Bertone e l'enciclica di Benedetto XVI

Scritto da Louis Rubillo on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Il cardinale Tarcisio Bertone è tornato sull’enciclica di papa Benedetto XVI per illustrarne e spiegarne alcuni punti essenziali e particolarmente rilevanti a quello che egli ha definito un “qualificato uditorio”, ovvero il senato della repubblica italiana (Efficienza e giustizia non bastano: per essere felici ci vuole il dono, in L’Osservatore Romano del 29 luglio 2009). Secondo Bertone il papa ha spiegato bene che verità e carità, che sono doni di Dio “inseparabilmente congiunti”, non sono prodotte “arbitrariamente dall’uomo” ma donate “all’uomo e da lui ricevute” (Ivi). Posto che sia cosí, ci si chiede tuttavia se questi doni che gli uomini ricevono da Dio non debbano poi essere gradualmente scoperti, conosciuti e conquistati, per via di esperienza e di riflessione, sul piano conoscitivo e volitivo dai singoli uomini, che hanno ricevuto in misura diversa anche il dono dell’intelligenza e della sensibilità, e se questo inevitabile passaggio attraverso la soggettività umana non implichi necessariamente una conoscenza e un’acquisizione spirituale più o meno profonde dell’oggettiva universalità di quei doni.   

Ci sono i doni di Dio e ci sono anche i modi in cui soggettivamente ogni uomo, insieme ad altri uomini o con il loro aiuto, viene elaborando il significato e il senso di quegli stessi doni. All’interno della Chiesa le possibilità di elaborazione sono indubbiamente ottimali perché si può disporre della tradizione evangelico-apostolica e del magistero ecclesiastico e pontificio che sono guide necessarie e insostituibili per chiunque voglia intendere correttamente i concetti di verità e carità espressi da Cristo. Ma questo non toglie, proprio per quell’ineliminabile fattore di interpretazione soggettiva, che tali concetti possano venire intesi e praticati, proprio all’interno della Chiesa, in grado più o meno adeguato e soddisfacente.

Ora, si intuisce il senso positivo di quel che dice Bertone, e cioè che efficienza e giustizia senza il dono della fraternità non bastano a rendere felice l’uomo. Ma forse ci si può chiedere se l’efficienza, ovvero la capacità organizzativa e produttiva, e la giustizia, ovvero il complesso di norme che regolamentano le umane attività e i rapporti tra gli uomini sui diversi livelli del loro agire nonché lo spirito di solidarietà e lo stesso spirito fraterno di carità che devono presiedere non solo ad ogni azione individuale ma anche ad ogni attività legislativa e di assistenza sociale, non siano anch’essi dei doni. Se non si tratti dunque di approfondire continuamente il senso dell’efficienza e della giustizia, di chiedersi cosa sia veramente efficiente e giusto e in particolare se l’una e l’altra possano dirsi tali anche se prive di spirito fraterno. Per un cristiano non possono darsi efficienza e giustizia che non siano già intrinsecamente fraterne, che già in origine non siano esercitate con spirito fraterno. Non c’è un’efficienza, una giustizia, cui bisogna aggiungere la fraternità, perché la fraternità è una componente essenziale dell’una e dell’altra e, se manca, questi termini sono impropri, non denotando quel che vorrebbero denotare, e pertanto dovrebbero essere cambiati non potendo essi cosí denotare reale efficienza e reale giustizia.

 Ma il problema è che se efficienza e giustizia fossero o diventassero specifiche estrinsecazioni dello spirito fraterno di carità (che non ha sempre o necessariamente un’esplicita valenza religiosa), sarebbe semplicemente impensabile una società basata sull’accumulo illimitato di capitali e di ricchezza, sull’assoluto diritto alla proprietà privata, sulla concorrenza sfrenata, sulla discriminazione tra cittadini abbienti e cittadini non abbienti, sulla subordinazione delle priorità etiche e spirituali alle esigenze del mercato e del consumo. Una vera, radicale spiritualizzazione dei criteri di efficienza e di giustizia, pur non potendo evidentemente garantire da ogni possibilità di errore umano e di sopruso, finirebbe inevitabilmente per spingere fuori del “sistema”, al di fuori di un modo di produzione che genera invariabilmente e sistematicamente corruzione ed iniquità, al di fuori di una cultura sociale avvizzita e abitudinaria persino nelle sue forme più originali e incapace di trasmettere fresche ed innovative energie spirituali.

