Per un perdono personale e comunitario non banale

Scritto da Francesco di Maria.

Il perdono evangelico è un valore prezioso e fondante della nostra fede in Cristo, anche se oggi rischia spesso di essere percepito come un disvalore e di essere ridotto ad uno dei tanti slogan banali di questo tempo. Perdonare non significa, magari con il corpo e l’anima ancora sanguinanti, essere pronti a riabbracciare chi ti abbia fatto deliberatamente del male. Bisogna sempre sforzarsi di comprendere i limiti, le insufficienze, le manchevolezze altrui, ma se qualcuno, notoriamente dotato di normali capacità di intendere e di volere, esercita sul prossimo, su qualunque prossimo, atti di manifesta ostilità, è evidente che, prima di pensare alla parola perdono, occorra innanzitutto censurarne i gesti aggressivi e, in secondo luogo, appellarsi ad una ragionevole esigenza di analizzare e capire, se possibile, le ragioni dell’offesa arrecata.

Quindi, prima di pensare a perdonare, bisogna capire, bisogna comprendere nel modo più obiettivo possibile le ragioni di un’offesa, di un reato o di un crimine, proprio per poter stabilire se e in che misura il nostro avversario, nemico o chiunque ci sia ostile, possa o debba essere da noi perdonato. Non è vero che il perdono, come spesso si sente dire o si legge, sia una decisione che non abbia nulla a che fare nè con l’emotività del momento in cui si subisce il trauma né con la razionalità che viene esercitandosi spontaneamente su un determinato evento traumatico che ci abbia coinvolto, e segua invece semplicemente l’onda di una particolare e sorprendente, nonchè imprevedibile e non preventivabile, sollecitazione spirituale che abbia la sua origine nella grazia divina; non perchè quest’ultima, per i credenti, non sia causa effettivamente determinante ai fini di un atto compiuto di perdono, ma perché, anche sul piano evangelico, la grazia divina non surclassa o scavalca, per così dire, la duplice facoltà della ragione e del sentire morale del singolo, in quanto semmai si innesta su essa e sulle stesse leggi antropologiche che regolano la razionalità e la coscienza morale, potenziandone piuttosto la capacità di dilatazione spirituale e di applicazione pratica.

Tutto questo comporta, altresì, che lo stesso perdono evangelico non sia nè un semplice atto sentimentalistico, nè una scelta del tutto irrazionale, ma pur sempre il segno, la manifestazione di una volontà che, destreggiandosi sapientemente  tra l’istinto naturale di autodifesa, con tutta la carica di aggressività che può conseguirne, e la parte razionale dell’io, con tutte le operazioni di razionalizzazione che vi possono avere luogo, sia capace di mediare tra le componenti emozionali e le componenti etico-intellettive che vengono sollecitate contemporaneamente dal fatto o dall’evento che abbia provocato un determinato trauma psicologico e morale.

Dinanzi ad un’offesa non occasionale ma ben preventivata e deliberata, non si tratta quindi, anche cristianamente, di far finta che nulla sia successo, di minimizzare l’accaduto al di là di una soglia minima di ragionevolezza, di esorcizzare quasi la paura di dover scoprire che qualcuno ci odia e vuole farci del male, anche perché è improbabile che, così facendo, i nostri futuri rapporti interpersonali possano beneficiarne. Bisogna piuttosto, sia pure nei limiti delle proprie possibilità, essere sempre ben consapevoli della natura dei rapporti intercorrenti con i nostri simili, specialmente ove essi siano occasionali o non troppo frequenti, perché è da presumere che a tutti debba interessare di coltivare rapporti umani corretti, leali, e non rapporti ambigui o fasulli.

Ma naturalmente la pratica del perdono riguarda tutti, riguarda anche persone che si amano, che si frequentano, che condividono valori e scelte, benchè essa assuma un’importanza morale particolarmente rilevante quando il problema sia quello di dover perdonare un avversario, un antagonista, un nemico, o di dovergli chiedere perdono. In ogni caso, l’atto di perdonare non presuppone il mettere da parte lo spirito di verità e di giustizia, perché anzi è sempre e solo in conformità ad esso che può essere esercitato correttamente e proficuamente. Chi perdona, perdona perché il suo offensore riconosce la sua colpa e se ne scusa apertamente, e chi è perdonato lo è realmente solo in quanto l’offeso abbia accolto la sua richiesta di perdono, ritenendola sincera e priva di ambiguità.

Questo per dire anche che la pratica del perdono non è mai unilaterale, a senso unico, e incondizionata nel senso che si possa perdonare a prescindere dal fatto che l’altro sia disposto ad essere perdonato, perché, se non sussiste la disponibilità ad essere perdonati, vuol dire che non si riconosce l’esistenza di un motivo per cui si debba essere perdonati, di un torto, di una colpa per cui ci si trovi oggettivamente nella condizione di essere perdonati, ma se non si riconosce la colpa e non ci si assume di conseguenza alcuna responsabilità, viene meno la ragione stessa del perdono.

Anche in quei casi molto particolari, straordinari, e anche molto rari, in cui ci si dispone intimamente al perdono pur nel totale disinteresse e nella più completa mancanza di partecipazione ad esso di coloro che ne siano i destinatari — si pensi alla richiesta di perdono rivolta a favore dei soldati romani da Gesù moribondo al Padre (“Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”) o alla supplica di santo Stefano colpito a morte da una folla di peccatori —, è solo al Signore che ci si può rivolgere in preghiera a loro beneficio, è solo il Signore che si può pregare perché nemici e persecutori abbiano il suo perdono, ma umanamente parlando il perdono resta una realtà spirituale del tutto inapplicata, o incompiuta, o irrealizzabile, se esso non venga esercitato sulla base di un rapporto bilaterale o multilaterale tra due o più persone, tra chi conceda il perdono e chi lo chieda, tra chi lo offra e chi lo riceva, nel comune riconoscimento del vulnus inferto da parte dell’aggressore all’aggredito o del colpevole all’innocente.

E’ opportuno ricordare molto rapidamente che il vangelo prescrive alcune importanti regole di comportamento circa il perdono. Intanto, il fratello che venga offeso può affrontare personalmente il suo offensore e chiedergli di ammettere la sua colpa e di scusarsene, può quindi chiamare altre persone a testimonianza di quel che è accaduto, nel caso in cui il reo non riconosca di aver sbagliato, fino a coinvolgere l’intera comunità per stigmatizzarne il comportamento peccaminoso, e infine, fallito ogni tentativo di persuasione caritatevole, il fratello o la sorella offesi sono del tutto liberi di considerarlo come un peccatore impenitente che si pone per ciò stesso al di fuori di ogni rapporto comunitario. Ci si deve chiedere per quali misteriose ragioni, una regoletta così elementare ma anche così severa e puntuale, che nella Chiesa delle origini era nota e veniva praticata come regola della “correzione fraterna”, ben al di là di criteri gerarchici a quell’epoca peraltro inesistenti, già nel corso del primo millennio sarebbe caduta in disuso, fino a non lasciare praticamente alcuna traccia di sé nella Chiesa contemporanea e attuale.

Ma questa non è l’unica regola sul perdono, anche se per il momento questo richiamo evangelico può bastare, non senza tuttavia accennare alle molteplici circostanze di vita in cui ci si riempie la bocca di perdono, di perdono da concedere soprattutto più che da chiedere, ma in cui in realtà molto spesso il perdono viene reclamato e pronunciato in modi o forme assolutamente banali e impropri. Che è ciò di cui ci si occuperà, probabilmente, in un prossimo articolo.