La santa comunione tra cattolici "adulti"
In cosa consiste e come si manifesta la santa comunione in una comunità cattolica adulta, adulta e quindi matura nella fede e di conseguenza non mediocre e non puerile nella professione di fede che essa, anche sul piano liturgico, viene esercitando quotidianamente? La domanda può esser fatta solo per una comunità cattolica adulta, anche se il suo primo requisito è di comportarsi come i bambini, di cercare sempre Gesù come lo cercano i bambini, di confidare sempre nel suo perdono e nella sua misericordia, oltre che nel suo aiuto, ricorrendo in pari tempo alla potentissima preghiera di intercessione della madre sua e madre nostra celeste. Infatti, non avrebbe molto senso parlare di santa comunione in una comunità e per una comunità cattolica spiritualmente impreparata o insussistente. E’ vero, d’altra parte, che, essendo la fede il lievito stesso della santità, non ci si può non curare di farla nascere e farla crescere anche o proprio dove ancora lo spirito umano è acerbo, è rozzo, grossolano o più semplicemente superficiale, a condizione però che ci sia davvero chi si impegni, a cominciare naturalmente dal parroco, ad educare e a formare i fedeli ai divini insegnamenti di Gesù e alle regole di comportamento che ne derivano anche, ma non solo, nell’ambito delle celebrazioni liturgiche e di quella eucaristica in particolare.
Tuttavia, e anzi proprio per quel che si è appena detto, gioverà indicare, sia pur brevemente, quali siano le condizioni che possono rendere adulta una comunità di credenti e santa la comunione spirituale ed eucaristica che si tratta di costruire e rendere operante in essa. Quante volte dai pulpiti si sente dire: potete pregare, potere dire il rosario, potete leggere e studiare le scritture, potete essere anche grandi teologi, potete ricevere ogni giorno l’ostia consacrata ed essere caritatevoli per conto vostro verso il prossimo, ma se non fate comunione, cioè se non vi rispettate ed amate tra voi, se non vi frequentate nei gruppi di studio e di preghiera in seno alla parrocchia, se non fate mai insieme processioni e pellegrinaggi, avrete costruito sul nulla e la vostra fede sarà ancora molto approssimativa.
Indubbiamente, nel parlare cosí si esprimono delle sagge preoccupazioni spirituali e pastorali: che alcuni fedeli possano isolarsi individualisticamente dal grosso dei parrocchiani o dai parrocchiani più assidui, quelli che per intenderci fanno “gruppo”, e non interagiscano abbastanza con essi per impazienza, per presunzione o per superbia o comunque per una mancanza di propensione al dialogo e al mettere in comune le proprie “esperienze” (benché molto spesso si abbia a che fare con esperienze cosí caotiche ed insignificanti che sarebbe opportuno non raccontarle), e quindi in definitiva per un’interpretazione piuttosto riduttiva della fede o per una certa povertà spirituale. Purtroppo, però, non sempre colui che fa la predica, che può essere un vescovo, un parroco o chiunque capiti a predicare sul pulpito di quella determinata comunità ecclesiale e parrocchiale, si interroga sulle ragioni che sono alla base di quella situazione, di quella o di quelle separazioni in casa, non sempre si chiede se per caso le cause di quel che si lamenta non siano da ricercare nel modo stesso di intendere e di vivere la fede comunitaria in Cristo da parte della parte, diciamo cosí, più rappresentativa della comunità stessa.
