatore ostinato e irriducibile tende a soverchiare di gran lunga quella dell’imbecille riflessivo, inquieto e animato da un’ansia sincera di redenzione morale e di riscatto spirituale. Tale constatazione si basa su due elementi osservativi piuttosto ricorrenti: da una parte, gli esseri umani sono soggetti a sdoppiamenti, talvolta persino improvvisi e non predeterminati, di personalità, per cui possono rendersi artefici di discorsi, azioni o comportamenti disdicevoli e deplorevoli, quando non addirittura perversi e delittuosi, che generalmente tendono ad aborrire e a sentire come estranei al proprio pensiero e alla propria sensibilità; dall’altra, essi tendono a compiacersi dei modi spregiudicati, sprezzanti, cinici, spavaldi e temerari in cui viene manifestandosi il loro stile di vita. In un certo senso, a ben riflettere, i veri imbecilli sono quest’ultimi, ovvero individui che a valori biblici e spirituali quali la divina sapienza, la saggezza, la mitezza, lo spirito di giustizia e di umiltà, non riconoscono alcuna funzione morale, civile e culturale. Sanno certo che essi hanno un’origine e una finalità religiose ma che, proprio per questo, restano principalmente a disposizione di un mondo di scontenti, di disperati e di frustrati, di illusi e di alienati, che alle pratiche realistiche e vincenti del mondo cercano di opporsi con un apparato sempre più antiquato e anacronistico di speranze chimeriche, di fughe consolatorie alternative ma immaginarie, di tensioni mistiche verso mondi utopici del tutto scollegati dalla concreta quotidianità.
Accade così che legioni di imbecilli, spesso anche pericolosi e violenti, e reperibili sia tra i cosiddetti laici sia anche nel caotico e non di rado indisciplinato popolo di Dio, attraversino impavidamente e impunemente il mondo, creando nelle comunità culturali e sociali di appartenenza o di riferimento, anche a dispetto di curricula scientifici eccellenti, scompiglio, turbamento, smarrimento, errore e dogmatismo non inferiori all’ammirazione che il loro apparente talento professionale riesce a suscitare in bacini più o meno ampi di ascoltatori e utenti. Beninteso, però, queste legioni di imbecilli esistono non, come sosteneva Umberto eco, a causa dell’avvento dell’era mediatica, per cui ogni fessacchiotto possa sentirsi autorizzato con l’uso di una tastiera a scrivere e comunicare tutte le sciocchezze che vuole, quasi che nello stesso mondo accademico le stupidaggini pensate, scritte e pubblicate, non fossero, ormai da alcuni decenni, di gran lunga superiori di numero ad opere dotate di senso e di valore, bensì semplicemente a causa della nostra natura umana che, per quanto avviata verso forme sempre più evolute, continua ad essere sovrana dispensatrice di stupidità, ignoranza, arroganza e intolleranza, non solo là dove sussistano evidenti fenomeni di carenza di istruzione scolastica e culturale, di povertà di mezzi critici, di analfabetismo funzionale e di scarsa specializzazione disciplinare, ma anche, e talvolta anche in misura più ampia, in ambiti culturalmente molto qualificati o istituzionalmente autorevoli: accademici, scienziati, magistrati, giornalisti, banchieri, politici, non sono forse oggi tutti indistintamente esposti al rischio frequente di essere contraddetti, confutati, contestati, non già o non solo con argomentazioni fallaci e arbitrarie quanto anche con argomentazioni legittime, fondate e rigorose, e sulla base di criteri non necessariamente discrezionali o gratuiti ma spesso oggettivi e sottoposti al vaglio della stessa comunità scientifica e culturale?
Ormai non c’è più nessuno che possa pretendere di essere al riparo dall’imbecillità solo per il suo status culturale o il suo ruolo istituzionale, e non c’è più nessuno che possa ergersi su un piano di superiorità rifuggendo da puntuali confronti critici con chiunque formuli domande, ipotesi o obiezioni o chieda un pubblico contraddittorio in forma scritta o orale. L’umiltà, non quella della scienza che troppo spesso è solo una superbia e una saccenteria camuffate da umiltà ma quella del modo di essere e di comportarsi, oggi è richiesta a tutti più che in epoche passate di democrazia ancora incerta e poco sviluppata: è richiesta a quelli che non sanno o che sanno di meno ma anche a quelli che sanno o sanno di più, perchè gli ignari abbiano la pazienza e l’umiltà di ascoltare più che la presunzione e l’arroganza di parlare e criticare, e perchè i dotti, i colti, i sapienti, abbiano la pazienza e l’umiltà non tanto di ascoltarsi tra loro, posto che ne siano capaci, e di ascoltare se stessi, le proprie idee, teorie, congetture, valori, quanto di ascoltare con rinnovata capacità di discernimento ma senza prevenzioni o remore di sorta qualcuno e qualcosa che è ancora e sempre altro da sé, pur corrispondendo ad uno spontaneo bisogno soggettivo di continua integrazione conoscitiva e inesausto arricchimento spirituale.
