La fede come cultura di verità. Per un cattolicesimo alternativo ai saperi egemonici del mondo

Scritto da Francesco di Maria.

La fede è cultura, è statutariamente cultura, in quanto espressione di un sapere radicalmente altro dai saperi puramente storico-immanenti. Qui si intende il termine cultura non come eterogeneo alla parola fede, ma come interno, inerente ad essa. Se viene meno o si appanna il senso identitario dell’originaria fede evangelica, viene meno o si appanna simultaneamente il nucleo culturale ispiratore di essa costitutivo e in essa incentrato, per cui il dialogo più proficuo non è quello tra fede in quanto esperienza credente e cultura in quanto esperienza pensante, ma tra fede come esperienza credente e pensante rispetto a cui la cultura non si pone come momento semplicemente esterno rappresentandone invece un essenziale momento costitutivo1. Ove invece si verifichi una divaricazione di principio tra fede e cultura, la fede e la sua intrinseca carica educativa e formativa, ovvero culturale, non possono più esercitare alcuna funzione critico-veritativa nel quadro delle fedi e delle culture altre, nel contesto dei processi storico-mondani di razionalizzazione ed emancipazione civile.

Perciò, non è che la fede debba diventare cultura per non rischiare di essere irrilevante, la fede è già cultura, è in se stessa cultura e cultura di verità, in quanto riflesso diretto e immediato di una sapienza divina, è quindi una forma, o meglio principio fondativo e giustificativo di una forma originale di sapere funzionale ad una radicale rifondazione critica di tutti gli ambiti esistenti dello scibile umano. Il sapere cristiano è un sapere rivelato, un sapere che si riconosce nato non per partenogenesi storico-antropica ma per la sorprendente irruzione di un modello inedito e superiore di razionalità nelle strutture ordinarie e già costituite del pensare e del sentire di uomini e donne. Il sapere cristiano, dunque, nasce storicamente con lo stigma della superiorità della sua potenza intellettuale e morale, della quale ultima sono parte integrante le virtù evangeliche dell’umiltà e della coraggiosa parresìa, e con la doverosa ma non superba consapevolezza di essere chiamato vocazionalmente a porsi quale principio universale di legittimità di tutti i possibili paradigmi storici di conoscenza e razionalità.

Ciò significa che le origini della fede in Cristo non sono quelle di un modo religioso di pensare e di vivere che, appunto perché religioso, sarebbe altro dalla cultura come patrimonio di conoscenze, usi, costumi, pratiche di vita, ma quelle di una forma mentis che nella religiosità, o meglio nel quadro di una ben definita e specifica identità religiosa, viene individuando una dimensione imprescindibile di qualsivoglia forma di verace, sapiente, rigoroso e illuminato, sapere critico. Non si tratta di dire: qui c’è la fede, lì c’è la cultura, quasi che tra l’una e l’altra sussistesse una distanza o una differenza ontologica, in quanto la fede, che riposa sul messaggio di Cristo, è culturalmente autonoma rispetto ai diversi ambienti e condizionamenti socioculturali esistenti, anche se naturalmente si tratta di curarne le modalità comunicative tenendo conto delle culture altre in cui essa deve poter far breccia. La fede è culturalmente autonoma ed è costitutivamente un paradigma culturale tra altri paradigmi culturali, la cui funzione è però quella di proporre per quest’ultimi una logica di conversione, in virtù della quale i soggetti che vi si riferiscono per appartenenza si sentano beneficamente sollecitati non già ad abbandonarli o a smarrirli, bensì a convertirli in forme spirituali più significative e ricche di moralità e socialità.

Al limite, se nel mondo degli uomini si producesse improvvisamente un azzeramento di tutte le sue fonti, forme e acquisizioni civili e culturali, la fede evangelica potrebbe ancora assolvere la primaria funzione culturale di offrire sicure guide conoscitive e morali alla mente e alla coscienza degli uomini. E’ peraltro ovvio che la valenza culturale della fede dipenda dal modo in cui l’annuncio evangelico venga ascoltato, recepito, appreso, assimilato, curato e vissuto2. Ecco: in tal senso, non penso che sarebbe scontato quel che dice Cacciari, cioè che, se la Chiesa sapesse e volesse essere segno di contraddizione, avrebbe vicino a sé diversi laici pensanti. Intanto, perché, sia per la Chiesa, sia per il pensiero laico, è sempre stato e continua ad essere molto difficile essere segni di contraddizione, e poi perché il cattolico segno di contraddizione, al di là di possibili e apparenti affinità con quello laico, è costitutivamente diverso dal segno di contraddizione del pensatore laico, s’intenda meglio agnostico o ateo, in quanto per un cattolico il segno di contraddizione è esclusivamente Cristo e in Cristo, per un laico non credente o genericamente credente può esserlo solo per quel tanto di razionalità che, per civile concessione, venga riconosciuta alla Parola, oltre che alle parole, del Cristo3.

Ma, in realtà, è solo la parola di Cristo che costringe chiunque a venire allo scoperto, a non nascondere la sua ipocrisia e la sua immorale ambiguità nella parola artefatta anche se talvolta suadente della sapiente retorica mondana. Dinanzi a Cristo, e solo davanti a lui, non è possibile nascondersi e nascondere la propria reale identità: chi è vero è vero, chi è falso è falso e rimane falso. Verità, amore, giustizia, carità: sono tutti termini che solo alla luce della sua Parola di verità e vita, perdono ogni ambiguità, ogni possibile significato equivoco. Si tratta, evidentemente, di ascoltarla con attenzione, senza pregiudizio, con devozione, con predisposizione mentale ad accoglierla per quel che è e contiene, per le sue reali e possibili implicazioni pratiche, senza alterarne o semplificarne riduttivamente il senso e il valore. Certo, è anche umano fraintendere o cogliere solo parzialmente il reale significato dei suoi pensieri e del suo discorso di salvezza, ma sia l’onesto credente che l’onesto non credente hanno mille modi e mezzi per informarsi, chiedere consiglio, migliorare le proprie capacità di ascolto e di comprensione. Talvolta, persino i papi fraintendono, deformano, manipolano, restando probabilmente vittime di inconfessate e forse inconsce suggestioni politico-ideologiche: sono quelli i momenti in cui il popolo di Dio deve stare loro particolarmente vicino in spirito di carità, con la preghiera, ma anche, se necessario, con franchi e pubblici richiami, critiche ed esortazioni. 

Oggi come ieri «egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 34-35). Non basta esprimere e indirizzare parole di  ammirazione e di gratitudine al Salvatore dell’umanità per poter uscire risanati dal lacerante spirito di contraddizione che si sprigiona dalla lama tagliente della Parola evangelica di Dio. Bisogna essere disposti a rinnegare e a tagliare i rami secchi e infruttuosi del proprio sapere, delle proprie idee e convinzioni, dei propri giudizi e comportamenti. Ma, a dire il vero, quel severo e autorevole segno di contraddizione non piace a molti, forse neppure a coloro che, in qualità di non credenti, lo vengano teorizzando enfaticamente come condizione di collaborazione intellettuale e morale tra quest’ultimi e i credenti. Ma la preoccupazione più grave è che quel segno di contraddizione venga sí evocato, all’interno stesso della Chiesa, ma solo o soprattutto come paravento della falsità, della mentalità compromissoria e condiscendente, dello spirito paganeggiante e molto tiepidamente religioso, dei suoi ministri, dei suoi teologi, dei suoi accademici, delle sue gerarchie vescovili e cardinalizie.

