Per un'ermeneutica del perdono evangelico
Sviscerare il senso del testo biblico-evangelico, proporne un’interpretazione quanto più possibile adeguata rispettandone la complessiva contestualità in cui vengono giocando un ruolo ben preciso tutti i fattori che ne fanno parte (linguistici e grammaticali, storico-geografici, antropologici e culturali), significa mettersi nella condizione di tentare un’ermeneutica, cioè di comprendere correttamente quello stesso testo, quindi non travisandolo ma restandovi fedeli, restando fedeli sia alla lettera che allo spirito che esso esprime. E’ anche questo che occorre fare se il tema del testo biblico-evangelico in questione sia il perdono.
Ora, chi ama, ama sempre e solo, in senso proprio, secondo la verità e la giustizia di Dio, per cui dev’essere preliminarmente chiaro che amare al di fuori della verità e della giustizia divine è certo possibile ma solo come surrogato dell’amore divino, evangelico e cristiano. L’amore è un dono, ma se ne viene disatteso o frainteso il significato, si finisce per esercitarlo in modo erroneo, arbitrario, abusivo. Il perdono è il momento più alto dell’amore cristiano, ma se quest’ultimo viene equivocato, altrettanto equivoco risulterà il modo di parlare del perdono, di testimoniarlo e di praticarlo. Nel mondo cattolico si dà assai di frequente per scontato il significato del perdono, senza che ci si renda conto di come, in realtà, sia possibile farne gli usi più lontani dalla originale Parola di Dio, e quindi usi ambigui, paternalistici, strumentali, ricattatori, vale a dire usi che non possono essere certo graditi a Dio e al suo Figlio unigenito.
Dio ama il peccatore che è venuto a salvare, per mezzo del suo Cristo, lo ama non in modo generico e vagamente umanitario ma nel segno della via, della verità e della vita da quest’ultimo incarnate, testimoniate, insegnate e predicate, affinché fossero da molti recepite, interiorizzate, adoperate come veri e anzi unici strumenti di salvezza. Dio ama il peccatore disposto a pentirsi e a riconciliarsi con il suo Creatore, ma odia il peccato, il peccato persistente, strutturale, irreversibile, che segna l’insanabile rottura del rapporto tra la creatura e il Creatore. Pertanto, tutte le volte che l’amore, come il perdono, vengano declinati in forme errate, superficiali, banali o approssimative, si viene arrecando un danno alla propria fede, la si viene depauperando e, in taluni casi, persino infrangendo o vanificando.
E’ senz’altro vero che il perdono cristiano non è affatto semplice da attuare e che, anzi, la sua attuazione richiede o può richiedere un enorme sforzo di volontà e un faticoso esercizio di umiltà, ma questo non significa affatto che esso, per quanto debba essere spiritualmente incondizionato, sia privo di condizioni pregiudiziali, poste non dagli uomini ma da Dio stesso nel quadro della sua esigente ma sapientissima legislazione salvifica. Il problema è sempre lo stesso: tutti coloro, tra gente comune, intellettuali, ecclesiastici o teologi, che, anziché sforzarsi di essere immagine di Dio, finiscono, a dispetto delle loro migliori intenzioni, per ritagliarsi un Dio a propria immagine e somiglianza, non possono che proferire parole vuote o insensate anche sui temi dell’amore e del perdono e perderne di vista l’oggettivo valore spirituale.
Quando si dà ad intendere alle masse cattoliche che Dio perdona sempre e comunque, per esempio, non c’è dubbio che si venga assumendo una posizione sbagliata e, a seconda del grado di istruzione e di responsabilità di chi la viene assumendo, anche più o meno peccaminosa, perché almeno su un punto è il Signore stesso che parla di “imperdonabilità”: quello per cui il peccato contro lo Spirito Santo viene per l’appunto definito “imperdonabile”: «chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno» (Mc 3, 29); «qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non verrà perdonata» (Mt 12, 31). Se si tien conto del fatto che lo Spirito Santo è sinonimo di Spirito di verità, carità, giustizia, non può apparire altamente improbabile la possibilità che molti di noi potrebbero anche essere ritenuti indegni del perdono divino. Eppure, si continua a parlare dell’amore divino, della misericordia divina, del perdono divino con una tale disinvoltura e con una sicumera così imperturbabile da essere talvolta tentati di pensare che a peccare di infedeltà a Dio potrebbe essere quella minoranza di persone che, pur desiderando più di altri il perdono di Dio per la propria condizione di peccatori, perseverano nel testimoniare con la parola e la vita la non unilateralità, la non automaticità e non obbligatorietà del perdono divino.
