Giudicare o non giudicare?
Ma come: noi cristiani ci poniamo ancora queste domande? Eppure Matteo è stato chiarissimo: «Non giudicate e Dio non vi giudicherà. Egli infatti vi giudicherà con lo stesso criterio che usate voi per giudicare gli altri. Con la stessa misura con la quale voi trattate gli altri, Dio tratterà voi. Perché stai a guardare la pagliuzza che è nell'occhio di un tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: "Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nel tuo occhio hai una trave?". Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio; allora tu ci vedrai bene e potrai togliere la pagliuzza dall'occhio di tuo fratello» (7, 1-5). Il che significa: attenzione a come giudicate, non siate troppo frettolosi nel giudicare, ma cercate di giudicare sempre essendo ben sicuri dell’obiettività e della buona fede del vostro giudizio, siate soprattutto benevoli persino nel giudizio più severo perché non potrete sperare che Dio nel giudicare voi non usi i vostri stessi criteri di giudizio. Ti sembra ragionevole e giusto che tu ti metta a giudicare uno che è meno colpevole di te? Non sarà forse meglio sbarazzarsi prima della propria ipocrisia pentendosi sinceramente dei propri peccati, chiedendo perdono al Signore e guarendo cosí dal proprio male? Non sarà il caso che, solo dopo, con altrettanta sincerità e senza malizia, tu ti preoccupi di aiutare il tuo fratello peccatore?
Dunque, non è il giudizio in quanto tale che viene messo in discussione da Gesù, ma il modo, l’intenzione e lo scopo del giudicare. Sarebbe il colmo: che il Logos, fattosi carne per salvare il mondo, non consentisse ai suoi destinatari di distinguere tra bene e male e di adoperarsi in spirito di verità e di carità, in tutte le circostanze della loro vita, per favorire il bene e allontanare o eliminare il male. I credenti devono essere solidali gli uni con gli altri, non nel senso di essere indifferenti a tutto quello che si dice e si fa, ad ogni genere di comportamento o di atteggiamento, ma nel senso di esercitare correttamente la propria capacità di discernimento, che è un grande dono dello Spirito Santo, per aiutarsi reciprocamente a comprendere se c’è e dove sta l’errore e a migliorare la propria condotta.
Naturalmente, e questo è ciò che si intende evangelicamente sottolineare, occorre che la capacità di giudizio sia esercitata con quella mitezza e quella sobrietà spirituali che possono impedire che il giudizio assuma caratteri di perentorietà e assolutezza e che esso si trasformi in sostanza in una sorta di sentenza definitiva. Per cui non si potrà dire: “quello è un malvagio”, ma piuttosto “ha fatto qualcosa che non doveva”; “quella è una donna superficiale”, ma piuttosto “a volte sembra comportarsi in modo superficiale”; “quelle sono persone indegne” ma “persone che hanno compiuto azioni indegne”, ammesso che si disponga di tutti gli elementi fattuali per poter esprimere determinati giudizi. Bisogna che il giudizio sia anche una preghiera: Signore, se io non mi sto ingannando nella valutazione, fà che quei fratelli si comportino meglio di quanto sinora hanno fatto, che quel sacerdote dal pulpito da oggi cominci a ridimensionare un po’ se stesso, che la nostra comunità parrocchiale sia più generosa verso gli indigenti e meno preoccupata di salvare le apparenze e la forma.
Cosa c’è di arbitrario e peccaminoso in questi giudizi? Beninteso, non dovremo mai disprezzare «nessuna di queste persone semplici, perché vi dico che in cielo i loro angeli vedono continuamente il Padre mio che è in cielo» (Mt 18, 10-11), ed è noto che generalmente le persone semplici sono persone umili e cortesi; ma se il credente si imbatte in uno avvezzo a compiere atti di prepotenza dirà e possibilmente gli dirà o gli farà dire che non deve continuare a fare il prepotente, se ha a che fare con uno che in chiesa crea confusione o disturba la preghiera dei fedeli o la funzione religiosa dovrà sentire il dovere di intervenire, posto che il parroco non veda o non ritenga di intervenire, se un prete se ne sta col cappello in testa (con il cappello non con lo zucchetto) nel corso di una celebrazione eucaristica, si potrà e si dovrà pur eccepire qualcosa. E cosí via. Se, con l’aiuto di Dio, si è sicuri di non aver commesso azioni particolarmente deplorevoli e di non trovarsi nella condizione dell’ipocrita che giudica, come e perché non ci si dovrebbe rivolgere ai fratelli con intenti appunto fraternamente correttivi o migliorativi? Il giudizio non deve essere inteso come giudizio contro qualcuno ma a favore di qualcuno e, se gli interlocutori a torto se la prendono a male, a favore comunque della verità (che non è propriamente un agire opzionale) e del benessere spirituale della comunità.