Quel segno di contraddizione è percepito come troppo ingombrante, troppo complicato da proporre come criterio di vita spirituale in un mondo ormai invaghitosi più del verbo della colta e civile tolleranza che di quello della esigente e sferzante verità evangelica, che viene smorzata, attenuata, depotenziata, addolcita, svilita, negli ambienti ecclesiali ed ecclesiastici con mille smancerìe teologiche e pastorali. Ma allora, come è stato ben scritto da una ancora sana comunità pastorale dell’Arcidiocesi di Milano, «è questo il motivo per cui oggi Cristo va tolto di mezzo, il suo Vangelo va oscurato, la sua grazia trasformata in pura, sfarzosa ritualità, la sua Chiesa in un’organizzazione senza la Parola, i suoi ministri ufficiali in esecutori di carte da compilare, ma non più né maestri, né profeti, né pastori, né santificatori del popolo di Dio. La Parola di Cristo rivela tutta l’immoralità, l’idolatria, la falsità, il male che vi è in ogni legge degli uomini e in ogni loro decreto. Manifesta tutto il male che gli uomini compiono contro gli uomini e contro la creazione. Se Cristo viene esiliato nel suo cielo eterno, sulla terra scompare ogni differenza tra luce e tenebre, verità e falsità, morale e immoralità, giustizia e ingiustizia, vero Dio e infiniti falsi dèi o idoli. Il motivo per cui neanche più nella Chiesa si vuole che Cristo Regni con la potenza del suo Vangelo è la luce della sua divina verità. Finché ci sarà un solo cristiano che crede nella Parola di Gesù e l’annunzia, la conversione alla luce potrà essere sempre possibile. Senza la Parola di Gesù la verità si oscura»4.

Ma, senza rigoroso e non negoziabile spirito di verità, come faranno i cattolici a lavorare all’unità della loro Chiesa e come faranno ad annunciare e a testimoniare il vangelo nel mondo? Perché questo possa avvenire, non è necessario innanzitutto un serio e impegnativo lavoro culturale, un esercizio critico di razionalità, in cui la fede ispiratrice venga come emarginata o lasciata sullo sfondo, ma un sempre attivo e convinto ribadire le ragioni fondanti e ultime della fede, a prescindere dalle quali non sarebbe possibile un impegno culturale e civile realmente efficace e produttivo. Se non si parte da questo, è perfettamente inutile lanciare appelli a fare rete, a lavorare insieme, ad incontrarsi, a dialogare, per cercare nuove forme di evangelizzazione e testimonianza cristiana, anche perché, troppo spesso, gli autori di questi appelli, lo dico anche per esperienza personale, sono soggetti inaffidabili e non di rado affetti da narcisistica manìa di protagonismo. Peraltro, quegli appelli me li porto nelle orecchie da quando ero appena adolescente, per cui ho il timore che noi cattolici siamo abituati più a far parole, chiacchiere e sermoni retorici, che non fatti inequivocabilmente concreti e significativi, tra cui vanno certo inclusi ragionamenti e discorsi chiari e sensati, ispirati e attendibili, essenziali e privi di bolsa retorica paternalistica e spiritualistica come anche di eccessivi o incontrollati slanci attivistici e praticistici di pensiero e di azione, specialmente in campo politico e sessuale5.

Il cristiano tuttavia, in quanto tale, nasce colto e rimarrà colto o potenzierà la sua cultura, se, nel corso della vita, continuerà ad immergersi con quotidiana umiltà nelle acque battesimali dello Spirito Santo che è, innanzitutto, Spirito di verità. Potrà essere, ovviamente, più o meno colto e più o meno umilmente colto, ma la cultura, la sapienza, il santo e benefico sapere, circoleranno costitutivamente nel suo sangue. Certo, poi il cristiano, oltre che apostolo, testimone e povero di spirito, potrà essere anche filosofo e, in quanto tale, dovrà preoccuparsi principalmente di essere non un filosofo ma un buon filosofo, indipendentemente dal giudizio delle corporazioni accademiche, giacché la Chiesa, come in senso ministeriale ha bisogno non di pastori ma di buoni pastori, così in senso universale ha bisogno anche non di filosofi ma di buoni filosofi, anche se il mondo li dovesse scambiare per cattivi filosofi. Oggi si parla tanto di «crisi di identità e di incidenza della cultura cattolica»: è giusto e doveroso parlarne, ma va detto che le cause di questa crisi sono anche o prevalentemente sia nella mancanza di buoni sacerdoti che nella penuria di intellettuali validi, cioè chiari e incisivi, e militanti. 

Sulla questione della crisi dell’identità e della cultura cattoliche, il giornale “Avvenire” ha aperto di recente, con Sequeri e soprattutto con Righetto, un dibattito necessario6, esprimendo giuste osservazioni e tuttavia commettendo, per bocca dello stesso Righetto, l’ingenuità di individuare nel presidente della CEI, cardinale Zuppi, un autorevole punto di riferimento. Con tutto il rispetto, Zuppi è soprattutto un cardinale politico incaricato dal papa di fare la sua volontà di papa più che di ottemperare diligentemente alla volontà di Cristo. Tuttavia, Righetto muove da una constatazione ben precisa: «la svalutazione della cultura da parte della Chiesa e del mondo cattolico italiano. E’ un fenomeno universale e trasversale», egli scrive, «che tocca vescovi e preti, ma anche i laici. E’ rarissimo leggere pronunciamenti del magistero che affrontino la questione, ed è difficile trovare parrocchie che investano tempo e soldi per realizzare iniziative culturali. Si tratta di un limite che abbiamo avuto negli ultimi decenni noi cattolici in Italia: si è verificata una sorta di abbuffata di attivismo e di sociologismo dagli anni ’70 in poi»7.   

Bisogna però precisare che “la svalutazione della cultura” non appartiene alla storia bimillenaria della Chiesa, che è sempre stata una fucina di conoscenza, di sapere e di pratiche culturali, fino ad esercitare una vera e propria egemonia culturale sul mondo europeo e occidentale almeno fino a tutto il XVII secolo. La Chiesa stessa è il prodotto di una grande rivoluzione non solo religiosa ma anche culturale, conseguente alla predicazione di Gesù. Non bisogna dimenticarlo. Una certa svalutazione della cultura, probabilmente non voluta, si può far coincidere con la storia della Chiesa della seconda metà del novecento ma, più segnatamente, della Chiesa retta oggi da uno dei papi più autoreferenziali e meno attrezzati, in sede teologica e culturale, dell’intera storia della Chiesa: Jorge Bergoglio, al quale di certo non potrebbe essere gradito un filosofo cattolico come Gustave Thibon, per il quale notoriamente anche partecipare ad una guerra necessaria di difesa poteva costituire un atto di amore o carità evangelici8. A dire il vero, uomini cattolici di cultura rigorosi, coerenti e chiari come Thibon, sarebbero indigesti anche a gran parte della stessa cultura laica non credente di questo secolo, per esempio ad un intellettuale molto presente nel dibattito filosofico e politico contemporaneo come Cacciari, che non ama per niente i sostenitori dell’interventismo militare a sostegno del popolo ucraino.