Di riflesso, se costoro avessero per caso ragione, anche il perdono dell’uomo verso il prossimo verrebbe configurandosi certo come privo di riserve ma nell’ambito delle imprescindibili condizioni spirituali poste da Cristo. Quali sono queste condizioni in virtù delle quali il perdono possa essere poi esercitato in modo incondizionato?
Dio è sempre pronto a perdonare ma, ovviamente, a condizione che il peccatore si penta sinceramente e profondamente dei suoi sbagli o dei suoi misfatti e invochi il suo perdono. Dio spalanca le sue braccia misericordiose a chi almeno si disponga a riflettere sulla sua vita, a chi desideri cambiare vita, a chi si sforzi di migliorare il suo comportamento, di convertire tutto se stesso a un nuovo e più proficuo modo di pensare e di agire. Si potrebbe eccepire che se questa è la condizione, allora non può essere vero che il perdono divino sia incondizionato. Ma si tratta di una obiezione inconsistente e illogica, per il semplice motivo che non si capisce per quale motivo un peccatore, cioè ogni essere umano sia pure in diverso grado, che non intenda chiedere perdono a Dio e agli uomini secondo la logica di Dio, e quindi con ferma e sincera contrizione interiore, dovrebbe essere ugualmente perdonato.
Non è questa la logica divina dell’amore e del perdono, dal momento che chi non avverte mai la vitale necessità di entrambi e della grazia di cui essi sono frutto, è inevitabile che resti privo di perdono fino alla fine. Il perdono divino non ha una natura sentimentale, filantropica, umanitaria, ma un valore redentivo, salvifico ed è dunque indispensabile che di esso partecipi concretamente e responsabilmente il suo beneficiario. Chi legge le Scritture, chi medita in particolare sui versetti del Magnificat mariano, sa bene che quel perdono non è generico, non è indiscriminato, non è equivoco, perché non può non prendere atto che “la misericordia di Dio si stende” esclusivamente “su coloro che lo temono”, lo rispettano e lo invocano nella sua realtà in gran parte inaccessibile e misteriosa benché in buona parte “rivelata”. Non può non comprendersi, a dispetto di quanto accade oggi in molte chiese e su molti pulpiti cattolici del mondo, che la misericordia divina non è affatto automatica, scontata, necessitata dalla stessa natura divina, perché se così fosse Dio non sarebbe libero ma semplicemente costretto ad agire in modo unilaterale e in contrasto con il suo essere Dio di verità e di giustizia.
Il figliol prodigo viene perdonato ancora prima del suo ritorno perché il Padre ha già percepito il movimento del suo cuore, il suo desiderio, non importa se dovuto a motivi pratici piuttosto che a purissimi ideali spirituali, di far ritorno al Padre, di tornare a vivere con Lui, visto che ha sperimentato come, lontano da Lui, solo miseria e disperazione siano compagne dell’uomo. D’altra parte, il Padre condona il debito del servo ma solo perché questi lo supplica di risparmiarlo insieme ai suoi familiari. La stessa cosa deve avvenire in spirito evangelico nel rapporto tra fratelli di fede o tra esseri umani: bisogna, certo, essere sempre pronti a perdonare, anche se tale prontezza non è meccanica ma frutto di profondo doloroso e spesso prolungato travaglio, ma il perdono che la persona offesa deve concedere a chi l’abbia offesa dev’essere chiesto da quest’ultima, e non per motivi di comodo, di convenienza, quanto esclusivamente in ragione della consapevolezza di avere sbagliato, di un pentimento sincero, incondizionato e privo di ambiguità. E’ doloroso constatare che oggi, spesso, gli stessi cattolici non siano molto aiutati a capirlo dai rappresentanti ministeriali di santa madre Chiesa.