Non è che il bene comune, tanto caro a Benedetto XVI e a Bertone, sia perseguibile in modo indolore o senza strappi visibili. Se noi pensiamo che, proponendo la fraternità come correttivo di un sistema capitalistico decrepito e irrazionale, il bene comune sarà più a portata di mano, vuol dire che il discorso di Gesù sull’“iniqua ricchezza” non è stato ancora recepito perfettamente: sino a quando non si troverà un modo, quanto più incruento possibile, di offrire concrete opportunità di lavoro a tutti e non si farà in modo che uno non possa arricchirsi oltre un certo limite affinché di ogni genere di guadagno eccedente solo il bene pubblico, e più segnatamente i più poveri o i più bisognosi, abbiano a beneficiarne, noi continueremo a lavorare per una società ingiusta ed ipocrita. Sino a quando non saremo disposti a far circolare il nostro denaro (come il nostro affetto fraterno), in proporzione alle nostre reali possibilità economiche, per aiutare gli altri, per sostenere i più deboli, per ridare vita e amore a chi vive nella tristezza e nella disperazione, noi continueremo ad ingannare noi stessi. 

Ma allora, si dirà contrariati per l’ennesima volta, si vuole riproporre un modello comunista di società? Questa è una vecchia solfa che sarebbe tempo di accantonare definitivamente, perché è ormai evidente che non ha mai prodotto buoni risultati. Il comunismo è ateo e non può interessarci; il comunismo è rivoluzionario e noi sentiamo di non poter essere rivoluzionari nello stesso modo. Ma, se proprio vogliamo dire la verità, non è il cristiano che prende in prestito dal comunismo la socializzazione mirata e intelligente dei beni materiali ed immateriali ma è semmai il marxista-comunista che ha preso o continua a prendere in prestito dal cristianesimo la comunione dei beni, che nelle prime comunità cristiane era prassi largamente accettata e condivisa, per cui il cristiano che oggi voglia ancora ispirarsi a quella nobile tradizione della storia cristiana non è in alcun modo ricattabile essendo piuttosto gli altri a doversi preoccupare. 

La Chiesa deve insegnare e aiutare a costruire su questa terra il regno di Dio e nel regno di Dio non ci sono né classi, né divisioni sociali, né proprietà esclusive di qualcuno, né forme abnormi e dannose di concorrenza, né condizioni di diseguaglianza, né sentimenti di egoistica ostilità. E’ questo che bisogna dire innanzitutto con molta franchezza. Alla Chiesa bastano poche e semplici parole per far comprendere a tutti, senza fraintendimenti e ambiguità, il pensiero di nostro Signore Gesù, e, per togliere ogni dubbio circa la sua fedeltà a Cristo, le è sufficiente ripetere pari pari le parole pronunciate da lui in materia di beni e di ricchezza. Solo dopo essa potrà anche concedersi a disamine filosofiche o teologiche più o meno complicate e riservate a pochi. Ostinarsi a non capirlo significa rischiare, nonostante ogni  intenzione di segno contrario, di perdere il contatto sia con Dio sia con il popolo di Dio.      

Quindi sarà pur vero come dice Bertone, riprendendo ancora il pensiero del papa, che «mercato e politica necessitano “di persone aperte al dono reciproco”» e che non solo la reciprocità insieme alla democrazia «è valore fondativo di una società» ma è addirittura «dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo» (Ivi). Ma quel che bisogna dire chiaro e tondo, senza preoccupazioni diplomatiche e giri di parole, è che i ricchi si danneranno l’anima e il corpo se non muteranno profondamente il loro modo di agire, se non smetteranno di vivere in funzione di precisi interessi economici personali; ed è anche che quelli che ricchi non sono andranno incontro alla stessa sorte se, recriminando contro i primi, in realtà coltiveranno l’inconscio desiderio di essere come loro.

Quel che bisogna dire chiaro e tondo è che, a tutti i livelli e in qualunque situazione di vita, quelli che hanno di più (in una accezione molto larga del termine) devono imparare a dare a quelli che hanno di meno secondo criteri fraterni di giustizia, di amore e di ragionevolezza che solo gli ipocriti possono reputare molto difficili da individuare. Cooperare all’avvento del regno di Dio e quindi anche di una società più giusta e più libera si può e si deve, a seconda dei casi, in termini di reciprocità oppure di univocità, di condivisione oppure di libera elargizione, mai in termini di assoluto possesso e di sostanziale separatezza spirituale dai più svantaggiati e indigenti: questo è il compito di chi crede in Gesù perché a questo egli ci ha chiesto limpidamente e categoricamente di lavorare e di finalizzare tutti i doni che abbiamo da lui ricevuto.

In queste precise e specifiche indicazioni si viene concretizzando e vorrei dire incarnando quel “fondamento trascendente”, di cui parla l’enciclica, senza il quale effettivamente, come essa recita, «i diritti umani rischiano di non essere rispettati».