Circoscrivendo il discorso al ‘900, in esso una notevole egemonia culturale, anche se troppo spesso a senso unico, è stata esercitata dall’intellettualità della sinistra marxista e favorita senza dubbio dall’apertura programmatica del Partito comunista italiano ad un’istanza di studio rigoroso, di libero dibattito su temi e questioni di vitale importanza teorico-politica ed etico-civile e di democratico confronto tra tutte le componenti culturali e religiose nazionali. Il partito politico dei cattolici, la Democrazia Cristiana, per quanto principale forza politica italiana del dopoguerra e dei primi quattro decenni della seconda metà del novecento, non avrebbe saputo fare lo stesso, non avrebbe saputo suscitare né interesse, né partecipazione di popolo intorno al progetto di una robusta e vivace cultura cattolica, al quale fosse possibile lavorare in tutti gli ambiti e a tutti i livelli educativi e formativi del sistema scolastico e culturale italiano, a cominciare dalle scuole elementari, per passare poi attraverso l’insegnamento e l’apprendimento della scuola media primaria e secondaria, fino ad arrivare alla ricerca e alla formazione universitarie. Forse, per i dirigenti politici democristiani di allora era sufficiente esercitare l’egemonia politica per poter raccogliere poi, in modo quasi automatico, anche il frutto di una crescita graduale della cultura cattolica, in un Paese peraltro che era sede della Chiesa universale di Cristo.

Ma il clero cattolico italiano, spesso dotato di spirito caritatevole nel quadro delle opere assistenziali e dei rapporti interpersonali con penitenti e gente comune, non sembrò ritenere che l’impegno culturale serio e approfondito potesse essere una carta vincente per l’affermazione di una grande cultura cattolica in Italia, in grado di tenere testa a tutti i principali movimenti culturali e a tutte le maggiori correnti filosofiche, artistiche e letterarie del mondo contemporaneo.

Troppa presunta e pretesa autosufficienza e troppa autoreferenzialità continuano ad essere, e oggi ben più che nei precedenti decenni, gli elementi più critici di una Chiesa italiana mediocremente preparata sotto l’aspetto spirituale e teologico nelle sue componenti gerarchico-ministeriali e quasi inesistente, anche a livello di masse popolari, dal punto di vista specificamente critico-culturale: quasi inesistente ma anzi paradossalmente esistente solo per la sua subalternità di fatto a tanta cultura laica irreligiosa o solo profanamente “religiosa”. Questa è la situazione reale e, qualora  si pensasse di addolcirne i tratti, si arrecherebbe un danno ancora peggiore alla causa del possibile rilancio di una cultura cattolica almeno degna delle sue più gloriose epoche storiche.

Oggi il cristianesimo è praticamente assente dalla scena mondiale per un’intollerabile mancanza di fede e di cultura, in quanto, ove ci fosse una fede granitica, anche il pensiero critico e il risveglio culturale non potrebbero che germogliare, dal momento che la fede in Cristo redentore non può che implicare e favorire anche, se coltivata con diligenza e audacia spirituale, la redenzione dell’intelligenza, oltre che dei cuori, la redenzione e la prosperità della produzione razionale, conoscitiva, filosofica e tecnico-scientifica, artistica e letteraria,  insomma di tutte le espressioni della vita complessiva dell’umana spiritualità.

Quindi, a ben vedere, il problema non è che la fede non possa esprimersi senza la cultura, come anche Righetto tende in buona fede a ripetere, ma è che la fede o viene percepita, già in se stessa, come espressione del più prezioso sapere mai comparso, o meglio rivelatosi sulla terra, e quindi continua ad essere coltivata nei modi più diversi e fecondi in chiave culturale, semplici o complessi che siano, intervenendo autorevolmente e criticamente sulle culture altre, che sono culture puramente terrene, oppure essa non ha, in senso generale, grandi possibilità di sopravvivere nella storia e di ricongiungere la storia della terra a quella del cielo. Certo, bisogna anche stare attenti, e questo è un non trascurabile problema complementare, acché la fede non venga alienandosi nei complessi, cavillosi e spesso artificiosi dibattiti culturali che seguono dal suo stesso porsi come segno spirituale, religioso e culturale, di contraddizione, e non venga quindi smarrendo il suo senso ultimo o escatologico, che non è necessariamente il trionfo nelle dispute, ma il trionfo della fede testimoniata sulle dispute e sui conflitti esistenziali di qualsivoglia natura, cioè rispetto ad essi.    

Occorre sempre tener presente che il messaggio evangelico esprime un messaggio culturalmente potente, sovversivo, destabilizzante, persino nei confronti delle più potenti forme costituite di potere terreno: esso è un messaggio che veicola un tasso talmente dirompente di criticità da indurre ogni coscienza a chiedersi insistentemente se si diano nella storia del mondo forme altrettanto critiche e corrosive di sapere. Il sapere evangelico-cristiano, oggi cattolico nella sua forma di maggiore universalità, è un sapere assoluto ma intrinsecamente problematico, perché non prevede che nell’ordine delle cose terrene possano darsi risposte o soluzioni scontate e definitive e proprio in ossequio alla verità, alla giustizia e all’amore assoluti di Dio; è un sapere del conflitto e della contraddizione in quanto è un sapere selettivo, qualitativo, divisivo, anche se funzionale ad un modello particolare di unità spirituale ed ecclesiale, morale e sociale (l’unità cristiana non è un’unità a tutti i costi, un’unità qualsiasi, ma una unità nello spirito della verità divina), che impone scelte precise, nette, spesso costose e impopolari, e non sempre conciliabili con motivazioni che potrebbero opporvisi, e quindi è un sapere anche moralmente ed eticamente diverso e alternativo ad altre forme di sapere etico e morale, per cui non sarà la concordia anche tra posizioni non solo erronee ma dannose e posizioni veritiere e benefiche che ad esso importerà, non la mediazione tra idee peccaminose e pericolose e idee virtuose e benefiche, non la pace sempre e comunque.

Il sapere di Cristo è un sapere pacifico ma non pacifista, contemplativo e ascetico ma non quietistico e ignavo, caritatevole ma mai accomodante e, al momento opportuno, anche intransigente e combattivo. Ora, è questo il sapere che viene oggi promosso dal cattolicesimo dominante? Io ho vissuto da bambino sotto il pontificato di Pio XII, da adolescente sotto quello di Giovanni XXIII, da adolescente maturo sotto quello di Paolo VI, da uomo ormai maturo e professionalmente impegnato sotto i 33 giorni di pontificato del mio omonimo papa Albino Luciani ovvero Giovanni Paolo, e poi sotto i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Jorge Bergoglio. Orbene, non mi sono mai state indispensabili le conoscenze storiche, filosofiche, teologiche, via via acquisite, per intuire e comprendere che il pontefice più lontano dall’ortodossia cattolica, a prescindere dal mutare dei tempi, fosse l’ultimo, il già citato Bergoglio. Mi spiace, anche perché tale severo giudizio potrebbe anche non essere gradito al Signore, ma, specialmente in qualità di pecorella talvolta smarrita, non ho mai avuto la sensazione che potesse essere per me non dico come il buon pastore ma neppure come un buon pastore.   

Gesù sapeva che le sue parole di verità avrebbero incontrato opposizione, resistenza, reazione in un mondo basato su logiche egoistiche e materialistiche, di avidità e possesso, di dominio e supremazia, di vanità e rivalità, e sapeva che esse avrebbero costretto chiunque, persino i suoi stessi seguaci, a scelte difficili, impegnative, oltre che virtuose e coraggiose, ad una lotta permanente contro il male interno a noi e fuori di noi. Anche Gesù, quindi, era inquietante, non qualunquisticamente rassicurante, e non poteva essere che divisivo, conflittuale rispetto ai modi ordinari, stereotipati, in cui generalmente gli esseri umani erano soliti ragionare e agire nei loro rapporti interpersonali e all’interno delle loro comunità sociali o religiose di appartenenza, anche Gesù era percepito come divisivo e conflittuale per mancanza di conoscenza delle vere e originarie leggi della vita umana e per la difficoltà ad accettare tali leggi a causa della loro carica destabilizzante che tendeva a mettere in crisi e a fare piazza pulita di meccanismi intellettivi e modelli comportamentali ampiamente consolidati e sperimentati ma completamente sterili e improduttivi. Ma è forse a questo modo di pensare e di agire che viene conformandosi l’attuale pontificato? Gesù non si poneva minimamente il problema di apparire “nuovo”, “moderno”, ma si limitava a cambiare le cose oggettivamente antitetiche alla volontà del Padre. Si può essere sicuri che anche Bergoglio sia sulla strada giusta?