La legge evangelica del perdono è chiara e rigorosa, e tutti sono tenuti a conformarsi ad essa al meglio delle proprie umane possibilità e capacità personali. Tuttavia, il Signore non ignora che tra gli uomini esiste una grande diversità di situazioni esistenziali, di esperienze personali, di prove morali e spirituali; Egli sa che la vita non è eguale, non è uniforme per tutti, non ha per tutti le stesse difficoltà, gli stessi pesi, le stesse umiliazioni, le stesse sconfitte, ma che, pur costituendo un banco di prova molto impegnativo per tutti indistintamente, essa, per molteplici fattori, non è un’arena in cui tutti abbiano esattamente le stesse chances, le stesse opportunità di esercitare responsabilmente e dignitosamente le proprie qualità intellettuali, morali, professionali, anche se ognuno dovrà poi rendere conto a Dio dei suoi pensieri e delle sue azioni in relazione allo specifico contesto di vita in cui si sarà trovato a dover riflettere, scegliere, agire, e quindi in relazione alla drammaticità di fatti ed eventi particolari da cui sarà stato travolto o a cui avrà saputo o voluto opporsi nel nome di valori più forti delle sue debolezze e delle sue pur oggettive sofferenze.
Quando si parla di amore e di perdono, non si può dimenticare che non a caso Gesù parla di primi che potranno essere ultimi o tra gli ultimi e di ultimi che potranno essere primi o tra i primi. Solo Dio potrà esprimere un giudizio giusto, equanime, oltre che insindacabile, sulla maggiore o minore capacità di perdonare dei suoi figli: al di là di ogni apparenza, di ogni verosimiglianza e persino di ogni evidenza storico-fattuale, e non è escluso che un giorno, tra gli eterni beati del suo Regno, i suoi giudizi, le sue valutazioni, i suoi riconoscimenti o i suoi rimproveri possano suscitare enorme anche se composto stupore e rovesciare diversi ordini di valore costituitisi nel corso della storia del mondo. Pertanto, la legge del perdono è uguale per tutti, indipendentemente dalle particolari situazioni di vita, e tutti sono chiamati ad aderirvi con il massimo impegno possibile, ma non è e non sarà mai possibile stilare aprioristicamente una classifica degli atti di perdono più nobili o meno nobili, più esaltanti o meno esaltanti. Si vuole qui ripetere quel che lo scrivente scriveva qualche anno fa, solo a titolo esemplificativo: «perdonare chi ti ha abbandonato nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, chi ti ha stuprato magari ripetutamente, chi ha massacrato i tuoi familiari, chi ha sterminato il tuo popolo o ha appeso su una croce il tuo Dio, … , non è un giochino da niente, un gesto o un atto umano che si possa compiere solo perché la tua fede e la tua comunità religiose ti esortino, magari con insulso spirito paternalistico ed ipocrita ed esibizionistica religiosità, a perdonare sempre e comunque. Dio offre i suoi consigli evangelici ma sa bene che non tutti hanno l’oggettiva possibilità di conformarsi ad essi secondo modalità standardizzate di adesione».
Specialmente il perdonare unilateralmente chi di continuo, e spesso deliberatamente, ti reca offesa, oltraggiando la tua intelligenza, la tua sensibilità, la tua dignità, e fingendo poi di chiederti perdono o non curandosi affatto di scusarsi, di pentirsi, di implorare il tuo perdono, non è qualcosa di impossibile solo nel senso che per grazia di Dio qualunque cosa può risultare o diventare possibile e realizzabile, ma costituisce certamente un difficilissimo tema di riflessione, il cui esito non è evangelicamente scontato o spiritualmente preventivabile, un tema che, a dire il vero, non sembra trovare riscontri significativi nelle pagine evangeliche, nelle quali in vero gli atti di perdono appaiono strettamente connessi ad una condizione ben precisa: se qualcuno ti offende e ti chiede perdono, anche settanta volte, tu devi perdonare settanta volte; anzi, bisogna essere sempre disposti a perdonare semplicemente chi, con il suo comportamento, con i suoi atti, si dimostri realmente pentito delle sue colpe e voglia riappacificarsi con l’offeso.
