Sul fondamento razionale della fede cristiana. Note integrative.

Scritto da Francesco di Maria.

La fede cristiana è una fede razionale perché, pur non sorgendo da elaborazioni puramente storico-intellettuali, si presenta come un corpo di conoscenze organiche e ben definite, come un sapere che si rivolge programmaticamente all’uomo nella sua interezza o meglio nell’insieme delle sue facoltà. L’ho scritto nel mio articolo “Come e perché la fede cristiana è fondata sulla ragione”, pubblicato nel blog www.vangeloedemocrazia.it, e qui lo ribadisco perché pare che per alcuni amici cattolici il concetto non sia ancora sufficientemente chiaro, anche se la Parola di Dio, quale si manifesta nei testi biblici, esorta spesso sia il credente che il non credente ad indagare la fede religiosa non solo con i sentimenti, con il cuore, ma anche, e in egual misura, con l’intelletto. Gesù dice chiaramente che Dio va amato «con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (intelligenza)» (Mc 12, 28-33) e, per essere sicuri che la fede non sia erronea, non sia fondata su credenze superstiziose o illusorie, né su stati psichici alterati o su allucinazioni della mente, Giovanni evangelista avverte: «Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo» (1Gv 4, 1), dove, in ambedue le citazioni, sono chiarissimi gli inviti all’intelligenza, alla ragione, alla lucida capacità di discernimento.

Il cristiano che voglia acquisire e gustare il senso più profondo degli insegnamenti di Gesù non può fare a meno né di sapienza, né di saggezza, né di un uso adeguato della sua facoltà intellettiva, anche se questo non si frappone a quella semplicità spirituale evangelica cui occorre comunque essere e rimanere fedeli nell’impegnativo cammino verso Dio. A quello scriba che dà prova di competenza teologica e di onestà intellettuale, il Signore giunge a dire: «Tu non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34). D’altra parte il Cristo non pretende che i suoi discepoli e tutti coloro cui si rivolge credano in lui in quanto Figlio di Dio a scatola chiusa e in modo del tutto fideistico, ma al contrario chiede loro di credere dopo aver udito e visto, dopo averne fatto esperienza, dopo essere stati testimoni oculari delle sue opere prodigiose.

L’apostolo Giovanni, il più amato degli apostoli, si preoccupa di scrivere e precisare, a beneficio di credenti e non credenti: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 30-31). E, negli Atti degli apostoli, si continua a leggere delle «molte prove date» da Gesù «della sua risurrezione» (At 1,3), mentre d’altra parte san Paolo afferma che per credere bisogna anche capire e che in questo senso occorre «uno spirito di sapienza» affinchè «i vostri cuori» siano «inondati di luce» (Ef, 1, 17-18) e d’altra parte egli non pretende che alle sue parole e alla sua testimonianza si creda ciecamente, perché al contrario dice di parlare «a persone intelligenti», per cui «giudicate voi stessi quello che dico» (1Cor 10, 15). Naturalmente, gli spiriti volgari di tutte le epoche hanno pensato e pensano di poter liquidare la questione dicendo,  soprattutto per cercare di convincere se stessi, che sono tutte fandonie, mere dicerie o falsità verniciate ad arte di verosimiglianza, ma fortunatamente, tra i miscredenti, non tutti possono essere annoverati nella famiglia di quella “gente zotica e villana” così biasimata da Leopardi, e tra essi non sono pochi coloro che avvertano almeno, come nel caso dello stesso poeta recanatese, una forte nostalgia di infinito e di eterno.  

