La fede religiosa tra Kant e noi

Scritto da Francesco di Maria.

Per Kant la fede rivelata non era necessaria, né essenziale ad una fede religiosa razionale, in quanto le stesse Scritture, i vangeli, i testi vetero e neotestamentari valgono per lui solo in quanto ne sia inteso e colto il significato attraverso un approccio religioso puramente razionale che si ponga come condizione di possibilità delle diverse forme di fede religiosa. La religione rivelata, poi istituzionalizzata nelle chiese di orientamento cristiano, deve il suo significato razionale, non mitico o immaginario o mistico, solo alla funzione critica della fede razionale pura, cioè non frammista ad elementi empirico-fattuali, in virtù della quale ogni concezione religiosa data, ogni immagine storico-culturale di Dio, venga depurata dalle loro pretese illusorie e dalle loro incrostazioni dogmatiche. Ogni religione positiva, ogni fede istituzionale ed ecclesiastica possiedono un valore strumentale, nel senso del loro essere funzionali ad una adeguata alfabetizzazione religiosa degli individui e delle masse, anche attraverso un insieme di momenti liturgico-cultuali con forte valenza educativa e associativa e determinate rappresentazioni simboliche, e mantengono tale valore solo nei limiti in cui non prevaricano rispetto al loro stesso criterio-guida che è appunto costituito dalla fede secondo ragione, dalla fede religiosa pura.

Di conseguenza, tutto ciò che nelle rappresentazioni storico-fattuali della religiosità rivelata venga configurandosi come irragionevolezza, intolleranza, fanatismo, moralismo, come funzionale ad interessi politici o di potere, oppure ad aspettative salvifiche che sarebbero garantite dalla fede in sé considerata nella rivelazione, non può non rientrare nel novero degli  atteggiamenti irrazionali di pensiero anche in relazione a precise istanze storiche di carattere etico e comunitario. Non è, beninteso, che la rivelazione non possa a sua volta concorrere a colmare le carenze teoretiche della fede razionale, ma il ruolo critico-direttivo nella enucleazione dei significati razionali e dei veri valori universali di cui qualunque religione storica è portatrice, non spetta alla rivelazione in quanto evento universale ma pur sempre contingente, bensì alla fede razionale radicata antropologicamente nella struttura esistenziale dell’essere umano e come tale dotata di una attitudinale capacità critica di arginare tutte le contaminazioni, le impurità, le scorie, provenienti dalle emotive, convulse, drammatiche vicende storico-umane. Ciò comporta, in particolare, che, ove sussistano elementi, fatti, racconti costitutivi della religione rivelata, non compatibili con una loro accurata e rigorosa analisi quale deve essere quella che venga esercitata sulla base di un fede razionale pura, essi non possano essere accolti come manifestazioni di vera e sana religiosità.

Kant ritiene che, mentre la fede ecclesiastica ha forme varie e mutevoli (quella cristiana ortodossa, quella cristiana protestante, quella cristiana cattolica), la fede o la religiosità pura, ovvero indipendente da qualsivoglia esperienza storico-empirica, è unica e immutabile perché coincidente in sostanza con una fede morale e può essere coltivata ed esercitata in tutte le parti del mondo e sotto qualunque regime teologico-confessionale. Quel che però non appare sufficientemente chiaro nella riflessione kantiana è il motivo per il quale la fede razionale dovrebbe dettare le linee guida di comprensione della fede rivelata e non viceversa, dal momento che anche le attitudini mentali, le facoltà razionali, i sentimenti morali dell’umanità, per quanto radicati geneticamente nella stessa natura umana, vengono tuttavia esplicandosi in tutta la loro ricchezza critica e valoriale, potenziandosi e quindi arricchendosi, nel corso della storia generale del mondo in cui resta incluso il loro stesso evolversi a contatto con i duri e oggettivi condizionamenti cui essi stessi sono di continuo sottoposti. In questo senso, la fede nella rivelazione è qualcosa che, facendo irruzione e radicandosi poi in questa stessa storia, finisce per nutrire di sé la stessa intelligenza, la sensibilità morale, la vita spirituale dei singoli e dei popoli, e, una volta acquisita come fattore costitutivo di una civiltà ultrasecolare o bimillenaria, non può più essere considerata come estranea o eterogenea rispetto ad una pura fede razionale, candidandosi essa stessa, sotto molti aspetti, a fungere quale principio fondante e costitutivo di razionalità religiosa, di fede religiosa o di religiosità tout court.   

A quel punto, non si capisce perché gli stessi dogmi religiosi del cristianesimo, per quanto in gran parte impenetrabili, inaccessibili alla ragione logico-discorsiva, dovrebbero venir considerati come elementi antitetici ad un principio di razionalità e non invece come presupposti necessari ad un qualsivoglia processo di razionalità e, più segnatamente, ad una interpretazione critico-razionale intersoggettiva e tendenzialmente universale della vita e della storia. Non c’è infatti nulla che possa essere pensato, argomentato, dimostrato e sostenuto, in assenza di determinati presupposti: di presupposti, e di presupposti spesso indimostrabili, ha bisogno l’etica, la politica, l’arte, la scienza. Per quale motivo dovrebbe fare eccezione la fede, la religiosità? Perché la fede rivelata non dovrebbe essere parte costitutiva ed integrante della fede che la ragione stessa ripone in Cristo? Perché la razionalità evangelico-cristiana non dovrebbe costituire una fonte primaria e insostituibile di illuminazione per tutti gli assetti o i modelli fenomenologici in cui la ragione dell’uomo viene articolandosi nel quadro della sua inarrestabile processualità storico-culturale?

Non è che non si sia consapevoli dell’intrinseca complessità inerente la problematica relativa al rapporto tra ragione e fede, tra fede puramente razionale e fede rivelata, tra fede immanente e naturale e fede trascendente e sovrannaturale, anche perché senza l’esistenza di tale complessità non ci sarebbe nulla di cui discutere e per cui prendere posizione. Ma, anche in materia di fede, Kant è un punto di riferimento e di confronto obbligato della riflessione contemporanea, perché il suo concetto di una religiosità nei limiti della sola ragione mira in realtà ad una interiorizzazione, ad una purificazione della fede da ogni orpello esteriore di tipo formale, ed è ciò che non può restare estraneo alla riflessione dei cattolici contemporanei, ma anche perché se Dio, e beninteso il Dio-Logos, il Dio-Cristo incarnatosi, rivelatosi, immolatosi su una croce e consegnatosi alla testimonianza della sua Chiesa, non viene posto a fondamento assoluto di qualsivoglia esercizio ed esercizio critico di razionalità, tutte le relative e relativistiche costruzioni conoscitive, etiche, estetiche, teoriche e pragmatiche, dell’umanità pensante non potranno che brancolare nell’oscurità di un destino di incerta,  incompiuta, opaca, unilaterale e frammentaria razionalità. Destino, in ogni caso, necessario e ineluttabile secondo molti filosofi, non per noi, che di Kant condividiamo l’anelito al sovrasensibile ma non solo sul piano morale.