In che senso? Se per caso il fare comunione della maggioranza o della parte più visibile della comunità è più un fare comunella, un aggregarsi amicale dettato più da generiche regole di amicizia che da rigoroso spirito di carità in Cristo, cioè è più un bisogno di stare insieme, di passare il tempo insieme, di sostenersi a parole e di complimentarsi vicendevolmente, di rendersi complici nel recriminare contro tutto ciò che non corrisponde ai propri desideri e a determinate aspettative psicologiche, che un bisogno di ricerca comune ed ostinata della verità insegnata dal Maestro e di resistenza spirituale ad oltranza, con la preghiera e con la limpida e retta franchezza dei nostri giudizi, ad ogni genere di falsificazione e prevaricazione, sia che riguardino gli altri sia che riguardino noi stessi; ecco, se la comunione consiste in questo, è evidente che il fare comunione o l’essere in comunione è in realtà un non fare comunione o un non essere in comunione perché da una prassi di questo tipo è completamente assente Cristo. E, fermo restando che non tutte le forme di separatezza rispetto alla comunità sono legittime o giustificabili e che anzi la separatezza in quanto tale è già una difficoltà di non poco conto, quelli che si sforzano di vivere in comunione in Cristo e con Cristo bene fanno tuttavia a non lasciarsi coinvolgere e a non essere partecipi di discorsi, atteggiamenti e atti che, per quanto apparentemente innocenti, non rispecchino una coerente fedeltà alla parola di Cristo.
E’ molto più apprezzabile in certi casi il loro spirito di comunione, pur non partecipando costoro a talune forme comunionali praticate nella comunità di appartenenza, che quello spirito di comunione che viene vissuto ed esercitato generalmente in comunità in modo blando quando non decisamente improprio o errato e tradotto in iniziative più gratificanti e tranquillizzanti (per esempio, l’esplicare la funzione pure importante di “lettori” o quella ben più discutibile di delegati a somministrare l’eucaristia, la partecipazione a corsi fini a se stessi di catechesi o di esegesi biblica, a pellegrinaggi presso questo o quel santuario per fini spirituali ed evangelici quasi mai precisati e adeguatamente interiorizzati, a festeggiamenti e ad encomi solenni dedicati persino nel corso della santa messa a questo o a quel personaggio influente della parrocchia per motivi futili o tali da meritare al più di passare sotto silenzio, con connessa ed annessa condivisione di quell’odiosa ed ipocrita “retorica dell’altro” dietro la quale spesso c’è sostanziale disinteresse umano e una pietà cosí plateale ed evanescente da sfiorare quasi l’insulto più plateale e blasfemo) che realmente costose e impegnative sul piano squisitamente evangelico (per esempio, fare raccolte periodiche di denaro e di beni alimentari e materiali di ogni genere, senza proclami di sorta ma in forme riservate e discrete, a favore di persone notoriamente povere o disagiate della parrocchia; dedicare almeno un po’ del proprio tempo a disabili e a persone particolarmente anziane e sole non perché sollecitati e passivamente ma con la propria capacità d’ascolto e una reale partecipazione affettiva; mettere ove vi siano e in modo totalmente disinteressato capacità e competenze al servizio di una comunità sinceramente e non velleitariamente protesa verso l’obiettivo approfondimento di contenuti essenziali della fede a supporto delle pur necessarie attività catechetiche ed omiletiche svolte dai sacerdoti).
E’ evidente che, sin quando la parte più influente della comunità fa di tutto per conservare schemi mentali e abitudini di vita anche ecclesiale largamente acquisiti e consolidati limitandosi sí e no ad accettare ma non sforzandosi di accogliere chi la pensa diversamente e chi potrebbe non rovinosamente ma utilmente concorrere a modificare in meglio gli indirizzi comunitari, la volontà di fare comunione o di essere in comunione in Cristo non potrà essere rappresentata correttamente dal modo maggioritario di credere e di agire della comunità.
Bisogna pur capire che il fare o l’essere in comunione non può risolversi per il parroco nell’avere sempre amici e amiche fidati su cui contare per le necessità estrinseche, per i servizi amministrativi, burocratici e ornamentali o floreali della propria chiesa, e per gli stessi servizi liturgici che si devono pur svolgere in essa in forma adeguata (l’igiene dei sacri paramenti, i sacri libri da collocare con precisione cronometrica sull’ambone e sull’altare, e poi le letture, le musiche, i canti), e magari anche per forme di assistenza strettamente personali o per le proprie gratificazioni psicologiche di uomo e parroco che purtroppo si annoierebbe da morire se passasse le sue giornate solo sull’altare e in un confessionale, tra i malati ed i poveri del quartiere parrocchiale, o in mezzo a persone prevalentemente sconosciute o di passaggio che abbiano bisogno di una parola di verità, di perdono, di comprensione e di conforto (tutte cose abbastanza scomode che però costituiscono il vero corredo spirituale di un sacerdote).