D’altra parte, Gesù non pretendeva di stabilire una supremazia del potere spirituale della sua Chiesa sul potere politico e di governo di Cesare, dell’Impero o dello Stato, pur sapendo che ogni potere di governo non potesse che essere di natura violenta, repressiva, coercitiva, perché finalizzato a contrastare il male sociale generato dal peccato originale, o anche di natura bellico-militare perché finalizzato a proteggere i suoi sudditi e i confini della sua legittima area territoriale di influenza da possibili minacce e nemici esterni. Gesù non ha mai detto, né lasciato pensare che, anche in presenza di pericoli e minacce mortali per il suo popolo, uno Stato fosse semplicemente tenuto a tentare di scongiurare con le buone l’aggressività omicida di eserciti nemici e i loro propositi di invasione e occupazione.

Sembra, però, che non sia affatto questo l’atteggiamento assunto dal pontefice e da molti cattolici del primo venticinquennio del XXI secolo sul tema della guerra. Ancora: Gesù non ha mai né lasciato intendere né sottinteso che uno Stato, non già singole persone o un gruppo di privati, ma una compagine statuale avesse l’obbligo politico, giuridico e morale di farsi sistematicamente carico di inesauribili flussi migratori e di accogliere nel miglior modo possibile schiere sterminate di migranti, a prescindere dai suoi obblighi primari e relativi alle necessità economiche, sociali, abitative, sanitarie, della popolazione indigena.

L’indiscriminato umanitarismo laico, cattolico e papale, che va oggi tanto di moda e a cui troppo spesso, erroneamente, si attribuiscono origini biblico-evangeliche, è in realtà fondato su approcci ideologici deformanti all’epocale fenomeno migratorio e su letture manifestamente distorsive delle implicazioni morali che deriverebbero dal precetto biblico-evangelico dell’ospitalità da riservare allo straniero. Lo dico a possibile beneficio di teologi come  Giuseppe Lorizio9 che non la pensano come lo scrivente sia sulla guerra che sul fenomeno migratorio, sia forse anche su altri temi: non esistono motivazioni biblico-evangeliche e teologiche realmente valide che si oppongano in modo tassativo all’accettazione evangelica della guerra difensiva o comunque necessaria a proteggere la vita e i beni di popoli ingiustamente e malvagiamente oppressi e perseguitati, e al suo essere una concreta opportunità per manifestare sentimenti doverosi e fraterni di amore verso persone e popoli colpiti da forme di violenza odiose ed efferate, semplicemente incomprensibili e intollerabili. E non esistono controindicazioni evangeliche e teologiche rispetto alla facoltà degli Stati, riconosciuta e legittimata da Cristo, di adottare decisioni politiche idonee ad affrontare, nell’esclusivo interesse dei propri sudditi o cittadini, eventuali fenomeni epocali quale una migrazione permanente e incontrollata. 

L’umanitarismo confuso, ostentato e patologico dei giorni nostri, quello stesso umanitarismo che viene coniugandosi con morbose pretese giuridiche finalizzate alla legittimazione di voglie e tendenze sessuali scomposte e pruriginose di ogni genere, è del tutto antitetico al senso di umanità che Gesù manifestava persino verso i peggiori peccatori: mai un’accusa aprioristica e indiscriminata, mai una condanna morale definitiva verso alcuno, ma sempre parole di conforto e incoraggiamento verso chiunque e tuttavia, al tempo stesso, un giudizio di dura e inappellabile condanna verso le perversioni sessuali di qualunque genere, ivi comprese quelle riguardanti la pratica omosessuale e la sodomìa, come anche verso trasgressioni personali e sociali quali l’aborto volontario, l’adulterio o il divorzio non giustificato da valide ragioni di invalidazione del matrimonio già contratto. Mi pare di poter dire che tra il cattolicesimo delle origini e il cattolicesimo conformista e spesso ideologizzato dei nostri tempi passi una distanza siderale10.

Per questo motivo, la religione cattolica contemporanea è, fondamentalmente, «una religione senza Dio», e sottoscrivo senz’altro le considerazioni e i giudizi qui di seguito citati di Righetto, benché egli li esprima erroneamente anche nel nome e per conto di papa Bergoglio11, e benché io non sappia esattamente cosa pensi egli su tanti temi specifici e, in particolare, sulla guerra in atto in Ucraina, sulla quale non pochi cattolici alla Marco Tarquinio si limitano ad esprimere una loro ripulsa emozionale più che razionale e cristianamente motivata: «È diventato sempre più difficile esprimere e diffondere idee non omologate, dare risonanza alle voci che non sono organiche al sistema economico e tecnoscientifico, che hanno espropriato l’editoria, la stampa, i media e proclamano quelle loro verità relative, nella ripetizione di luoghi comuni che alimentano chiacchiere di posizione contrabbandate per dibattito culturale. Segnalo poi che in Francia, dove il cattolicesimo è in crisi profonda di fedeli e praticanti ma è ancora presente una notevole effervescenza intellettuale, è in corso una discussione a mio modo di vedere rilevante sulla presenza (e sulle sorti) del cristianesimo e molti di coloro che sono intervenuti, ad esempio sulle colonne della Croix, hanno usato la definizione di “controcultura”. In Italia dibattiti aperti su questi temi sono rari, il mondo cattolico è afflitto da pigrizia intellettuale. Ma la questione è decisiva: si tratta dell’engagement cristiano capace di esprimere una resistenza culturale e spirituale insieme, una testimonianza evangelica che, come continuamente richiama papa Francesco, non si ammanta di esibizionismo, ma si realizza nei gesti quotidiani. In questo senso, più che di “controcultura” sarebbe corretto parlare di un diverso orientamento di vita. Segno di quella che il teologo ortodosso Olivier Clément prefigurava come un “cristianesimo della libertà”, non più fondato sulla rivendicazione del potere e sull’ossessione della sessualità: un cristianesimo rinnovato, una religione dei volti e della bellezza»12.

Righetto si dilunga poi in una serie di analisi descrittive di tipo storico-sociologico che vanno sostanzialmente a riprova di una crescente desertificazione della spiritualità e della fede cattolica nella società occidentale, denunciata anche dal papa regnante come se lui non ne fosse in alcun modo responsabile: ma, se il pensiero cattolico è molto meno vitale di un tempo, ciò si deve anche ad una perdita del senso identitario della fede e della cultura evangeliche. E qui di nuovo, probabilmente, devo dissentire da Righetto che parla genericamente e sbrigativamente, in senso negativo, di un odierno “ripiegamento identitario”, di cui Francesco non sarebbe in alcun modo responsabile. Che significa esattamente tale espressione? Sarebbe la stessa cosa se si dicesse riconquista identitaria, resipiscenza identitaria, rifondazione identitaria, ricostituzione identitaria, riscoperta identitaria, o stiamo dicendo cose diverse? Temo che i giudizi di valore sottesi a questa diversità terminologica abbiano un ben differente senso etico-teologico.