Alla fine, i migliori non sono necessariamente nè gli intellettuali, gli esperti, gli specialisti, per quanto grande possa risultare l’utilità dei loro contributi, né i mitici “semplici” intesi nel senso sociologico della parola, e quindi i non istruiti, gli incolti, o più semplicemente gli uomini e le donne comuni di media intelligenza ma privi di particolari competenze professionali o specialistiche. I migliori, invece, sono di sicuro i semplici nell’inequivoco senso evangelico di piccoli, di persone non supponenti ma consapevoli dei loro limiti quale che sia il loro status, di persone aperte senza ipocrisia e senza pregiudizio alla conoscenza e alla verità delle cose, sempre desiderose di sapere cose nuove e importanti, sempre in attesa di risposte ma anche portate a fare domande e a riporre la loro fiducia in quanti sappiano comunicare loro conoscenze chiare, essenziali, precise, rigorose, ma non unilaterali e riduttive, non parziali e insoddisfacenti, non tortuose o arzigogolate e ambigue. Ecco: questi semplici, questi piccoli, ovvero i migliori, a cui non sfugge e non può sfuggire intuitivamente nè l’esistenza nè l’amore di Dio per le sue creature, possono essere sia tra i sapienti sia tra gli esseri comuni. Gli uni e gli altri potranno certo conoscere il tarlo dell’imbecillità ma saranno sempre capaci di combatterlo, di contrastarlo al meglio delle proprie possibilità; quel che invece non riuscirà mai di fare ad intellettuali non intelligenti e non idonei a percepire le sofferenze reali, tutte le sofferenze reali, dei singoli e dei popoli.
Questo, naturalmente, è il giudizio che consegue da una logica di fede e più esattamente da una logica religiosa cristiana, con la quale tuttavia, per le rilevanti ripercussioni che essa esercita su tutti i piani del vivere civile, il pensiero pagano, il sapere laico, la razionalità critica di tutte le generazioni storiche ha sempre dovuto fare i conti come continua a fare anche oggi. Ed è un giudizio duramente contestato o semplicemente ignorato da liberi pensatori, da uomini di cultura e da ingenti masse di popolo di diversa o contraria ispirazione umana e culturale, per i quali gli imbecilli sarebbero piuttosto proprio coloro che continuano non tanto a conformarsi a modelli evangelici e morali di vita, che potrebbero rivelarsi ancora umanamente e socialmente utili e quindi legittimi, quanto a credere seriamente in un Regno dei cieli e in una vita ultraterrena di gioia o sofferenza eterne. Poiché non esiste storicamente un modo sicuro, incontrovertibile e definitivo, almeno alla luce dei criteri o dei modelli più accreditati di razionalità scientifica, per dirimere tale questione, è inevitabile che ognuno continui ad andare per la sua strada, nella duplice possibile convinzione che la fede in Cristo offra agli esseri umani una concreta alternativa alla morte oppure si dissolva anch’essa con la dissoluzione stessa della vita terrena. Gesù disse che i suoi seguaci sarebbero stati non solo perseguitati ma innanzitutto trattati come imbecilli, come poveri idioti, come pericolosi visionari, promettendo anche che essi, pur condannati quaggiù ad essere imbecilli, si sarebbero ritrovati beati lassù. Personalmente, sono tra coloro a cui queste parole bastano, anche se esse mi portano inevitabilmente a guardare con profondo sospetto e viva apprensione tutti quegli “atei giulivi” che fanno aperta e spavalda professione di ateismo e tutti quei fratelli di fede che dicono di credere in Dio per fare esattamente il contrario di quello che Dio comanda.
Queste brevi note siano da aggiungere a ogni altra nobile e costruttiva riflessione sulla stupidità o imbecillità umana.