I debiti, di cui parla il Pater Noster, possono e devono essere rimessi a condizione che se ne chieda la remissione con profonda e sincera contrizione, allo stesso modo di come Dio potrà, potrà in questo caso ma non dovrà, rimettere a noi i nostri debiti, solo se saremo stati capaci di fare altrettanto con il nostro prossimo. Anche se venga contrapposta a questo argomentare la celebre frase pronunciata da Cristo moribondo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”, per dimostrare che in realtà il perdono inteso da Gesù abbia carattere di unilateralità, una risposta adeguata e lecita è ancora possibile, giacché Egli, in quel caso, innanzitutto chiede al Padre, che in quanto Dio può essere capace di atti misericordiosi che nessun essere umano potrebbe compiere, di perdonare i suoi carnefici; giacché, in secondo luogo, coloro che si tratta di perdonare perché non sanno quel che fanno, non sono genericamente e astrattamente tutti gli esseri umani in blocco, ma sono i soldati romani pagani che non solo hanno crocifisso Gesù sulla base di un comando ricevuto da altri, ma soprattutto lo stanno insultando, sbeffeggiando, oltraggiando con parole e gesti dovuti principalmente, e diversamente da chi, come i sommi sacerdoti o lo stesso Pilato, ne aveva decretato la morte pur essendo consapevole della sua innocenza e della sua almeno probabile natura divina, al fatto che ignorassero tutto di lui, non avendo mai ascoltato le sue parole, né avendo mai assistito ai suoi prodigi. Il Cristo distingue profondamente tra quelli che peccano conoscendo bene la volontà del padrone, e sono quindi molto colpevoli, e quelli che invece peccano ignorandola, e sono quindi meno colpevoli (Lc 12, 47-48).
Peraltro, anche se, per ipotesi, il Cristo si fosse rivolto con quelle parole a tutta l’umanità, all’universo mondo, nella motivazione addotta a sostegno della preghiera elevata al Padre sarebbe comunque implicita anche una condanna. Infatti, egli chiede al Padre non di perdonare e basta, ma di perdonare gente che non sa quel che sta facendo, gente che non sta facendo del male in modo deliberato, con preventiva scelleratezza, ma con una sorta di ingenua e goliardica incoscienza che è ricorrente in coloro che, per mestiere, devono eseguire ordini così disumani da avvertire istintivamente un bisogno psicologico di evasione sulla base di discorsi e atteggiamenti scherzosi, volgari e osceni, per cui implicitamente diverso risulterebbe il destino di coloro che scientemente avessero condannato a morte il divino Maestro. Ecco: potrebbe essere scusato persino chi compie il male senza averne piena coscienza e senza riflettere sulle conseguenze morali che possano derivarne, ma in nessun caso chi invece non esiti a ricorrervi per soddisfare sue proprie esigenze vitalistiche di sicurezza, guadagno, possesso o supremazia.
In un’epoca in cui il perdono è diventato un tema sociale e mediatico di molto facile e disinvolta propaganda, secondo la quale si tende molto più a compatire chi subisce torti anche gravissimi che a condannare quanti, senza attenuanti di sorta, si rendano responsabili di azioni inique e malvage, a invocare il perdono per i reprobi più che a reclamare la disponibilità di quest’ultimi a riconoscere il male compiuto facendosene totalmente carico, non è più tollerabile né civilmente, né giuridicamente, né religiosamente, che gli offensori godano di una comprensione e di una solidarietà molto maggiori di quelle di cui generalmente vengono a beneficiare le vittime di qualsivoglia forma di imbroglio, prepotenza, prevaricazione, oppressione, delitto, anche al di là dei reati contemplati dal codice di procedura penale.
Ma, poiché di fatto la giustizia umana, anche al di fuori delle aule di tribunale, è sommamente imperfetta e assai raramente è capace di ristorare in modo adeguato i danni materiali e morali subìti da quanti siano vittime di premeditata o sistematica violenza, non è evangelicamente pensabile che il Signore non tenga conto con particolare benevolenza tanto dell’eventuale condizione di dolorosa solitudine in cui venga a trovarsi l’offeso, l’emarginato, il perseguitato, e a causa della quale questi ultimi non riescano a trovare neppure la forza di porsi il problema se offrire o meno il perdono ai propri nemici, quanto, e con particolare severità, dell’incapacità dell’offensore di chiedere umilmente perdono e convertirsi coerentemente a nuova vita. Il Signore porta con sé in paradiso persino un malfattore che si converte all’ultimo istante di vita, per quale ragione non dovrebbe manifestare tutta la sua divina e paterna comprensione a quanti siano colpiti da sventure e lutti oltremodo gravi e non dovuti all’imponderabile ordinario dell’esistenza ma provocati da cattiveria e malvagità deliberate e inescusabili di cui gli autori non ritengano di doversi pentire e fare ammenda?