Chi accoglie la fede in Cristo verosimilmente aderisce anche, intuitivamente o riflessivamente, ad un’idea di verità, di libertà, di giustizia, di amore, di uguaglianza e di bene: aderisce, cioè, ad una proposta culturale in nuce di vita individuale e personale e di vita associata e comunitaria. Quindi, non appare dotato di chiarezza univoca il concetto per cui «la cultura non può che nascere dalla vita; ma non sempre, anzi quasi mai, vale l’inverso. Per cui nessuna analisi sulla perdita di incidenza della cultura cattolica nel nostro tempo e nessun suggerimento “terapeutico” possono prescindere dal riproporre il problema dell’inizio»13. La cultura non può che nascere dalla vita: ma nel caso della paradigmaticità culturale della fede cristiana, essa nasce dalla vita naturale, terrena, mondana, storica, o da una sapienza preesistente, da una sapienza preesistente di vita rispetto alla temporalità e storicità degli avvenimenti? Se, come da un punto di vista cristiano dovrebbe ritenersi, la risposta più giusta è quest’ultima, allora si può dire che la cultura, che nasce dal Logos divino, che è razionalità purissima ed empiricamente incontaminata, è, per ciò stesso, cultura di vita, cultura della vita disegnata e sussistente ab aeterno nella mente di Dio, per cui, anche se in ogni tempo della storia umana il problema della fede e della connessa cultura cattolica non può che riproporsi sempre dall’inizio, sotto le pressanti e urgenti sollecitazioni di una vita storica concreta, questo non toglie che le risposte evangelicamente corrispondenti a tale problema e, per così dire da esso reclamate, siano ancora una volta e sempre espressione del Logos eterno di Dio e dell’universale struttura della vita da esso creata.

Dopodiché, molto più equivoco appare l’assunto cui sembra andare a parare la premessa appena esaminata e discussa: quello per cui, si legge, «il desiderio soggettivo e individualistico di felicità, oggi molto marcato nella società globale e coincidente anche con l’esigenza di porre nuove domande e non di ricevere vecchie e scontate risposte, lungi dall’essere demonizzato, potrebbe invece costituire una base esistenziale di partenza per un nuovo ed elettrizzante incontro con Cristo»14, là dove però, anche a voler raccogliere tale considerazione come utile provocazione, bisogna pur sempre vedere se le nuove domande di cui si avverta l’esigenza siano domande giuste o errate, legittime o fuorvianti, per cui, nell’ipotesi che siano errate e fuorvianti, non potrebbero tornare utili o addirittura necessarie «le vecchie e scontate risposte», peraltro mai, in quanto tratte da precedenti, profonde riflessioni sull’eterna sapienza divina, completamente vecchie e scontate? Il vangelo non è forse un tesoro da cui si estraggono sempre «cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 44-52)?

Quanto poi al fatto che l’argomentazione di cui sopra sarebbe stata anche rilanciata dal papa regnante «nell’introduzione al libro Domande di Dio, domande a Dio. In dialogo con la Bibbia di Timothy Radcliffe e Lukasz Popko (Roma, LEV, 2023)» in questi termini: «Il cristianesimo si è sempre posto vicino a chi si interroga, perché – ne sono convinto – Dio ama le domande, le ama davvero. Penso che ami più le domande delle risposte. Perché le risposte sono chiuse, le domande rimangono aperte»15, si deve osservare che Dio ama le domande sincere, leali, sagge, persino le domande cariche di disperazione e di protesta quasi blasfema, purché scaturiscano da una ricerca seria e sofferta di Dio, ma non tollera le domande che esprimano rabbia, risentimento, rancore, odio, a causa del fallimento di ambiziosi o futili o inessenziali progetti o visioni personali di vita, non tollera le domande degli stolti e degli ingrati, di chi insomma non ha nel cuore i suoi desideri ma i desideri di Satana. Alle domande intelligenti, sensate, non pretenziose e non implicitamente comprensive di risposte precostituite, Dio ha già amplissimamente risposto attraverso la Bibbia e attraverso Cristo e continua a rispondere nei secoli nei modi che egli ritenga più opportuni e salutari per le anime interpellanti il suo intervento. Ma, attenzione, anche i più cauti osservatori dovrebbero almeno prendere in considerazione la possibilità che papa Bergoglio è un problema, non una soluzione, per la fede e la cultura dei cristiani di questo secolo.

Poi, sulla crisi in atto del cattolicesimo, non mancano tesi addirittura esilaranti come quella del poeta Davide Rondoni che, molto severo nei confronti di certa cultura clericale del passato, ritiene di trovare in comici di professione come Checco Zalone e Roberto Benigni degli esempi artistici innovativi di cristianesimo non più spiritualmente insignificante, non più ideologico, ma nuovo, vivente, palpitante e coinvolgente!16 Dove ogni commento, mi pare, sarebbe inutile. Sciupare la lezione sempre viva e inattuale del cristianesimo attraverso l’evocazione di due macchiette del mondo dello spettacolo, comici e buffoni che tali restano, soprattutto Benigni, pur atteggiandosi ad interpreti originali di alte verità spirituali e religiose, è un peccato davvero imperdonabile, anche se, di questi tempi, probabilmente non il più grave. Per fortuna, c’è chi si sforza di riportare su binari di seria riflessione e di vera dignità critico-culturale il dibattito in atto, come Lorenzo Ornaghi che, invitando tutti a tornare alla realtà e a prendere atto di quel che è lo stato presente del cattolicesimo nel suo insieme, osserva tristemente:  «Le “parole” di vita eterna – a incominciare da quelle sulla morte, sul giudizio finale e sulla risurrezione dei corpi, sulla comunione dei santi, e talvolta persino dalle enunciazioni più indispensabili affinché si riconosca l’esistenza e si ami la presenza “in ogni luogo” dell’“Essere perfettissimo” – sembrano risuonare sempre più flebilmente. O, quando non vengano rimosse o colpite da ostracismo, si disperdono, come ammoniva Joseph Ratzinger nel 1967, dentro il “gran sciupìo di parole di questi tempi”. Lo sciupìo è ora divenuto uno sperpero enorme, insensato. Funzionale però all’auto-sopravvivenza di una cultura ristagnante o declinante»17. In vero, non sono neppure sicuro che uno spreco insensato di parole e concetti possa servire all’auto-sopravvivenza della stagnante cultura cattolica, ma anche se Ornaghi avesse ragione, ci sarebbe pur sempre da chiedersi per quanto tempo ancora la sopravvivenza cattolica potrebbe durare18.  

Ma è ancora reversibile questa tendenza al declino? La risposta può essere positiva solo se si tiene presente che a Dio nulla è impossibile e che i suoi provvidenziali interventi nella storia sono sempre in grado di ribaltare situazioni che sembrerebbero ormai sotto il totale dominio di forze demoniache o irrazionali e, in tal senso, non si può neanche escludere che la Chiesa, che è nel mondo senza essere del mondo, si rimetta ad ascoltarne le voci, le grida, le contestazioni e le istanze, non certo per accoglierle per convenienza “politica” e senza alcuna responsabile opera di discernimento, ma per stabilire, molto più seriamente di quanto al momento non sembra accadere, cosa possa o debba esserne doverosamente accolto e valorizzato, e che cosa invece non possa e non debba trovare alcuna possibilità di accoglienza e integrazione nell’economia cristologica ed ecclesiale della salvezza.