Ciò detto, è bene ripetere che il nostro giudicare, ove sia opportuno o necessario, non va mai concepito come condanna e come volontà di punizione o di emarginazione, ben sapendo che non spetta a noi l’ultima parola e l’ultimo giudizio, essendo questa una precisa prerogativa di Dio: «A me la vendetta: io darò la retribuzione, dice il Signore» (Paolo, Romani, 12-19). Giudicare dunque si deve proporzionalmente alla capacità di giudizio e di discernimento che ognuno ha ricevuto da Dio. Altrimenti, per restare all’evangelista Matteo, come potremmo guardarci dalla passività o sterilità spirituale, dall’ignavia o «dai falsi profeti»? E come potremo poi spiegare al Signore che potevamo tentare di fare del bene e non l’abbiamo fatto per paura di essere scambiati dai nostri fratelli per persone arroganti e presuntuose? Che il Signore abbia sempre pietà di quelli che si assumono, per amore verso di lui e senza pregiudizi e rancore verso alcuno, la responsabilità di rispettare e far rispettare al meglio e nei limiti delle loro possibilità il suo volere, ma dia loro anche la forza di obbedire al suo comando e quindi di giudicare «con un giusto giudizio» o «rettamente», non «secondo l’apparenza» ma «secondo giustizia» (Lc 7, 43 e 12, 57; Gv 7, 24).
Di qui si capisce che, per giudicare rettamente, non si deve andare necessariamente in collera contro il fratello, e non si deve dare del “cretino” persino a chi sbaglia gravemente con atteggiamenti puerili ed indecorosi, né bisogna dare del “traditore” o del “pazzo” a chicchessia, come ci ricorda ancora il vangelo di Matteo, anche se scappandoci un po’ di collera o un epiteto o un termine piuttosto pesante e offensivo, ci si potrà prostrare dinanzi a Dio per implorare il suo perdono e ci si potrà adoperare per riconciliarci con lui e con il fratello offeso, quale che sia la sua indole, non in rapporto al giudizio espresso sul suo comportamento o sulle sue posizioni ma in rapporto ai modi eventualmente sbagliati di questo stesso giudizio.
Non bisogna peraltro dimenticare che se qualcuno ci offende o ci fa del male dovremo certo porgere l’altra guancia ma a condizione di intendere correttamente queste parole di Cristo che stanno poi alla base del suo messaggio di pace e di misericordia. Giacché si leggono anche questi versetti evangelici: «Se un tuo fratello ti fa del male, va' da lui e mostragli il suo errore, ma senza farlo sentire ad altri. Se ti ascolta, avrai recuperato tuo fratello. Se invece non vuole ascoltarti, fatti accompagnare da una o due persone, perché sia fatto come dice la Bibbia: ogni questione sia risolta mediante due o tre testimoni. Se non vuole ascoltare nemmeno loro, va' a riferire il fatto alla comunità dei credenti. Se poi non ascolterà neppure la comunità, consideralo come un pagano o un estraneo» (Mt 18, 15-17). Chi vuol intendere intenda.
Attenti dunque alle parole che proferiamo perché Gesù cosí ci ammonisce: «vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto: perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti» (Mt 12, 36-37).
Non dobbiamo evitare di giudicare. Ma dobbiamo giudicare bene, anche se dovremo fronteggiare coraggiosamente il nostro egocentrismo e le altrui incomprensioni, con l’amore che Gesù ci ha insegnato.