Nel vangelo e nei valori in esso proclamati, come per l’appunto il perdono, non si trova traccia di ipocrisia, di politicamente corretto, di retorica e di demagogia, anche se purtroppo nelle pratiche ecclesiali ed ecclesiastiche contemporanee l’uno e gli altri vengono spesso declinati in forme moralistiche, umanitarie, comunitarie talmente melliflue e accattivanti, da svuotarli completamente del loro rigoroso significato spirituale, del loro originario e impegnativo valore educativo, della loro finalità escatologico-soteriologica del tutto priva di senso consolatorio, rassicurante e in qualche modo deresponsabilizzante ma ricca, al contrario, di una forte carica di incentivazione a collocare la propria esistenza in un’ottica di sacrificio, di rinuncia, di sofferta ma appassionata fedeltà ai beni ancora invisibili ma eterni del cielo piuttosto che ai beni visibili ma effimeri della terra.
Agli ipermisericordisti e iperperdonisti del tempo presente che tendono spesso a disconoscere che il confidare nel perdono divino non esclude la necessaria consapevolezza di essere e restare sempre umanamente soggetti al suo giudizio, non si può non ricordare che, se la vita eterna è esclusiva creazione di Dio, la morte eterna è, sia pure decretata ab aeterno da Dio come possibilità di definitiva perdizione, essenzialmente il frutto della libertà umana che viene esercitandosi reiteratamente e irreversibilmente in contrasto con le leggi stesse della vita in Dio. Il Cristo ha dato la vita per le moltitudini ma non ha mai detto che tutti si sarebbero salvati, pur senza precisare d’altra parte chi e quanti avrebbero conseguito la salvezza. E, di certo, non ha mai detto che la salvezza sia a portata di mano, dal momento che vi si può arrivare solo per una porta molto stretta e attraverso una testimonianza di fede molto impegnativa e rigorosa che nulla concede né al formalismo religioso, né al facile sentimentalismo o ad approcci spirituali puramente emotivi. Il che si riflette ancora una volta sul concetto stesso di perdono, che evangelicamente va esercitato, tanto per darlo che per riceverlo, sia al di fuori di atteggiamenti mentali puramente formali, convenzionali, diplomatici o basati su calcoli di varia natura pratica, sia al di fuori di rigidità psicologiche eccessive, di irragionevoli pretese etiche, di forme ingiustificate di pregiudizio e di odio. Concedere o ricevere il perdono può essere molto costoso e non è detto, peraltro, che una volta concesso o ricevuto, produca esiti sicuramente o irreversibilmente pacificanti verso se stessi e verso i nostri offensori. D’altra parte, è anche vero che l’originale logica cristiana dell’amore e del perdono nulla concede al «conformismo» e al «bigottismo», benché resti assolutamente chiaro che la peculiarità di questa logica è nel divieto di fare un uso reiterato o arbitrario della violenza, là dove dovesse rendersi necessario il ricorso ad essa, come per esempio nel caso in cui si tratti di difendere da atti di aggressione o da propositi omicidi persone inermi e innocenti.
Ma provare sempre a perdonare o ad accettare di essere perdonati è, questo sì, evangelicamente doveroso e necessario, perché il Signore, com’è noto, attribuisce meriti non già a creature capaci di ottemperare alla sua volontà con perfezione angelica, dove ovviamente ci sarebbe da chiedersi se persino i santi più gloriosi siano capaci di vivere in modo perfettamente virtuoso, ma già a creature che si esercitano, con sforzo e al meglio delle proprie possibilità e capacità, nel perseguimento del vero, del bene e del giusto. Agli occhi di Dio, non ha importanza l’atto in quanto tale del perdono, ma la qualità del perdono, le ragioni e i fini per cui si sia disposti a perdonare o a chiedere perdono. Ha importanza anche la continua e orante lotta interiore contro l’incapacità di perdonare o di perdonare in modo compiuto e definitivo.