Biblicamente parlando, non si danno definizioni sentimentalistiche o puramente emozionali della fede e anzi sono frequenti le ammonizioni o le esortazioni bibliche a non coltivare forme puramente abitudinarie, irriflessive o irragionevoli di fede, perché in effetti niente più della fede richiede allo stesso credente un esercizio assiduo e profondo di intelligenza e razionalità, uno sforzo elevato di pensiero e di integrale coinvolgimento spirituale. Chi pensasse, peraltro, che la critica di Gesù talvolta rivolta a sapienti e dotti di questo mondo debba intendersi come critica della conoscenza, della scienza, del sapere tout court sarebbe in grave errore, intendendo egli solo evidenziare come persino coloro che sono stati dotati da Dio di grande intelligenza possono poi smarrirsi nei meandri della loro mente a causa della loro superbia e della loro presunzione. Il Cristo, che è il Logos incarnato, benedice chi si sforza con diligenza e umiltà, ovvero con evangelica semplicità, di fare un uso corretto della ragione, di aprire la sua mente alla vera conoscenza, di cogliere il significato quanto più possibile veritiero e profondo delle cose e il senso essenziale, non mutevole e non instabile, della vita, pur nel divenire tumultuoso e contraddittorio degli accadimenti esterni e nel susseguirsi di stati d’animo e momenti spirituali talvolta disarmonici e conflittuali.

Il “semplice” di cui parla il vangelo non è, in altri termini, l’incolto, l’ignorante, l’analfabeta, specialmente se questa condizione sia frutto di scelta volontaria o irresponsabile o, comunque, di trascuratezza personale, anche se questa figura non coincide necessariamente con quella dell’ottuso, dello stolto, del povero di spirito, dal momento che persino illetterati e persone apparentemente insignificanti possono essere o diventare, nelle mani e per volontà di Dio, potenti strumenti di fulgida verità e di buona, proficua umanità. Il semplice, invece, è colui che, indipendentemente dal suo ruolo professionale e dalla sua condizione culturale, non solo sa di essere limitato ma si comporta anche come tale e avverte sempre il bisogno di aprirsi realmente agli altri, a chiunque, con o senza titoli accademici o onorifici, possa esprimere parole e proporre atti di verità, di saggezza, di giustizia.

Ciò precisato, è evidente che la ragione, essendo il più straordinario dono divino ricevuto dall’uomo, non sia biblicamente né demonizzata, né in qualche modo disprezzata, ma soltanto elogiata e rispettata, anche se gli usi umani che se ne possono fare sono soggetti ad errori e a rischi di deformazione conoscitiva, morale e spirituale. False predizioni o profezie, concezioni idolatriche, atti di falsa o incompleta testimonianza religiosa, sono effetti di usi superficiali o distorti della razionalità, che peraltro non può mai essere dissociata completamente dalla sfera morale e spirituale della persona, là dove invece san Pietro, senza indulgere a forme di ignoranza religiosa, esorta i credenti a rendere sempre conto della propria fede, delle credenze e convinzioni ad essa connesse, ad essere sempre «pronti … a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza», cioè della fede «che è in voi» (1Pt 3, 15).

Dunque, le motivazioni della fede sono e devono essere razionali: credo che Gesù sia il Cristo di Dio, il figlio unigenito di Dio, il salvatore del genere umano, perché egli ha dimostrato di esserlo storicamente secondo quanto ci è stato testimoniato e tramandato dai suoi primi apostoli e da intere generazioni di credenti e aderenti al suo Verbo salvifico quale viene custodito e trasmesso in spirito di fedeltà attraverso i secoli dalla sua stessa Chiesa. Io credo nella sua parola di vita, anche in ragione delle opere prodigiose da lui oggettivamente compiute sotto gli occhi dell’umanità del suo tempo e, più segnatamente, in ragione della sua risurrezione fisica dalla morte, che è da allora un segno di concreta e intramontabile speranza per tutti coloro che si dispongono a prendere atto della sua divinità e del valore imperituro del suo insegnamento.