E bisogna capire anche che, per quegli stessi fedeli zelanti e sempre presenti in tutte le funzioni religiose programmate, lo stare in comunione non può consistere semplicemente nel transitare in chiesa o nel sostare nella sua accogliente sacrestia per dilettarsi in amene e spesso inutili conversazioni, in un inconfessato desiderio di socialità e di accrescimento della propria visibilità umana e sociale, oppure in una malcelata esigenza di protagonismo o ancora in un tentativo prettamente psichico o neurotico di neutralizzazione di persistenti o ricorrenti forme di disagio personale da cui ci si sente frequentemente tormentati ed oppressi nel quadro di una vita interiore sostanzialmente arida e improduttiva e soprattutto chiusa a quei fratelli forse “scomodi” che, se interpellati e opportunamente coinvolti nella dinamica comunitaria, potrebbero essere di grande utilità anche per problematiche di questa natura ed arricchire notevolmente la vita spirituale della comunità.
Se non si capisce tutto questo, il problema, temo, non è costituito tanto da quelli che se ne stanno in disparte, o non partecipano molto volentieri a tutte le attività della parrocchia, anche perché obiettivamente non considerati ed emarginati, il problema non è costituito dal loro presunto individualismo, che beninteso è sempre pericolosamente in agguato nei confronti di ognuno, ma piuttosto dalla mancanza, tra le persone che a ragione o a torto “più contano” in comunità, di soggetti seri, preparati e responsabili che sappiano spiegare e testimoniare bene cosa significa essere in comunione in Cristo e tra fratelli e sorelle, di soggetti che sappiano mostrare come per la comunione in Cristo sia necessario innanzitutto invocare l’aiuto dello Spirito Santo e di Maria che è la Donna eternamente presente dello Spirito senza cui non è possibile stare vicino a Cristo e vivere il più possibile come Cristo che ci porta al Padre, e come di conseguenza il fare comunione in Cristo comporti un continuo rinnovamento dei nostri cuori e la capacità di scorgere, apprezzare, benedire e valorizzare anche e soprattutto nella e per la nostra comunità tutti quei doni, tutte quelle capacità, quei carismi che sono necessari a celebrare i molteplici aspetti della grandezza di Dio e il suo infinito amore, senza voler imporre nel nome dell’unica fede e dell’unica liturgia (che tali devono necessariamente restare) una sola sensibilità, un solo modo di ascoltare e di conoscere, un solo modo di pregare, che è come dire un solo modo di pensare, di vivere e di testimoniare la fede in Cristo, ma al contrario aprendosi prudentemente e fiduciosamente a tutto ciò che possa realmente concorrere all’esaltazione della presenza di Dio tra noi.
Dovrebbe essere chiaro: la casa di Dio va in malora se vi si vieta l’accesso, a volte per motivi ignobili e a volte per pochezza d’intelletto e di spirito, a contributi seri, belli, significativi, profondi, grandi, che possono solo magnificare il Signore nostro; la casa di Dio va in malora se, nel nome di una malintesa umiltà che spesso copre solo l’inconscia superbia o la volgare e irresponsabile ignoranza di tanti suoi eccellenti ma non altrettanto qualificati frequentatori, si pretende di custodirla solo con comportamenti “spontanei” ma in realtà sciatti o scialbi, con condotte individuali ed ecclesiali tanto ripetitive quanto non inequivocabilmente inappuntabili, con modelli abbastanza abitudinari e propagandistici di fede, con forme molto logore e a volte indisciplinate di testimonianza religiosa, e talvolta persino con improvvide o stolte impennate polemiche che più che nutrirsi di fede si servono banalmente della fede.