Sono sempre esistiti e sempre esisteranno fattori extraecclesiali e fattori intraecclesiali di più o meno accentuato condizionamento della vita complessiva della Chiesa e, fino a tutto il ‘900, tuttavia, quest’ultima sembrerebbe essere stata sempre capace, con maggiore o minore difficoltà, di uscire dalle secche delle sue crisi istituzionali e da periodi di apparente declino della sua autorità magisteriale nel contesto dei diversi assetti storico-politici e culturali internazionali di potere. Ma l’autorità della Chiesa, nel presente contesto storico, sembra sprofondare pateticamente in un’irrilevanza non semplicemente congiunturale bensì epocale e strutturale. Non che l’odierno contesto storico e culturale non congiuri fortemente, e forse più violentemente che in epoche passate in cui la violenza regnava magari in forme anche più cruenti di quelle attuali, contro le capacità non solo istituzionali, ma anche teologiche, etiche, spirituali della Chiesa, di provvedere ad una energica difesa delle proprie strutture identitarie. In effetti, esso è segnato dall’egemonia di forme nichilistiche e utilitaristiche di sapere, dal globalismo economico-finanziario e dal connesso “pensiero unico” che sarebbe un pensiero conformistico unificante tutti i popoli del globo terrestre nel segno di un sempre più esasperato laicismo ateistico o non credente, dall’inarrestabile incidenza degli sviluppi tecnologico-scientifici sulla vita della gente comune, dalla crescente desacralizzazione indotta dalla secolarizzazione, da un clima di asfissiante disorientamento valoriale delle coscienze, da una evangelizzazione non più, anche fisicamente, ravvicinata in termini di rapporti interpersonali tra pastori e penitenti ma sempre più affidata all’etere televisivo e multimediale, da dibattiti accademici troppo spesso autoreferenziali e proposti ex cathedra senza preventive forme di interlocuzione con studiosi esterni o estranei alle cerchie strettamente accademiche di specialisti riconosciuti.

Ecco: il problema è che la Chiesa di papa Bergoglio non sembra preparata a fronteggiare le forze eversive e distruttive che vengono sprigionandosi da un siffatto contesto. E non sembra preparata principalmente sul piano spirituale, ancor prima che su quello teologico, filosofico e culturale. Sembra non credere più nella inevitabilità evangelica di uno scontro o di un rapporto conflittuale con questo mondo, donde quasi la sua rinuncia programmatica ad usare il suo vastissimo patrimonio di conoscenze e di valori nei modi in cui andrebbe usato, cioè in chiave offensiva anche se pacifica, anziché meramente difensiva. E, al solito, quando si perde la fede o la si vive ed esercita tiepidamente, accade inevitabilmente che anche gli strumenti culturali di cui si dispone non sembrino più adeguati a respingere gli agguati sempre più insidiosi che le vengono tesi. Si opta allora per soluzioni più blande, per esempio quella di resistere ma più che altro di esistere sulla scena del mondo, portando per le lunghe il cosiddetto dialogo con quest’ultimo. Il punto è semplicemente questo, non si danno altre cause che ragionevolmente impediscano alla Chiesa, a quella gerarchica in primis, di fare quello che dovrebbe fare.

Ma la Chiesa non è chiamata da Cristo a dialogare e ad accordarsi con chicchessia, bensì a predicare, testimoniare, insegnare con autorevolezza, educare e formare la coscienza di tutti gli uomini del mondo in conformità ai suoi comandamenti e ai suoi precetti. Punto e basta. La fede deve ispirare il pensare e l’agire del mondo, non deve né subirli, né rincorrerli, né tanto meno assimilarli. Costi quel che costi, il divino maestro che opera nella Chiesa e come Chiesa deve poter continuare a proporre a voce alta e chiara, nel mondo e per il mondo, la sua cultura, che è una cultura non suscettibile di essere integrata da altre culture storiche, perché la sua cultura, senza disprezzare le altre culture, è tuttavia l’unica cultura di liberazione e salvezza integrali. Promuovere la cultura evangelica della verità è forma altissima di carità, ancora più alta di quella che può venire esprimendo la politica che, per tendere a giusti obiettivi economici e sociali, deve trarre continuamente alimento dai beni solo apparentemente intangibili di quella cultura. Tutto questo mi pare sia stato ben colto da uno dei filosofi più seri e autorevoli del cattolicesimo italiano, vale a dire Vittorio Possenti19. Altrettanto incisivo è il pensiero di Luigi Alici, anche se questi, pur affermando giustamente che, soprattutto nei momenti più critici di crisi, la Chiesa dovrebbe incrementare e non ridurre il suo sforzo di pensare e ripensare la fede, per non rischiare di perdere di vista il significato più profondo della sua identità religiosa, finisce poi per divaricare due termini che in realtà sono solo le due polarità complementari di un rapporto identitario unitario qual è quello tra il credere e il pensare: non si può credere senza pensare, dice Alici, ma, ancora una volta, si deve eccepire che il credere (in Cristo) è già un pensare e il pensare la fede non è eterogeneo rispetto alla fede ma vi inerisce in modo costitutivo. Pensare la fede è necessario, ma ancora più urgente è il problema di come pensare la fede: pensarla secondo le indicazioni normative e orientative contenute nel complessivo alveo discorsivo della fede stessa20 oppure secondo le lenti necessariamente deformanti di correnti ed esperienze culturali i cui vissuti originari si discostino profondamente dagli specifici valori evangelici?

Il che, evidentemente, non comporta un rifiuto aprioristico e dogmatico di culture anche lontane da quella cristiana e cattolica, che non è peraltro una cultura monolitica, bensì unitaria e tuttavia sfaccettata, articolata, differenziata, pur nel richiamarsi a comuni princìpi biblico-evangelici e teologico-dottrinari. Il fatto è, tuttavia, che proprio un diverso modo di interpretare e applicare i princìpi fondanti del credo cattolico alle diverse e variegate realtà culturali come a filoni di pensiero eterogenei o antitetici alla ratio cattolica, può costituire, e di fatto costituisce, un notevole ostacolo all’unità dei cristiani, ostacolo che non può non favorire un duplice e contemporaneo effetto: l’indebolimento della fede e della cultura cattoliche e, per converso, il rafforzamento di modelli laico-laicisti già abbastanza egemonici di pensiero, non infrequentemente persino tra filosofi, storici ed intellettuali cattolici.

Non si tratta di tenere lontano il mondo, come teme lo storico cattolico Giovagnoli, ma certo non è che il mondo sarebbe compreso molto meglio e aiutato ad emanciparsi spiritualmente e religiosamente se la cultura cattolica ne assecondasse compiaciuta analisi ed istanze su cui invece è del tutto ragionevole, legittimo, necessario, esercitare almeno la stessa funzione di controllo critico che, da sempre, la cultura laica esercita nei riguardi dell’universo culturale cattolico. Quel che mi sembra completamente gratuito è il sostenere che l’odierno papa sarebbe all’avanguardia di un pensiero storico capace «di portare la Chiesa nel cuore della storia», anche se poi i cattolici sarebbero inadeguati «nel tradurre le sue istanze di pace, di sviluppo integrale e di fraternità universale in riflessioni scientifiche, produzioni letterarie, creazioni artistiche ecc. capaci di entrare in dialogo con le culture, spesso frammentate, del nostro tempo»21. Ma, se i cattolici sono inadeguati, lo sono anche, al di là del luogo comune ormai logoro della contrapposizione tra tradizionalisti-integralisti e progressisti-riformisti, per il vuoto creato in modo manifestamente abusivo nelle loro coscienze da questo pontificato apparentemente innovativo ma in realtà molto più sensibile ai richiami striduli e umorali del mondo che ai richiami eterni e sapienti di Dio.