La fede, pertanto, non comporta una generica e tiepida speranza in un al di là in cui forse ci sia ancora vita, ma la certezza spirituale che non una sola promessa di Cristo sarà disattesa nella storia e, soprattutto, alla fine dei tempi, e che anche i misteri più profondi da lui enunciati non potranno non essere, a suo tempo, svelati e resi comprensibili ai beati. La fede, perciò, non è un salto puramente istintivo ed emotivo nel buio ma un salto razionale e ragionevole, perché fondato su inoppugnabili fatti storici, verso la luce della verità, della giustizia e dell’amore nel loro più perfetto ed eterno significato. In questo senso, il negazionismo o lo scetticismo religioso e anticristiano di atei e agnostici o comunque di laici non credenti, lungi dal poter essere ricondotto alla categoria della razionalità e della ragionevolezza, si trova a risultare paradossalmente più infondato e ingiustificato, sotto l’aspetto critico-razionale, dell’atteggiamento spirituale di quanti almeno si aprano ad una possibile prospettiva trascendente e cristiana di vita.

Qui non si tratta, in quanto cristiani, di dire semplicemente agli scettici (che, peraltro, hanno sensibilità diverse): “Non fate tante storie, dovete credere e basta”; non si tratta di essere né dogmatici, né intolleranti, ma di invitarli a verificare i fondamenti storici e dottrinari della fede cristiana e ad accertarsi in modo onesto della veridicità o meno dei suoi contenuti. Questo era il modo di agire degli apostoli del Signore, quando all’indomani della sua ascensione in cielo, sollecitavano gli ebrei ancora riluttanti a credere in Cristo e nella natura divina del suo insegnamento e dei suoi atti. Una parte di essi, recitano gli Atti, così come non pochi greci, «accolsero la Parola con grande entusiasmo, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano davvero così» e «divennero credenti» (17, 11-12).

In effetti, la fede cristiana, al pari di ogni altro discorso di carattere logico, è aperta al duplice principio epistemologico della verifica e della falsificazione, per cui da una parte è possibile verificare sia il coerente radicamento della Parola di Cristo nella storia dell’ebraismo, sia anche la natura innovativa e il carattere di discontinuità del suo insegnamento nel quadro della storia religiosa ebraica e della tradizione biblica, dall’altra è possibile provare a confutare tanto i dati storici oggettivi della sua vita  quanto l’affidabilità stessa del credo cristiano. E’ in questo modo, e non a seguito di inspiegabili crisi mistiche, che tante persone di cultura, pensatori, scienziati, letterati, medici, e via dicendo, si sono convertite e continuano a convertirsi a Cristo: non solo aprendo mente e cuore alla grazia divina, ma studiando, riflettendo, valutando tutte le prove a favore del cristianesimo o, ammesso che ve ne siano, contro di esso.  

Anche tra i cattolici odierni, non sono pochi purtroppo coloro che interpretano la risurrezione di Cristo in senso puramente simbolico e spirituale, ma in realtà duemila anni or sono persone come noi, inizialmente fragili e dubbiose come noi, e come noi molto scettiche circa la possibilità di risorgere da morte e di acquisire l’immortalità, constatarono, stando a quel che attestano gli Atti, che «egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (1, 3). Si può provare, certo, a falsificare un’affermazione del genere sostenendo che un corpo biologicamente morto non può tornare in nessun modo in vita, ma tale confutazione non avrebbe alcuna utilità conoscitiva in relazione all’ulteriore affermazione secondo cui essa può valere solo sulla base e alla luce delle attuali conoscenze della scienza e non in assoluto. Bisogna essere cauti, bisogna saper aspettare, ma nel frattempo bisogna saper utilizzare al meglio il proprio pensiero, badando soprattutto a non contrapporre ad un sempre deprecabile fideismo religioso un altrettanto insidioso e inattendibile fideismo scientifico. Non è necessario scegliere tra la verità assoluta di Cristo e le verità sperimentali e probabilistiche della scienza. Razionalmente non è necessario perché tra esse può ben sussistere un rapporto di feconda compatibilità.