Dovrebbe essere chiaro che nella casa di Dio c’è sempre bisogno di perdono per tutti, che di conversione continua ha bisogno tanto la persona più capace tanto quella meno capace e che non è detto che la persona più attiva e volitiva negli spazi ecclesiali sia migliore e più credente di quella che suo malgrado o per sua stessa scelta se ne resta in ombra. Dovrebbe esser chiaro che, salvi facendo i princípi dogmatici ed essenziali della fede in Cristo e nella Santissima Trinità e gli insegnamenti più perentoriamente impartiti dal magistero ecclesiastico, bisogna imparare a perdonarsi ma anche a stimarsi di più e ad amarsi sinceramente non in modo generico o ipocrita ma in ciò che vi è di veramente peculiare nella persona di ognuno, e quindi non sulla base di rapporti personali o interpersonali volutamente superficiali, oppure interessati e condizionati da falsi criteri quali vanità, calcolo e tornaconto personale o di gruppo, ma ispirati da veri criteri cristiani quale uno sforzo continuo di obiettività e di riconoscimento franco e leale, ad majorem gloriam Dei, dei talenti nascosti o manifesti di sorelle e fratelli riservati ed umilmente votati ad aspettare che il Signore li utilizzi in un modo o nell’altro a tutto vantaggio della sua Chiesa e della sua grande famiglia umana. Insomma, dovrebbe esser chiaro che, in un rapporto di amore reciproco e pregando “ad una sola voce”, bisogna seriamente preoccuparsi che nella casa di Dio progrediscano le cose migliori e non le cose peggiori, ciò che può essere più gradito a Dio e non ciò che può soddisfare certe presunte esigenze estetiche e certe esigenze puramente soggettive ed erronee degli uomini.
Dovrebbe esser chiaro infine che nella casa di Dio ciò che conta non sono le cose che si fanno ma i modi in cui si fanno, a cominciare proprio dal fatto che non sia sufficiente parlare di accoglienza e di carismi da amare e valorizzare se poi ogni buona intenzione viene vanificata da comportamenti esattamente contrari. Allargando il discorso, si può dire con Giorgio Bellagamba (28-2-2005), un esponente del Movimento dei Cursillos di Cristianità: «noi cristiani siamo posti al centro della vita non attraverso le cose, il successo, la grandezza, ma tramite la comunione (koinonia) al “Figlio” (1 Cor 1, 9), allo “Spirito Santo” (2 Cor 13, 13), al “Vangelo” (Fil 1, 5), ai sempre attuali “patimenti di Cristo” (Fil 3, 10), alla “fede” (Fm 1, 6); in tal modo diventiamo apportatori di nuovi atteggiamenti dello Spirito nella realtà. Prima di essere artefici di nuove organizzazioni tecniche della società, di nuovi sistemi economici, di nuove strutture, di “cose nuove” da fare, siamo volti a “fare nuove le cose” (non nova, sed nove), perché incessantemente alimentati dalla forza dello Spirito vivificante». Anche nella nostra comunità, dunque, noi dobbiamo preoccuparci di invocare ardentemente l’aiuto dello Spirito Santo affinché non solo ci conceda di fare cose nuove ma ci renda soprattutto capaci di fare nuove le cose che già ci sono.
Come si può leggere in un recente articolo pubblicato nell’Osservatore Romano del 31 maggio 2009 (Manuel Nin, Lo Spirito che ha reso teologi i pescatori), lo Spirito Santo, se pregato o invocato adeguatamente e possibilmente dall’intera comunità, concede il dono dell’unità, unità di sentimenti di intenti e di azioni in Cristo. E concede anche il dono della diversità, facendo sí che ognuno con le sue qualità e i suoi carismi cooperi alla costruzione e alla vita della comunità e della sua unità spirituale senza introdurre nella stessa vita comunitaria alcun motivo di rivalità e di divisione ma semmai qualche motivo di vera speranza e di genuino progresso spirituale. Questa è, non può esservene un’altra, la santa comunione spirituale, che si basa sul desiderio incessante di stare e sacrificarsi con Gesù per servire insieme a lui i fratelli nella verità da lui annunciata e non a prescindere da essa, e che non può non tradursi dentro la comunità anche in una santa comunione eucaristica.