Senonché, Alici ha perfettamente ragione nel denunciare quanto segue: «Un cristianesimo ridotto a un educato galateo spirituale, disposto a inchinarsi al dogma del “politicamente corretto”, è figlio solo di sguardi evasivi e rattrappiti, parenti stretti di cuori spenti e chiusi. Una dilagante afasìa escatologica ne è la conferma più imbarazzante. E non si dica che gli orizzonti lontani sono una fuga dal presente. Dobbiamo piuttosto aver paura di una storia abitata solo da assoluti terrestri: il cattivo infinito è sempre il peggior nemico della nostra finitezza. No, la trascendenza non è nemica della storia. Può esserne anzi la migliore alleata, quando ci ricorda che siamo animali verticali: alzare la testa e guardare il cielo aiuta quasi sempre anche a tenere i piedi per terra»22.

D’altra parte, è sbagliato ritenere che talune pratiche molto semplici ma profondamente sentite di fede, si sottraggano alla fatica del pensare e del pensare la fede e le prospettive e le scelte che essa venga implicando, perché, in realtà, anche lo «stare vicini alla gente», il «dir Messa» e il «presiedere qualche atto di devozione»23 sono operazioni che, se eseguite con profonda convinzione intellettuale e sincera adesione spirituale, possono configurarsi come prodotti di un virtuoso esercizio critico di pensiero. Né bisogna lasciarsi indurre in tentazione dalle parole provocatorie ma pretenziose e non ben soppesate di qualche sociologo secondo cui se, per un verso, la cultura identitaria e «l’omologazione, tanto praticata anche dalla cultura laica, sono vie di fanatismi, la comunione», per un altro verso, «può avvenire solo tra diversi»24. La comunione tra diversi: ma non certo in senso unilaterale, e di certo non nel caso dell’esperienza comunitaria e sacramentale cattolica, la quale riconosce sia il momento identitario e unificante, sia il momento della diversità esistenziale e carismatica. La comunione è tra diversi che però hanno la loro comune identità in Cristo, nella sua volontà e nelle sue leggi. E’ evidente che il popolo cristiano è un popolo di persone diverse e, al tempo stesso, identiche: questo è vero non solo in riferimento ai membri della Chiesa ma in riferimento alla società umana in generale. Ognuno di noi è diverso dall’altro sotto molti aspetti, fisici, psichici, economici, intellettuali, morali, ma è o può essere anche uguale agli altri sul piano umano, morale, spirituale e religioso. E non c’è nulla di strano nel fatto che fenomeni di omologazione e fenomeni di differenziazione individuale vengano intrecciandosi nelle esperienze di vita di singoli e gruppi.

Per quanto riguarda, in particolare, il sacramento cattolico della santa comunione eucaristica e carismatica, essa può avvenire notoriamente tra persone che, pur profondamente diverse sotto il profilo psico-sociologico, sotto il profilo intellettuale, professionale e carismatico, si sentano e accettino di essere profondamente unite, di essere tra loro in comunione e di rinnovare continuamente lo stare tra loro in un rapporto di comunione, impegnandosi a rimanere collettivamente fedeli ai dogmi, ai precetti, alle norme della Chiesa, non suscettibili di essere cambiati, fraintesi, alterati, o addirittura disconosciuti e aboliti, da alcuno e per alcun motivo. Spero che questo punto, di elementare comprensione, sia chiaro per sociologi e non sociologi. Non che la Parola di Dio, che è una miniera sconfinata di significati e implicazioni sempre sorprendentemente nuovi e inattesi, non sia suscettibile di continuo approfondimento e di riscoperte talvolta sconvolgenti (bisogna sempre ricordarsi che la Parola di Dio prevede un tempo in cui «lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16, 13), ma che il processo di approfondimento esegetico ed interpretativo di tale spirito divino non può avere come esito paradossale una revisione critica della stessa Parola di Dio.

Questo è necessario precisare e ribadire per evitare di trovarsi impreparati dinanzi all’affermazione di un ambiguo luogotenente del papa, qual è il gesuita Antonio Spadaro, secondo la quale anche la cultura cattolica ha bisogno di “creatività”, per «rinnovare il modo di immaginare la fede e la sua espressione»25. Tutto si può e si deve rinnovare, ma a condizione di rimanere fedeli a Cristo e all’ortodossia della fede che ci ha insegnato e trasmesso: che non è propriamente quel che sembra caratterizzare perfettamente l’odierno pontificato. Ometto di prendere qui in considerazione l’intervento di Silvano Petrosino sul persistente rapporto di diffidenza emarginante da sempre intercorrente tra le strutture teologico-ministeriali della Chiesa e i suoi “intellettuali organici”, là dove con questa espressione si intende far riferimento agli intellettuali fedeli a Cristo e alla sua Chiesa celeste o trionfante ancor prima  che ai vicari più o meno degni di Cristo e alla Chiesa contraddittoriamente peregrinante e militante: ometto di commentarlo solo perché, in questo caso, mi pare troppo generico e mai sul punto di esplicitare quanto di probabilmente e implicitamente graffiante e significativo esso pure sembrerebbe contenere26. Confesso, invece, di non aver capito per niente, di certo per i miei limiti personali, il senso del parallelismo tentato dal vescovo Bruno Forte tra mondo biblico e mondo informatico, parallelismo che mi sembra troppo forzato, macchinoso, azzardato, e alla fine concepito più come esercizio virtuosistico fine a se stesso che come contributo teorico non marginale al problema del rapporto tra la fede e i modi culturali di tradurla in pratica significativa o irrinunciabile di vita27.

 

 

NOTE

 

1 Si possono utilmente confrontare al riguardo: R. Mancini, Il senso della fede. Una lettura del cristianesimo, Brescia, Queriniana, 2010; F. Spagnulo, Fede e cultura. Il dialogo possibile,  Fasano, Schena Editore, 2003; A. Grün, La fede dei cristiani, Alba, San Paolo Edizioni, 2012.

2 M. Marongiu, Capire il vangelo. Una guida per tutti, Rosate (Milano), Effatà, 2021; P. Squizzato, Trasformati e diventa. Il Vangelo secondo Luca, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2021.

3 M. Cacciari, Se la Chiesa è contraddizione avrà vicino laici pensanti, in “Avvenire” del 22 maggio 2024.

4 Comunità pastorale Maria Santissima Regina dei martiri, Lomaniga. Maresso, Missaglia. Arcidiocesi di Milano, E come segno di contraddizione, in “Giornale comunitario” on line, 31 dicembre 2023.

5 Su questi due perniciosi aspetti dell’educazione e della mentalità cattoliche si possono confrontare: R. Castielli, Paternità e paternalismo nella relazione pastorale, in “La Rivista del Clero Italiano”, 5 (1972), pp. 336-344; A. Brunetti, Maturità del laicato e paternalismo ecclesiastico, in “Testimonianze” nn. 59-60 (1963), p. 691, e D. Marrone, La tentazione dell’attivismo, in sito on line “Settimananews.it”, 8 dicembre 2023, insieme ad opportuni moniti quale quello del cardinale Robert Sarah: Robert Sarah a Budapest: contro l’attivismo, l’Eucarestia va rimessa al centro, e quello dello scrittore cattolico tedesco Johannes Hartl: Dobbiamo rimettere Dio al centro del nostro messaggio, in “Il Timone”, rivista cattolica on line, 11 settembre 2021.

6 Cfr. R. Righetto, Gli scrittori cattolici e la sfida al conformismo, in “Avvenire” del 20 febbraio 2022, in cui viene citato anche il filosofo-contadino Gustave Thibon; Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?, in “Avvenire” del 9 marzo 2024 e Il mondo cattolico e la cultura che non c’è. Intervista a Roberto Righetto, in sito cattolico on line “La barca e il mare” (Chiesa e dintorni), 18 aprile 2024.