Mi sono annotato quel che ho sentito dire una volta ad un sacerdote che predicava in una parrocchia da me occasionalmente frequentata molti anni or sono: «La Chiesa è fatta di diversità, di doni, di atteggiamenti: dobbiamo avere la capacità e il respiro ecclesiale per accogliere questa diversità e non cercare subito l’occasione per giudicare, per fare graduatorie…Solo se si soffre ogni giorno, a causa di questa diversità, si comprende che essa è Grazia. Benedire sempre coloro che protestano, coloro che se ne vanno, coloro che ci fanno far fatica a stare insieme; benedire sempre, perché c’è Grazia che passa, vita nuova che può rigenerarsi a partire dalle sofferenze». Il che, anche se su qualche espressione qui usata il controllo semantico può apparire un po’ carente o difettoso, implica sostanzialmente che la comunione in Cristo si deve realizzare non verso livelli bassi o infimi ma verso livelli alti e sempre più alti, e una comunità adulta dovrà rendere sempre conto del suo operato e delle sue scelte senza pretendere mai di mettersi definitivamente al riparo da incomprensioni e critiche specie se legittime e fondate.
Si può essere in comunione solo se si intende e si vive ogni giorno la pace di Cristo. Cosa comporta il vivere la pace e nella pace di Cristo? Comporta che il credente responsabile sa di non possedere la verità ma di doverla sempre cercare perché il credere in Gesù esige non lo star fermi, immobili in una contemplazione estatica della sua immagine ma il continuo cercare la sua divina persona e il cercarla negli ambienti più diversi e nelle situazioni più imprevedibili. Comporta che il credente responsabile, maturo, adulto, non può pretendere la pace ma deve trasmetterla anche mettendo umilmente in subbuglio la coscienza dei suoi interlocutori, perché sa che il suo compito prioritario non è quello di tranquillizzare ma di contribuire a liberare, sia pure col dovuto tatto, la mente e lo spirito del suo prossimo dall’errore e dal peccato. Comporta che il vero credente non si adagia nella fedeltà passiva dell’obbedienza immotivata né riduce la sua fede ai commenti giornalieri che si fanno in sacrestia, né si limita a parlare del regno di Dio, impegnandosi al contrario incessantemente e pagando di persona al fine di costruirlo in silenzio e senza lamentarsi del fatto che esso sia sempre molto lontano dal potersi realizzare in modo compiuto. Comporta altresí che egli non ostenti le proprie sofferenze (se non forse qualche volta in presenza di persone a lui molto intime e particolarmente fidate) e non avverta il bisogno di imporsi, la tentazione di comandare o di minacciare di andarsene o anche di evidenziare i propri presunti o reali meriti. E infine comporta che egli sia soprattutto attento a distinguere ma anche a non separare la fede dalla vita, la preghiera dall’esistenza, la conoscenza dal mistero, il cielo dalla terra, perché, come diceva sant’Agostino, «chi non è spirituale anche nella carne, diventa carnale anche nello spirito».
Ma la parola più chiara sulla pace di Cristo l’ha espressa papa Benedetto XVI: «La pace di Cristo si diffonde solo tramite cuori rinnovati di uomini e donne riconciliati e fatti servi della giustizia, pronti a diffondere nel mondo la pace con la sola forza della verità, senza scendere a compromessi con la mentalità del mondo, perché il mondo non può dare la pace di Cristo: ecco come la Chiesa può essere fermento di quella riconciliazione che viene da Dio» (La Chiesa, unità nella diversità, Pentecoste maggio 2008). Peccato che si sia trovato e si trovi il modo, anche in ambito cattolico, di dare interpretazioni troppo riduttive o comunque inadeguate persino di un concetto cosí chiaro a causa di un’insufficiente attenzione prestata a quella asserita necessità di un continuo rinnovamento dei cuori di uomini e donne che produce in essi la capacità di riconciliarsi non una volta ma sempre con il Signore e con i fratelli e di farsi servi esclusivamente della verità ovvero di Cristo il quale ammonisce a non considerare mai definitivamente acquisita la propria fede e ad usarla non per accettare il mondo cosí com’è ma per contribuire con tutte le proprie forze a rimuoverne limiti e deformazioni in tutti i suoi ambiti, a cominciare naturalmente da quello comunitario ed ecclesiale.