7 Righetto, Il mondo cattolico e la cultura che non c’è, cit.

8 Si rinvia al suo articolo, “La violenza al servizio della libertà” pubblicato in AA.VV., Forza e violenza, Roma, Volpe, 1973, pp. 119-154.

9 Se ne veda l’intervento: Passiamo dalla deterrenza alla convivenza, in “Avvenire”, 8 aprile 2024.

10 Il problema che pone l’attuale pontificato non è certo quello per cui la Chiesa di Bergoglio non sarebbe più eurocentrica o occidentecentrica, per l’irruzione sulla scena del mondo di nuove realtà ecclesiali in Cina, Africa o Americhe, ma piuttosto il fatto che, per assicurare nuove vie alla evangelizzazione del mondo, si ritenga di poter aggredire capisaldi immutabili della Chiesa e della fede cattoliche. In tal senso, non sono affatto d’accordo con l’unilaterale approccio storicistico proposto da A. Riccardi, nella sua prefazione al libro collettaneo, da lui stesso curato: Il cristianesimo al  tempo di papa Francesco, Roma-Bari, Laterza, 2018, a cominciare dalla definizione che egli dà di questo papa come di “una personalità cordiale e accessibile”.

11 Righetto, Il mondo cattolico e la cultura che non c’è, cit.. C’è chi sostiene che  i malumori e le resistenze al Pontificato di Papa Francesco proverrebbero da gruppi da sempre ostili al Concilio Vaticano II, che ne avrebbero costantemente rifiutato o recepito in modi distorti i risultati: M. Borghesi, Il dissidio cattolico. La reazione a papa Francesco, Milano, Jaca Book, 2022, ma temo che la questione, eminentemente dottrinaria, superi i confini del diverso modo di interpretare il Vaticano II e sia, perciò, meno scontata e molto più complessa di quanto questo studioso non sembri capace di immaginare.

12 Righetto, Il mondo cattolico e la cultura che non c’è, cit.

13 C. Esposito, «Concreta vita di fede, base per un nuovo inizio», in “Avvenire” del 18 maggio 2024.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 D. Rondoni, «Togliamo le lenti dell’ideologia», in “Avvenire” del 12 maggio 2024. Nel mese di maggio scorso, Benigni si è ancora una volta esibito in piazza, questa volta addirittura in piazza san Pietro, non in qualità di comico o di pagliaccio, ma di uomo di cultura, perché in realtà questo ometto molto furbo, spregiudicato e capace di allestire discorsi e battute emotivamente coinvolgenti, questo ometto che è riuscito a servirsi e a farsi beffe, per le sue personali ambizioni professionali e finanziarie, prima del PCI e di Berlinguer, poi di un non serioso movimento d’opinione filoebraico (per vincere un oscar), e infine persino del vanitoso capo della cattolicità, ormai viene annoverato dai media tra gli esponenti più influenti della cultura del XXI secolo: Benigni furbo e catto-comunista. Perfetto per il Quirinale, era il titolo di un articolo del 25 dicembre 2014, pubblicato da Rino Cammilleri nel giornale cattolico “La Nuova Bussola Quotidiana”.

17 L. Ornaghi, «Basta rincorrere, troviamo una chiara identità», in “Avvenire” del 12 maggio 2024.

18 Tanto che qualcuno ha già pensato di rendersi utile, in chiave sarcastica, per coloro che vorrebbero continuare a credere in Cristo anche senza il tradizionale supporto spirituale della Chiesa: A. Porro, Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede, Milano, Bompiani, 2019. Ma il pericolo è molto più antico di quel che potrebbe pensarsi. Usciva nel 1947 un libro di Emmanuel Mounier su  L’agonia del cristianesimo (Vicenza, Editrice La Locusta, 1960), in cui, scriveva il filosofo cattolico francese, i credenti «si riposano nell’illusione della loro forza», ma il mondo attuale non “incontra” più il cristianesimo, e la Parola di Dio diviene per esso propriamente «lettera morta». Il cristianesimo – aggiungeva – «non è minacciato di eresia», ma «da una specie di silenziosa apostasia provocata dall’indifferenza che lo circonda e dalla sua propria distrazione».

19 V. Possenti, Facciamo come Dio, diventiamo uomini, in “Avvenire” del 5 maggio 2024.

20 Un’esemplificazione interessante di questa opzione è contenuta in G. Canu, Pensare la fede nell’orizzonte della salvezza. Una teologia fondamentale ispirata ad Antonio Rosmini, Roma, Città Nuova, 2020.

21 Cfr., A. Giovagnoli, «Urge ricostruire il rapporto con la storia», in “Avvenire” del 16 aprile 2024. Confesso, peraltro, di non esserni mai accorto che Bergoglio avrebbe il merito di aver riscattato la categoria della cultura, per via del fatto che in qualche circostanza avrebbe riesumato l’idea di una «vertiginosa attualità degli studi umanistici, anche in vista di un pensiero tecnico e scientifico aperto e all’altezza delle nuove sfide», S. Massironi, «Esercizi di profezia per smontare ogni scusa», in “Avvenire” del 15 aprile 2024. Ecco, questa è una sciocchezza, e non solo perché esistono diversi modi legittimi di leggere la storia. Inoltre, non saprei dire se «dell’Umanesimo quattrocentesco abbiamo dimenticato la vitalità, il pluralismo, l’audacia nell’elaborazione di soluzioni nuove. La Chiesa ne fu parte, ma lasciandosene portare e mai assumendone la regia: ispiratrice e insieme ispirata», ivi. So però che la Chiesa ha sempre interagito storicamente con le diverse forme, i diversi fenomeni culturali, traendone tutto quel che potesse essere realmente utile alla causa dell’evangelizzazione e sempre governandoli dall’alto della sua ultramillenaria cultura religiosa e cultura tout court, mentre oggi, forse per la prima volta nella sua storia, è come se, più che interagire, si aggrappasse al convoglio in corsa di culture effimere e neppure troppo attraenti ma inopinatamente coinvolgenti, per non rischiare di arretrarsi troppo rispetto al nuovo e per non cedere di schianto la sua tradizionale funzione egemonica a forze antagonistiche della cultura laica.

22 L. Alici, La trascendenza non può inchinarsi al politically correct,  in “Avvenire” del 29 aprile 2024.

23 F. Cosentino, «Essere Chiesa significa avere un’idea di futuro», in “Avvenire” del 20 aprile 2024.

24 Chiara Giaccardi, Più coraggio per aprirsi al dialogo, 8 aprile 2024.

25 A. Spadaro, Apriamoci con l’arte a ciò che non sappiamo, in “Avvenire” del 29 marzo 2024.

26 S. Petrosino, Pensare oltre la cultura-ornamento, in “Avvenire” del 23 marzo 2024.

27 Cfr. B. Forte, Anche il linguaggio del digitale è biblico, in “Avvenire” del 22 marzo 2024. Sullo stesso tema del rapporto tra biblico e digitale, molto più chiaro è l’articolato lavoro di E. Mattei, I vangeli narrano il digitale. Una lettura biblica al tempo dei social, Bologna, EDB, 2023, benchè, anche in tal caso, non mancano forzature e considerazioni non sempre pertinenti. Vi campeggia l’idea di una “teologia del digitale”, ma il pericolo è che, se di tutto e su tutto, adesso anche del e sul digitale, si può costruire una teologia, alla fine si rischi seriamente di smarrire la specificità del sapere e del linguaggio biblici.